E se il romanzo fosse già morto?

Nel 476 d.C., una delle tante date che (giustamente) ci fanno imparare a scuola, nessuno si era reso conto di quello che stava succedendo: il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, l’inizio del MedioEvo, la fine di un mondo che, con progressivi aggiustamenti, durava da più di mille anni. Cento anni dopo i senatori del popolo romano si riunivano ancora, e quando la notte di Natale dell’800 Carlo Magno si faceva incoronare da Papa Leone III era intimamente convinto di essere il diretto discendente di Augusto.

Dopo la morte di Shakespeare, nel 1616, decine e decine di autori continuarono a scrivere tragedie e commedie, così come autori ellenisti dei quali non si è serbato alcun ricordo producevano drammi due secoli dopo la morte di Euripide. E anche oggi qualcuno – Paul McCartney e Franco Battiato, ad esempio – si cimenta nella scrittura di opere sinfoniche che nessuno ascolterà mai. Ricordo che nei primi anni novanta la Telecom stava studiando dei dispositivi cordless per usare il telefono di casa anche a tre chilometri di distanza – proprio mentre stava esplodendo il fenomeno dei cellulari.

La fine, dunque – la fine di un’epoca, di un impero, di un’economia, di un genere – non sempre arriva con fragore di trombe, o accompagnata da un annuncio chiaro e comprensibile: ci si agita e si continua a credere di essere vivi, come quel personaggio dell’Orlando Furioso talmente preso dal combattimento da non accorgersi di essere morto.  E intanto nascono cose di cui nessuno si accorge – i piccoli roditori che mangiano le uova dei dinosauri, i grossi cavernicoli ai bordi dell’impero che cucinano la carne sotto le selle, e storie ironiche, divertenti e in prosa che sembrano voler fare a meno di tutte le regole della buona letteratura neoclassica: i romanzi. Ancora a metà del settecento, si considerava il romanzo come un genere minore, “per donne” (due disprezzi in uno); in “Madame Bovary”, metà ottocento, si ritiene che i libri importanti debbano educare e si guarda con pietosa tenerezza a quelle storie di piccoli borghesi così lontane dai fasti della mitologia, che era ancora il punto di riferimento della cultura alta… E’ solo nel ventesimo secolo che il romanzo diventa il più importante prodotto culturale della società: un prisma, una lente, una carta geografica per orientarsi, un piede di porco per scardinare convinzioni, un’entusiasmante esplorazione cognitiva senza precedenti.

Ma guardando lo stato di salute del romanzo del ventunesimo secolo, valutando la forza, l’importanza, la rilevanza di questo oggetto tutto sommato misterioso (non esiste ancora una definizione condivisa capace di comprendere contemporaneamente l’Ulisse di Joyce e l’ultimo libro di Giorgio Faletti), inizio a percepire un’aria da crepuscolo. Non si è mai pubblicato tanto come in questo periodo; eppure negli ultimi cento anni il romanzo non è mai stato così poco incisivo nella formazione della cultura di un popolo come ora. I libri durano sempre meno: se escono a gennaio, vengono rimpiazzati a giugno da un’altra infornata che verrà sostituita dalle strenne natalizie – Vespa, Volo, Follet, Rowling – e dopo dodici mesi nessuno si ricorderà più cosa era uscito dodici mesi prima. Quali sono i casi letterari degli ultimi anni? Cinquanta sfumature di grigio, la Trilogia Millennium  di Larsson, Gomorra di Saviano… e poi? Pensiamo agli anni cinquanta: Se questo è un uomo di Primo Levi, Lolita di Nabokov, Il dottor Zivago di Pasternak, Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Si legge di più, ma si parla meno di libri. Il mondo sembra fatto di una sostanza, di una consistenza, che non trova più il suo riflesso nella struttura e nella complessità di un romanzo. Qualche autore ha provato a rappresentare lo streaming contemporaneo – mi vengono in mente David Foster Wallace, qualcosa di illeggibile di Don DeLillo, e soprattutto Ellis in Glamorama – ma la loro grandezza sta soprattutto nella sensazione raggelante che ci sta dietro, e cioè che questo sforzo sia semplicemente vano. In che modo un’opera lirica potrebbe raccontare il mondo contemporaneo? In che modo potrebbe farlo un poema epico? Ecco, il mio timore è che tra poco dovremo chiederci: in che modo potrebbe farlo un romanzo?

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  1. marina sangiorgi ha detto:

    in fondo penso anch’io che il romanzo sia l’Ottocento. anzi, il romanzo sono due: Tolstoj e Dostoevskij (probabilmente).

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Anche il novecento ha avuto i suoi eroi: Nabokov, Saul Belllow, Philip Roth…. aggiungerei anche Thomas Mann, ma non lo conosco (e Nabokov non ne parlava bene..)
      Kafka è un discorso a parte
      Sull’ottocento, aggiungerei Dickens e Flaubert!

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  2. perdamasco ha detto:

    Per me non è morto; è in sonno. Lo risveglierà un bacio? Una bomba? Un grande dolore? Un odio o un amore? Lo sapremo. Quando un fato risveglierà la vita. Di nuovo e a nuovo.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Potrebbe essere un letargo molto lungo….

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  3. Muninn libri ha detto:

    Bell’articolo! 🙂 Ma il romanzo è uno degli strumenti più flessibili prodotti fin’ora. E proprio per la sua condizione polimorfa da sempre riesce ad adattarsi alle situazioni. Non necessita di molte competenze per essere compreso (a parte saper leggere) e ogni volta che nel corso della Storia la ricchezza e la cultura si ampliano verso il basso ritornano forme diverse di romanzo: il Satyricon, i cicli cavallereschi medievali, il romanzo d’appendice, il romanzo breve eccetera eccetera eccetera. Il romanzo alla fine è solo una delle tante maniere di raccontare una storia: si può fare lo stesso cantando, ballando, disegnando o raccontando, girando un film o un video, suonando una canzone componendo una poesia. Il romanzo può avere vita molto lunga, proprio perché non ha delle regole precise da seguire. Un sonetto, dopo la millesima volta che cambi le parole, avrà sempre lo stesso ritmo, un romanzo no. E non sono d’accordo su quelli che tu chiami casi letterari, non saremo ricordati per quello, è come dire che il primo novecento è caratterizzato da Carolina Invernizio solo perché vendeva più copie di Dino Campana. E allo stesso modo considerare scrittori come Joyce o Wallace o Gadda rappresentativi del romanzo, sono degli estremi. Noi stiamo in mezzo a leggere. Forse siamo in una situazione di sofferenza, più legata all’educazione alla cultura delle persone che al genere dominante, c’è molta più gente che legge e molta più gente che scrive, magari non sempre bene ma non disperiamo. Lunga vita al romanzo!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      E bel commento! 🙂
      Più tardi rispondo con calma – non ho certezze, e la tua visione mi piace, ma su alcune cose la penso diversamente..
      A dopo!

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      1. Muninn libri ha detto:

        Yawhol! Si, alla fine anche io potrei pensarla diversamente, potrei facilmente contraddirmi da solo…è così difficile sintetizzare discorsi come questi in un commento! 🙂

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    2. Paolo Zardi ha detto:

      E’ vero, esistono tanti modi per raccontare una storia, e il romanzo è uno di questi. Non credo che stia finendo la voglia di raccontare: sospetto, anche se piuttosto vagamente, che il romanzo non sia più la forma più importante, come invece è stato negli ultimi duecento anni. Non metto in dubbio i suoi mezzi, la sua potenza: metto in dubbio la sua centralità nella formazione della cultura di un paese. Voglio dire: attorno ai Promessi Sposi si è costruito il concetto di lingua italiana! Cosa sta costruendo l’Italia, ora? Cosa la sta definendo? Ecco, io non credo che sia il romanzo a farlo: vedo la presenza centrale della televisione, le forme di comunicazione su Internet, la timeline di Twitter e quella di Facebook, in qualche misura il cinema. Si parla più del film di Zalone (molto, molto di più) che de “La festa dell’insignificanza”, il nuovo libro di Kundera che forse conoscono in mille.
      Poi ci sono eccezioni, certo, e magari la situazione non è diversa da quella di cento anni fa – il racconto del passato è fatto da chi sa scrivere, e che tipicamente ama leggere – ma non posso farmi a meno di domandarmi se il romanzo non stia morendo…

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      1. Muninn libri ha detto:

        Si…è vero che ora non ci sono più i Promessi Sposi, ma magari basterebbe aggiornare i programmi scolastici con Levi Calvino o Buzzati. Quello che volevo dire nel raccontare le storie è che ci sono tanti modi diversi di farlo..e possono coesistere tranquillamente. Il fatto che manchi un romanzo come base per l’educazione non significa che gli altri medium siano più fondanti o efficaci…aspettiamo ancora qualche anno…e magari speriamo in una fine col botto!

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  4. Zio Scriba ha detto:

    Ma una visione troppo ampia, sociologica e storicizzata, non rischia di appiattire le cose? Uno cerca, in buona fede, di allargare la prospettiva in modo scientifico e razionale, e magari finisce col restringerla, o comunque si preclude la bellezza e l’importanza dei particolari del quadro. In altre parole: se ci mettessimo ad analizzare il mondo secondo tempi geologici e cosmici (perché no?), allora TUTTO sarebbe moribondo, perché l’esplosione del nostro Sole è dietro l’angolo! (Ma probabilmente l’umanità prolifica, imbecille e violenta si estinguerà molto prima…)
    Se davvero il romanzo è morto, io noto con piacere che il pianeta pullula di necrofili (i lettori) e di zombie (gli scrittori). Quasi tutte le persone più intelligenti e sensibili (e persino alcune persone moderatamente stupide!) leggono: certo, esse costituiscono un’eletta MINORANZA, ma questo è inevitabile e fisiologico. È così sbagliato e limitativo ed egoistico concentrarsi sul “noi” e vivere l”adesso”, senza elaborare modelli d’interpretazione globale? Una delle cose più meravigliose della mia vita (diciamo pure uno dei pochi antidepressivi che me la salvano e me la rendono sopportabile e interessante) è poter scrivere e leggere bei romanzi. L’uomo di domani (e magari il 99% di quelli di oggi…) sarà uno schiavo analfabeta buono solo a lasciare impronte digitali su uno schermo pieno di loghi colorati e geroglifici erotizzati? Peggio per lui! La deriva dell’intelligenza umana mi intristisce e mi fa orrore, ma qui e adesso mi riguarda e ci riguarda più o meno quanto la deriva dei continenti. Tutto è vano, ma le cose belle non moriranno finché ci sarà anche un solo individuo desideroso (e capace) di apprezzarle e custodirle.
    Ma forse questo pezzo (e il primo commento…) soffrono di un equivoco su ciò che si intende per Romanzo. Se per Romanzo s’intende solo un colosso di complessità ottocentesca rigidamente codificato e canonizzato, allora è probabile che (per fortuna?) sia morto per lasciare il posto a qualcos’altro (credo che Dostoevskij, che ADORO, se vivesse oggi scriverebbe egualmente, ma scriverebbe in modo MOLTO diverso). Io la vedo più come un’evoluzione (a volte migliorativa, a volte peggiorativa), o, come diceva quell’altro bel commento, come qualcosa di molto flessibile: un Romanzo può essere leggero, strano, originale e divertente, può essere lungo 140 pagine, può esser stato scritto l’altroieri o in attesa di essere scritto dopodomani, ed essere lo stesso qualcosa di meraviglioso, gustoso e geniale, e soprattutto ancora capace di svelarci più cose sulla natura umana che cento trattati di psicologia, sociologia, antropologia. Se vogliamo chiamarlo con un altro nome perché c’entra poco o nulla con quelli di Tolstoj, per me non c’è problema. Ma se stabiliamo di chiamarlo Romanzo (lo splendido “La vita davanti a sé di Romain Gary è un Romanzo o è qualcosa d’altro?), direi che con tutte le contraddizioni, le difficoltà e le miserie di questa nostra epoca, esso è più vivo che mai.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Io non credo che una visione storicizzata, sociologica o qualsiasi altra cosa sia incompatibile con una visione, diciamo così, estetica del romanzo: sono due piani diversi. Non è sbagliato vivere solo per il presente; non è neppure sbagliato, però, provare a immaginare come un fenomeno sta evolvendo.
      Se diciamo che è “romanzo” tutto ciò che ha più di cento pagine e non è un’enciclopedia o un elenco telefonico, è probabile che questa forma di espressione abbia ancora vita lunga; io, però, sto parlando di quel particolare oggetto nato intorno al 1600, e che si è evoluto fino al romanzo occidentale del ventesimo secolo. Possiamo dire che l’Odissea è un romanzo? Io direi proprio di no, così come non possiamo dire che “The wall” dei Pink Floyd è una sinfonia. Non stiracchierei, quindi, le definizioni per dire che il romanzo c’è sempre stato e sempre ci sarà: prima non esisteva, poi è cambiato, e quindi cambierà, Si tratta di capire quando, e come.
      Le spinte – tutte le spinte – si esauriscono. Nessuno scrive più poemi epici, ma il fatto che siamo in grado di apprezzarli non significa che abbia senso scriverne ancora; allo stesso modo, siamo in grado di apprezzare le sinfonie di Mozart, le opere di Verdi, i quadri di Michelangelo, ma rideremmo se qualcuno ora cercasse di creare una nuova Cappella Sistina. Sono duemilacinquecento anni che si scrivono tragedie e commedie: conserviamo però solo tre periodi ben precisi, molto limitati, mentre consideriamo come irrilevante la produzione di tragedie nel terzo secolo avanti Cristo ad Alessandria d’Egitto, o quella inglese dei primi del settecento, ecc ecc. Il fatto che si sia sempre continuato a scriverle e a rappresentarle non dice nulla sullo stato reale della tragedia come forma di espressione.
      Il romanzo non è a questo punto, e forse non è mai stato meglio; ma forse, invece, sta iniziando il suo declino. Magari stanno nascendo strumenti, mezzi, forme narrative che, forse sono in grado di rappresentare l’attuale natura umana (sempre mutevole) meglio di quanto sappia fare ancora il romanzo – con maggiore precisione, superiore incisività, maggiore capacità di incidere nell’immaginario collettivo. Continueremo a scrivere e a leggere romanzi, ma forse – ripeto: le mie sono ipotesi – da un certo punto in poi queste storie non lasceranno alcuna traccia interessante nella storia dell’uomo, come le riunioni del Senato romano del 570, le tragedie italiane del 1700, o le sinfonie contemporanee….

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