Chiavi

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Alcuni sostengono che senza Turing, gli Alleati non avrebbero vinto la Seconda Guerra Mondiale, o, almeno, non l’avrebbero vinta in cinque anni.
Altri, vedono in Turing, tipico esemplare di scienziato inglese atipico, il precursore di tutta l’informatica di oggi – la famosa “macchina di Turing”, modello matematico capace di formalizzare il comportamento di un elaboratore elettronico l’ha inventata lui, e tutti gli studi sull’intelligenza artificiale fanno riferimento ad un suo articolo scritto nel 1950.
E’ indiscutibile che egli abbia posseduto una delle menti più brillanti di tutti i tempi: basta andare su Wikipedia per capire su quali basi si possa arrivare a queste conclusioni.

La giornata di oggi – la sveglia che scuote da un sonno profondo alle sette e cinquantadue in punto, il caffè amarognolo più yogurt e mela (come prescrive la dieta), una doccia calda e veloce, l’occhiata furtiva alla casella di posta (e la pulizia dallo spam), i due nanetti che zampettano per casa grattandosi le punture delle zanzare sulle gambe, le chiavi della macchina prese al volo dal tavolino in entrata (sul quale erano state appoggiate con una fretta disordinata la sera prima), il PC nella borsa, un salto da un cliente (con lo stupore di sorprendere il nocciolo più interno dell’anima nell’atto di pregare una qualche divinità: fa che l’ascensore si blocchi – preferendo un pomeriggio chiuso dentro a quella specie di bara di cristallo, piuttosto che uno trascorso a risolvere i problemi che un PC porge agli essere umani), la serata che sarà uguale a molte altre, tranquillissime serate – ecco, quale senso può avere raccontare, e quindi leggere, una storia simile?

Nei suoi libri, Nabokov si diverte a mescolare la vita dei suoi personaggi con considerazioni sull’arte, e sul suo rapporto con il mondo. E’ la sua cifra stilistica: Nabokov ama disseminare i suoi romanzi di indizi, più o meno falsi, che potrebbero portare alla verità (la quale, nonostante sia necessariamente unica, non è mai quella che sembra essere): questi sassolini che lascia cadere indicano che ciò che stiamo leggendo non è la giornata di un lavoratore che si alza e va a trovare un cliente sperando di rimanere imprigionato in ascensore, ma, piuttosto, la rappresentazione artistica di un congegno perfetto, di un meccanismo dove ogni parte si lega ad un’altra, secondo regole di coincidenze, e regolarità, che vanno scoperte. In questo senso, Nabokov sostiene che un buon romanzo assomiglia alla proposta di un problema scacchistico, dove la soluzione è unica, ma ben nascosta; e che un buon romanzo, invece – e questa è una distinzione assai sottile – non assomiglia (non deve assolutamente assomigliare) alla descrizione di una partita a scacchi.

las meninas

Per fare un esempio, il personaggio principale de “Il Dono”, nel primo capitolo si sofferma a guardare un quadro nel quale è rappresentata una scena di vita quotidiana – una strada di Berlino attraversata da persone e tram. Appesi ad un palo, proprio vicino ad un’edicola, si vedono i coloratissimi poster che reclamizzano spettacoli serali – balletti e rappresentazioni teatrali. In mezzo a questi cartelli, un foglio con un annuncio: Smarrita collana di brillanti, lauta ricompensa a chi li ritrova. Alla base del palo, si intravede il luccichio di una collana. Di brillanti. Titolo del quadro: Coincidence. (Singer, nella prefazione al suo romanzo “Nemici – Una storia d’amore”, afferma che le storie che si raccontano contengono, per forza, coincidenze assolutamente non comuni – e che se non ci fossero, non esisterebbero nemmeno i romanzi.)
Questo dettaglio del quadro, che pare insignificante, in realtà è una chiave di lettura che Nabokov appoggia con finta casualità su un tavolino in entrata – c’è una porta, da qualche parte, pare dire. Cercala.
Il cuore, aggiunge Nabokov (ma è una verità che potremmo ricavare direttamente noi), è un lettore insolitamente stupido: per questo i suoi romanzi sono pieni di inganni sentimentali che solo l’intelligenza è in grado di svelare. Ma un computer, riuscirebbe a farlo?

Quando si iniziarono a sviluppare le prime macchine per il calcolo automatico, ci si pose subito il quesito: sarebbero mai state capaci di simulare il funzionamento di una mente umana? Turing, che fu la prima persona al mondo a scrivere un programma per giocare a scacchi (in un periodo così remoto che nessun computer sarebbe stato in grado di eseguirlo: lo applicò manualmente contro un suo amico, e perse in 29 mosse), Turing, dicevo, era intimamente convinto che la risposta fosse positiva, ed indicò anche una data entro la quale ciò sarebbe avvenuto: il 2000, cioè otto anni fa. La previsione fu sbagliata, ma solo in parte (personalmente, sono convinto che una nuova forma di intelligenza non vada cercata in un singolo computer sempre più potente, ma nelle connessioni, cioè nella rete: già adesso, se apro Google e gli faccio una domanda, ottengo quasi sempre una risposta sensata, senza che nessuno – né io né Internet – sappia da dove questa provenga, o come si sia formata).
In ogni caso, tutti ormai sanno che un buon programma di scacchi può battere il più grande campione di tutti i tempi; è probabile, quindi, che se Turing fosse vissuto un po’ più a lungo, avrebbe provato a scrivere un programma per scoprire la verità in un libro di Nabokov (e probabilmente avrebbe perso in 29 mosse).

Ma Turing visse solo 42 anni, per cui quel programma non è mai stato scritto. Poco più di cinquant’anni fa, nel 1952, Turing fu accusato di omosessualità, come era successo tempo prima anche ad Oscar Wilde. Al processo, nel quale, paradossalmente, l’unico “testimone contro” fu lui stesso (il procedimento fu avviato dopo che Turing denunciò il furto di oggetti personali da parte di un ragazzino che aveva adescato nei cessi di Manchester), non negò gli addebiti: si limitò ad osservare che non trovava, nel proprio comportamento, nulla di riprovevole.
Fu condannato ad una pena durissima: castrazione chimica, la quale lo rese impotente e gli fece crescere un seno femminile. Tenendo conto che Turing, oltre ad avere un cervello brillantissimo, era anche un atleta particolarmente prestante (correva la Maratona in due ore e trequarti), non è difficile immaginare che la nuova condizione nella quale si trovò costretto a vivere fosse insopportabile. Per questo motivo, nonostante la madre non ci abbia mai creduto (quella madre freudaniamente possessiva, della quale stracciava le decine di lettere che gli scriveva: il fatto che arrivassero, diceva, gli forniva l’unica notizia che gli interessava, e cioè che lei era viva), si suicidò.

Esistono diversi modi per porre fine alla propria vita: il signor Kingbote, l’enigmatico studioso che compila il poderoso commento del poema “Fuoco Pallido” nell’omonimo romanzo di Nabokov, ne fa un dettagliato elenco. L’etichetta prescriverebbe che un gentiluomo si spari contemporaneamente con due pistole appoggiate ad entrambe le tempie – questo gesto darebbe l’esatta misura della convinzione del gesto, e della sua irreversibilità. Tagliarsi le vene nell’acqua calda della vasca da bagno è molto senechiano, ma un pochino raccapricciante per chi dovesse poi trovare il caro estinto immerso in una pozza di acqua rossa. Chi si getta dal decimo piano di un palazzo non tiene in alcun conto la vita dell’ignaro passante che viene investito da 80 chili di massa suicida mentre passeggia su un marciapiede che non pareva capace di portare alcuna minaccia.
Senza perdersi in ulteriori dettagli, si può dire che la scelta del modo può essere utilitaristica, cioè semplicemente finalizzata al raggiungimento efficace dello scopo finale, oppure artistica: per raccontare, in qualche modo, una storia.

Turing scelse di uccidersi con una mela intinta nel veleno: la lasciò cadere in una tazzina piena di amarognolo cianuro di potassio, poi si sedette in una poltrona e la morse. Morse il frutto della morte, quello del sonno profondo. Si potrebbe dire che il più grande risolutore di enigmi matematici, che contribuì, con i suoi studi, a decifrare il codice di Enigma, lo strumento di crittografia usato dall’Esercito Tedesco per le comunicazioni tra i sommergibili sull’Oceano Atlantico, abbia voluto mettere, al margine estremo della sua vita, un indovinello.

Alcuni sostengono che volesse impersonare, almeno per un momento, il personaggio delle fiabe che più aveva amato fin dall’infanzia, cioè Biancaneve – una principessa decaduta, costretta a nascondersi per sopravvivere, ingannata da una strega cattiva (che la fa sprofondare in un sonno profondissimo), e infine salvata da un principe azzurro: Turing, nella sua poltrona, con il seno teso, la mente ancora lucida, canticchiando “Ay gò”, sogna di essere tra i suoi sette nani, protetto da una bara di cristallo, in attesa del bacio che lo avrebbe risvegliato.
Oppure quel frutto era lo stesso che il serpente aveva data ad Eva, e che Eva aveva girato ad Adamo: la chiave per accedere alla conoscenza del bene e del male, alla capacità di distinguerli l’uno dall’altro, in cambio della rinuncia all’albero della vita eterna. La morte come strumento per aumentare la propria consapevolezza.

Comunque, qualsiasi sia l’interpretazione (compresa: Turing era semplicemente impazzito), ci troviamo di fronte ad un gesto che contiene, al suo interno, aspetti fondamentali della narrazione, o almeno in quella teorizzata da Nabokov. Perché spalanca scenari inattesi. Perché è – con ogni evidenza – un indizio che punta verso una qualche soluzione che il lettore ancora non conosce. E poi porta con sé un mondo poetico completo – se sia quello di Biancaneve (e delle fiabe di un’infanzia piena di tenerezza e innocenza), o quello di un paradiso perduto, o l’unione dei due (così vicini nella loro potenza mitopoietica), è la domanda che viene infilata nel cuore del lettore: il quale, se disposto a lasciarsi intrappolare dagli artigli del romanzo, cercherà di trovare una risposta, con tutti i mezzi intellettuali ed emotivi che ha a disposizione.

Ecco: la storia che racconta gli ultimi giorni di un geniale matematico costretto, nella culla della democrazia, ad avere le tette, e che sceglie di uccidersi mordendo un pomo avvelenato, è qualcosa che varrebbe la pena di leggere; e, quindi, di scrivere. La mela, la fiaba, il giardino. L’intelligenza e il cuore. Il sonno. La morte. C’è tutto.

Mela avvelenata

4 commenti Aggiungi il tuo

  1. vibrisse ha detto:

    Molto interessante, Paolo. Assai bella la chiusa (doppia, testo e immagine) della storia.

    giulio mozzi

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    1. paolozardi ha detto:

      Grazie, Giulio!

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  2. morenafanti ha detto:

    bellissimo post. non avrei disdegnato, comunque, anche un racconto sul proseguimento di quella preghiera in ascensore.

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    1. paolozardi ha detto:

      Grazie, Morena. Per quanto riguarda il racconto, è sempre una bella sfida prendere un incipit e costruirci una storia sopra… vedremo!

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