O vattelapesca

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Dove si nascondono i ricordi? Quali sono i meccanismi per recuperarli? Qualche giorno fa ho ritrovato, a casa di mio padre, un libro che avevo letto tanti anni fa, e ripreso in mano da poco: “Alzate la trave, carpentieri e Seymour, Introduzione” di Salinger. A partire da questo ritrovamento, sono risalito, in modo del tutto scontato, ad un altro libro di Salinger, molto più famoso, che è “Il giovane Holden” che lessi nell’estate del 1982, a 12 anni, a Lorenzago; ed è bastato chiudere gli occhi perché riemergesse anche un dettaglio legato alla lettura di questo libro: lo iniziai nel tardo pomeriggio, ripresi a leggerlo dopo cena, e mi fermai a pagina 106. La notte, vomitai sulle scale che portavano verso il cesso della nostra rustica casetta.

Ci ho messo un po’ di più, invece, a ricordare un altro particolare e cioè che quello stesso giorno avevo iniziato e finito un altro libro; l’ultimo sforzo della memoria – questo un po’ più faticoso dei precedenti – mi ha permesso di arrivare al suo titolo: “Vita con gli orsi”. Su una scheda di questo libro, scritta da Matteo Bacchelli, un ragazzino della scuola 1A della scuola media Pascoli di Anzola dell’Emilia – scheda trovata in Internet cercando il titolo del libro – leggo le prime righe di un breve ma preciso riassunto:

“Nel giugno 1919 nel canale della manica arriva una barca con sopra Jim Stanton e sua moglie Luarette. Jim e’ orfano e ha vissuto in diverse famiglie dove ha imparato a segare la legna e a pulire le stalle…”

La scheda si conclude con questa sincera riflessione:

“Questo libro mi e’ piaciuto molto, e’ interessante e avvincente: anche a me piacerebbe vivere una simile
avventura, anche se forse, prima o poi vorrei tornare a casa.”

Conoscendomi, sono sicuro che, più o meno, era quello che avevo pensato anch’io, nel tardo pomeriggio di quel giorno d’agosto, nel salotto della casetta in montagna. Pochi minuti dopo aver chiuso la vita con gli orsi, però, ed aver fatto una riflessione simile a quella del buon Bacchelli di Anzola, iniziai a leggere la storia del giovane Holden.

Non credo di essere l’unica persona al mondo che quando legge qualcosa finisce per prendere l’accento – lo stile sarebbe troppo – dell’autore. Alle medie avevo un professore un po’ ottocentesco che iniziò a considerare belli i miei temi dal gennaio del 1983: durante le vacanze di Natale immediatamente precedenti avevo letto, in una camera a Venezia, il libro Cuore di De Amicis, al cui stile lacrimoso e barocco avrei adeguato il mio in tutti i temi successivi: la scuola, si sa, è una palestra di conformismo.

Tutti i temi, e i riassunti, che scrissi tra il settembre e il dicembre del 1982 erano invece ricoperti dai segni rossi della matita del mio professore: accanto alle frasi sottolineate c’erano indicazioni tipo “pleonasmo”, “anacoluto”, “espressione dialettale”, “epanastrofe”. A lui, evidentemente, non piaceva Salinger.

In realtà, certe caratteristiche dello stile di Salinger che conosciamo in Italia sono un’invenzione (geniale) di Adriana Motti, la donna che tradusse il libro per Einaudi. L’inglese è una lingua meno sensibile alle ripetizioni: per questo motivo, Holden può continuare a ripetere “and all” senza rischiare di dare fastidio al lettore. In italiano è diverso: ecco quindi la necessità di inserire quelle espressioni che noi consideriamo tipicamente holdeniane, o salingeriane, e che invece sono presenti solo nella traduzione italiana, come “e via discorrendo”, “compagnia bella” o “vattelapesca” – quest’ultima parola la scoprii proprio in quelle ore prima del tramonto, seduto sul divano color senape del salotto della nostra casa di Lorenzago.

Al di là della traduzione, rimane il fatto, comunque, che Salinger non si è limitato a scrivere un libro, ma ha inventato un nuovo linguaggio. La potenza di The catcher in the rye (un titolo che non fu mai tradotto), infatti, non sta tanto nella storia (per le due persone che non lo hanno mai letto: un diciassettenne abbandona la scuola, dal quale comunque sarebbe stato cacciato, e torna a New York, sua città Natale, dove passa un fine settimana vagando tra hotel, cinema, bar, zoo, piste di pattinaggio, con qualche lontano amico e con la sua piccola sorella Phoebe) quanto nella sua lingua “nuova”, una lingua (ecco un’epanastrofe!) con la quale Salinger si è posto gli stessi obiettivi di Dante quando decise di usare il volgare invece del latino: riuscire ad esprimere un mondo che fino a quel momento era rimasto sostanzialmente nascosto, ed inespresso. E non credo sia un caso che Mark Chapman, quando uccise John Lennon a New York, avesse in tasca una copia di The catcher in the rye

I successivi passi letterari che Salinger compì, prima di chiudersi in un esilio praticamente ininterrotto (al quale forse Roth si ispira ne “Lo scrittore fantasma”, e ne “La macchia umana”), furono “Franny e Zooey” e “Alzate la trave muratori” o vattelapesca, dove i personaggi sono una serie di fratelli genialoidi (da piccoli, in periodi diversi, hanno tutti partecipato con degl pseudonimi alla trasmissione “Ecco un Bambino Eccezionale”). Lessi questi due libri nell’estate successiva a quella del giovane Holden, durante un mese passato a Copenaghen: ma, usando un’espressione che non sopporto, non mi dissero nulla. Entrambi, richiedevano una consapevolezza, una maturità, e forse anche una cultura, che a 13 anni non possedevo.

Durante gli anni successivi, la mia passione per la lettura andò lentamente scemando, fino a sparire del tutto intorno al 1990. A ventiquattro anni, un libro di scarsissimo valore, la riaccese. A trenta, ripresi finalmente in mano quei due libri di Salinger che non avevo capito, e mi trovai di fronte, improvvisamente, a due gioielli luminosi. Pensai: ecco quello che ho sempre cercato. E anche: come è possibile che allora non fui in grado di apprezzarne la grandezza? La lettura è la proiezione di uno scrittore sulla vita di chi legge: un libro è fatto soprattutto della sostanza di cui si compone il cervello del lettore. I diciassette anni trascorsi tra l’estate a Copenaghen e l’inverno milanese durante il quale ripresi in mano le opere di Salinger avevano trasformato quei libri in qualcosa di completamente diverso: segno evidente che la lettura è, a tutti gli effetti, un atto creativo.

La storia potrebbe concludersi qui, con una semplice morale: più si cresce e più si impara ad apprezzare quello che leggiamo. Ma c’è una piccola appendice: non ho più trent’anni. Dal 2000 ad oggi, ci sono state tante novità. Tra queste, la scoperta di Philip Roth, ad esempio. E quella di Wallace. E, più di recente, quella di Nabokov, del quale sto leggendo, una dopo l’altra, tutte le opere. A Natale mia moglie mi ha regalato “Ada, o ardore”. Non l’ho ancora finito – e il problema non sono le 600 pagine che lo compongono, ma il peso specifico di ciascuna delle sue pagine. Ogni paragrafo è un capolavoro di stile; ogni capitolo, un esempio perfetto di cosa significhi la parola “struttura” in letteratura. E’ per questo che quando, ieri sera, ho ripreso in mano “Alzate la trave, carpentieri e Seymour, Introduzione”, ho pensato: era tutto qui?

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