Betelgeuse

Mentre sta seduta, quasi inclinata, sulla poltrona molto confortevole della macchina che suo marito ha comprato con il sudore della fronte, in leasing (tre anni, e poi si cambia macchina), e la notte lambisce i confini dell’orizzonte, come una massa scura che insegue gli infaticabili lavoratori di ritorno verso Milano, alle 18 e qualcosa, sulla A4 (e accoglie, invece, come un presagio lontano del ventre della morte, lavoratori assolutamente identici che corrono nel senso contrario) – mentre è seduta, dunque, e ranicchiata, piegata, raccolta nella sua fragile compostezza – le mani, costellate di macchie epatiche sul dorso, raccolte nel grembo, vicine ai guanti di pelle chiara, gli occhi socchiusi, un leggero tremolio della testa, la collana di perle sul maglione grigio – un camion tenta un sorpasso inaspettato. Il marito suona il clacson, e urla qualcosa, alzando il braccio; lei si sveglia di colpo dal suo leggero torpore.
C’è pioggia; sottile. I tergicristalli, impostati sulla frequenza minima, fanno il rumore della gomma che stride, sul vetro appena bagnato. “Meno veloce di così non si può”, le dice il marito, come a scusarsi dei limiti della tecnologia: “la prossima macchina sarà diversa, promesso”. Lei appoggia la mano sulla gamba secca di lui, ma poi gira il viso verso il finestrino del proprio lato. La terra è ancora brulla – la primavera che pareva arrivata solo qualche giorno prima, ha fatto marcia indietro, a quanto pare. In lontananza, intravede una chiesa appoggiata sopra una piccola collina, con una cupola sproporzionata. Lungo i bordi dell’autostrada, scorrono capannoni, case di campagna, una montagna cubica di sabbia; i tralicci dell’elettricità, un distributore, alberi secchi, piccole serre, un canale, complessi preindustriali, ancora capannoni. Un treno per un po’ li insegue, poi si perde nel cuore di quella pianura. Davanti a loro, c’è ancora il camion, spinto verso ovest ad una velocità incompatibile con qualsiasi legge. “TransRomania, Bucuresti”. Sul telone, scosso dall’aria come la vela di una nave, si legge anche il nome della via – B.dul Carol I, 31. Lì, a quest’ora, in B.Dul Carol I, 31 – immagina lei – sarà già notte.

La notte era quasi tiepida, e profumata di fiori. Lei e sua sorella camminavano veloci verso la sagra, organizzata in un grande campo incolto fuori dal paese. Si udiva la banda suonare, in lontananza – una canzone in italiano, una in sloveno, una in triestino. Qualche volta entrava pure qualcosa in una specie di inglese, e allora i soldati americani si alzavano di scatto, tutti insieme, nelle loro divise bianche da marinai di oltre oceano, e iniziavano a ballare – erano sufficientemente giovani per essere goffi e, allo stesso tempo, terribilmente irresistibili: i sorrisi così bianchi, le chewingum, le sigarette dietro l’orecchio, e la brillantina.
Si sedettero – lei e la sorella – sul bordo di una panca di legno – un po’ troppo sul bordo, probabilmente, e perciò finirono per terra. Dopo un primo momento di stupore, si guardarono, e scoppiarono a ridere. Rise anche un ragazzo che si trovava poco distante, con il corpo appoggiato al tronco di un albero – lei aveva notato che lui la osservava da quando era arrivata, con uno sguardo dolce e divertito.
“Non mi sono fatta male”, gli disse lei, da lontano, con aria un po’ di sfida, mentre era ancora seduta a terra, con la gonna bianca aperta a ruota come un fiore. Lui le sorrise, con una gentilezza che a lei sembrava di non aver mai conosciuto, e poi se ne andò, quasi in punta di piedi. Lei fece finta di niente, ma quando, poco dopo, lo cercò con gli occhi, era già stato inghiottito dal bosco scuro che costeggiava il lato est di quella piccola radura.

Nell’estate del 1953, in tutto il Territorio Libero di Trieste, era un susseguirsi di feste di paese. Arrivavano orchestrine da ogni parte del Friuli e dalla Jugoslavia, con le fisarmoniche, i tamburelli, le trombe. “Polenta per tutti”, dicevano alcuni cartelli attaccati agli alberi che costeggiavano le strade, oppure “Liscio fino a mezzanotte”. Lei, non ne perdeva una.
Alla sagra di Opicina, le parve di rivederlo, di spalle, gli stessi riccioli scuri – provò anche a chiamarlo, ma non si girò: capì comunque che era lui perché anche questa volta sparì nel nulla. Poi, a Santa Croce, lo rivide – questa volta di fronte, il viso illuminato dalla lampada che dondolava sopra il bancone del vino – e lo salutò, da lontano, senza mostrarsi troppo felice di averlo incontrato: lui le strizzò l’occhiolino, e continuò a fissarla per almeno minuto (“due minuti buoni”, raccontò a sua sorella, la sera stessa; e sua sorella: “è uno zingaro, non l’hai visto?”). La terza volta, ad Aurisina, finalmente lei trovò il coraggio di rivolgergli la parola – erano ancora entrambi abbastanza giovani da non dover ritenere sconveniente il fatto che fosse stata lei, e non lui, a fare il primo passo.
“Piacere”, gli disse, tendendogli la mano, con un sorriso che diceva “va bene, mi sono arresa”.
Lui sorrise, come se stringersi le mani fosse qualcosa che non lo riguardasse ancora, o non più, e le disse semplicemente “ciao”, con un accento che lei non aveva mai sentito.
“Io mi chiamo Dunja. Tu?”
“Bel nome.”
“Come ti chiami? Di che paese sei?”
Lui indicò con il dito il bosco dietro di sé.
Lei si sporse per guardare oltre la sua spalla.
“Da San Dorligo?”
“No, no. Da là, oltre gli alberi, da Est.”
“Dalla Slovenia?”
“Di più.”
“Sei serbo? Cosa c’è più a Est? Ungheria? Esiste ancora?”
“Più o meno da quelle parti.”
Uno degli uomini che gestivano il fuoco sul quale cucinavano la carne di maiale, e i polli, lo chiamò: “Ehi, Polenta, cosa fai? Vieni qui ad aiutarci!”, e agitò una mano grande come un badile.
Lui la guardò sorridendo – “Non ridere, non mi chiamo così!!” – e corse via.

Osserva una goccia sul finestrino del proprio lato, che si sposta lentamente da sinistra verso destra.
“Vuoi che ci fermiamo a mangiare qualcosa in autogrill?”
“No, preferirei andare a casa direttamente, se non ti dispiace. Mi sento particolarmente stanca.”
“Potresti chiamare Maria e dirle di preparare la cena per le otto. Qualcosa di leggero. Vado a dormire presto, questa sera. Domani ho un consiglio di amministrazione.”
“Le mando un sms.”
Mette gli occhiali, che tiene legati al collo con una sottile catenina d’oro. Il pollice le trema un po’, sulla tastiera del cellulare. “Prepara la cena per le otto, grazie”. Poi invio. Il messaggio ora è in volo nell’etere sempre più scuro, tra le stelle; prima di ridiscendere verso Milano, passa vicino ad un aereo illuminato dalla luna pallida – o almeno, questo è ciò che pensa lei, mentre rimette il telefonino nella borsa nera.
Poi la pioggia smette di scendere. Le nuvole spariscono, quasi all’improvviso. L’auto continua la sua corsa – seconda corsia, terza corsia, abbaglianti, sorpasso, seconda corsia – mentre il sole è ormai sceso dietro alle montagne lontane, lasciando un’aureola arancione attorno al mondo.
“Siamo vecchi, lo sai?”
“Dici?”
“Le mie mani sono uguali a quelle che aveva mia nonna quando ero piccola. La abbracciavo stringendola forte. Tra poco morirà, pensavo, e poi non lo potrò più fare.”
“Erano altri tempi. Quando tu eri bambina, le donne morivano ancora giovani.”
“Ecco, vedi? Sono così vecchia, che il mondo ha fatto tempo già a cambiare, da quando sono nata.”
“Per fortuna. Abbiamo settant’anni, eppure guardaci: chi lo direbbe?”. Gira il viso verso di lei e le sorride con un sorriso così gentile che lei quasi si dimentica che i denti che le mostra non sono i suoi.
“Pensavo” – dice lei, quasi sottovoce – “che gli anni non si accumulano, no: stanno là, uno sopra l’altro. Ma non sono come le pagine di un libro, è diverso. Sembra che non ci sia un prima e un dopo. E’ un mucchio dal quale si pescano ricordi, alla rinfusa. A volte mi sembra che ieri sia un secolo fa – dove eravamo? a pranzo con quale tuo cliente? – e che un secolo fa sia questa mattina.”
“E adesso, stai pescando qualche ricordo?”
“No, nessuno. Seguo le gocce sopravvissute alla pioggia di prima che corrono sul finestrino. Cerco di leggere le targhe dei camion. Penso alla gente che vive nelle case che vediamo da qui – le luci accese, qualcuno che fa i compiti, qualcuno che cucina. Guarda quel paese: non sembra una costellazione?”
Lui annuisce.
Lei si stringe la mano sinistra nella destra. La fede, che non le esce più dall’anulare, sembra ancora liscia.

“Guarda, lì in alto. La vedi?”
“Quale?”
“Segui la punta del mio dito. Ecco, la linea… Quella. Vai avanti ancora un po’.”
“Lì a sinistra?”
“Sì.”
“Credo di averla vista. Giurerei che è lei.”
“E’ lei, sì. Guardala bene: ti sta fissando. Non ti molla mica.”
“Come si chiama?”
“Ha tanti nomi. Quale vuoi sapere?”
“Quello che usano al tuo paese. Quello dal quale vieni.”
“Ne ho tanti, di paesi dai quali vengo. Ti va bene uno qualsiasi?”
“No. Questa volta dimmi di quello che aveva il mare.”
“Quello con il mare… Era lontano – si sentiva solo l’odore quando tirava vento, ma non l’ho mai visto. Lì, la chiamavano Beit Algueze, o qualcosa del genere. La mia Baba, un Gurgevdan – ero ancora piccolo – mi raccontò una fiaba su di lei. Ricordo ancora come iniziava: ‘Cera e non c’era una stella, che il sole non voleva vedere…’. ”
“Qui da noi, nel territorio libero, come la chiamano?”
“Il territorio libero… Tu non lo sai, ma questo è il posto più bello del mondo. Non siete di nessuno stato, non avete nessuna lingua. Avete solo le stelle, sopra di voi. Comunque, gli Sloveni come te la chiamano Betelgeza. Gli italiani la chiamano Betelgeuse. Gli Americani ne storpiano il nome, e la chiamano Beetle Juice, che vuol dire succo di scarafaggio.”
“Betelgeza. Buffo. Non l’avevo mai sentito.”
“E’ la nona stella più luminosa del firmamento. E’ la stella dei guerrieri. Annuncia l’arrivo di Orione.”
“E tu come fai a sapere queste cose? Chi te le ha insegnate?”
“Il mio papo, e gli zii, e mio papà. Poi, tempo dopo, un vecchio ebreo. La sera, sbirciavamo fuori, attraverso la finestra della baracca dove dormivamo. La vedi quella, mi diceva? E’ Sirio. Non c’è stella più luminosa di lei, non perderla mai di vista – mi sussurrava – è tutto quello che avrai. Pareva che lui sapesse tutto quello che ci sarebbe stato dopo.”
“Cosa c’è stato?”
“Per il vecchio non c’è stato nessun dopo, solo cenere; per me la fame, ed era già qualcosa. I piedi mi facevano sempre male. Camminavo attraverso i boschi e le città mezze distrutte, su strade che sparivano nel nulla, o che finivano in villaggi ancora in piedi, dove c’era qualcuno disposto a darti qualcosa da mangiare. Sopra avevo Canopo, Achernar, Becrux, e Fomalhaut. Non c’erano confini: se guardi il mondo dall’alto, è verde e azzurro, e bianco. Solo le città, ogni tanto, sembrano un cielo stellato. Hai mai guardato Trieste da Opicina? E’ la follia degli uomini, che rovesciano l’Universo.”
“Dov’eri? Dov’eri, quando camminavi?”
“Ero di là, a Est. Da lì, in poi” e le indicò con la mano il bosco, e tutta l’Europa che ci stava dietro – “ho visto tutto, davvero. Solo sulle montagne della Romania, non sono più stato. Credo di essere nato da quelle parti.”
“Eri povero, vero? Dopo, voglio dire.”
“Tasche sempre vuote, anche adesso. Ma non credere che mi dispiaccia, sai? Noi che non abbiamo niente siamo già eterni mentre viviamo – la morte non ci può togliere nulla. L’unica cosa che abbiamo è la fame, e ogni tanto, con un po’ di fortuna, riusciamo anche a togliercela per un po’ – basta un po’ di polenta.”
“E’ per questo che ti chiamano Polenta? Chi ti ha dato questo soprannome?”
“Il cuoco che c’era alla sagra. Mi prende in giro perché me ne sono mangiata quasi un chilo in meno di cinque minuti.”
“E qual’è il tuo nome? Non me l’hai mai detto.”
Lui diventò serio; si tirò su la manica e le mostrò l’avambraccio.
“Io sono questo” e le indicò un numero grigio tatuato sulla pelle. “Dopo che mia mamma, e i miei fratelli, sono stati divorati, io sono solo questo.”
Lei guardò quelle cifre, immobile come davanti ad un mistero. Poi avvicinò il braccio al suo viso; appoggiò le labbra a quei simboli, e iniziò a leccare con una dolcezza senza tempo – una mamma che lenisce una ferita del proprio cucciolo. Era pelle e ossa, e aveva un sapore di fieno, di erba, di resina – un piccolo animale selvatico in fuga.

“Puoi fermare?”
“Sì. Tra 22 km c’è un autogrill. Devi andare in bagno?”
“No, no. Ferma qui. In una piazzola.”
“Stai male?”
“No, tutto a posto. Basta solo che ti fermi un attimo.”
Lui si mette in seconda corsia, inizia a rallentare, aspetta che passino alcuni camion e passa alla prima. Quando intravede una piazzola, mette la freccia, esce, si ferma. Spegne tutto, anche la radio che trasmette telegiornali a ciclo continuo. Lei scende, facendo attenzione al gradino del SUV. Lui la segue. Ora sono fuori dall’auto, sotto un cielo ormai completamente buio – attorno, solo il rumore irreale delle macchine che passano a centoventi chilometri all’ora, in fuga da qualcosa di terribile – la vita.
Stanno zitti, entrambi.
Lui stringe le spalle, per scaldarsi un po’. Lei alza il viso verso la notte, e intravede le stelle più luminose, appena accennate in quel fragore di luce che è la pianura Padana. La cintura di Orione. A sinistra, Betelgeuse – il ricordo di un fulgore più intenso, e ormai smarrito. E in quella piazzola, a venti chilometri da Bergamo – con gli aerei che iniziano la loro discesa verso l’aeroporto, i camion rumeni che scendono da Est, e i secondi scanditi dai lampeggianti della macchina – un dolore antico ed inconsolabile scende in quel cuore: è un’onda nera in un oceano pieno di nulla, e la avvolge, la sommerge, la sfianca, mentre ogni cosa – la distanza incolmabile tra lei e i suoi ricordi, i camion che si sorpassano senza posa, il buio dei boschi ai margini del mondo – ogni cosa pare dirle che qui, su queste terra, c’è spazio solo per chi ha smesso di camminare – che Betelgeuse è sparito, scivolato tra i confini che lo inseguivano, inghiottito da un mondo nel quale l’unica libertà concessa è quella di scegliere di non averne pi – e che Betelgeuse è l’unico ad essere eterno, perché questa terra non lo ha posseduto mai, neanche per un giorno.

Chiude gli occhi. Ripensa al sapore della pelle che aveva assaggiato cinquant’anni prima – al rilievo di quelle cifre, a quel fuoco che tutto divora. E’ un brivido profondo. Poi riapre gli occhi e le pupille si contraggono, ferite.
Lui la guarda smarrito – intuisce, per un attimo, che esiste, da qualche parte, un mondo diverso da quello che ha scelto, o dal buio che lo insegue la sera, quando torna verso Milano; ma ormai è troppo tardi.
Si scuote.
“Tutto bene, Dunja?”
Lei aspetta un secondo per rispondere. Poi: “Tutto bene. Solo un po’ di ricordi. Sono vecchia, te l’ho detto.”
“Vuoi che ripartiamo?”
“Sì, andiamo.”
E mentre salgono sulla macchina, lei si ferma un istante: “Ehi, guarda, là, in alto: quella è Orione; quella è Betelgeuse – te ne avevo mai parlato?”

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  1. bortocal ha detto:

    sospiro

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