Casa desolata – Charles Dickens

Le grandi idee

C’è un’affermazione un po’ provocatoria di Nabokov che mi torna in mente ogni volta che leggo un romanzo, e che dice più o meno così: “Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono inutili”. Nabokov era sicuramente irriverente, ed intemperante, e spesso arrivava a compiacersi della propria ruvidezza; ma il suo punto di vista sulla letteratura, che spesso mirava a colpire luoghi comuni poco fecondi, è quasi sempre quello giusto.

E questo suo aforisma mi è tornato in mente, ancora una volta, leggendo il romanzo “Casa Desolata”, di Charles Dickens – un romanzo scritto subito dopo il 1850, quindi ottocentesco fino al midollo: lo stile, la struttura, le grandi idee. Dickens aveva grandi idee – o era convinto di averne: le classi operaie sfruttate, l’agio ingiustificato delle nobili famiglie inglesi, l’ipocrisia di chi si preoccupava più dei problemi degli schiavi nelle piantagioni americane che dei poveri mattonai che gravitavano attorno a Londra, e ancora le condizioni precarie dei bambini costretti a lavorare in tenera età, il sistema giudiziario che puntava più al sostentamento degli avvocati che alla soluzione delle cause… e “Casa Desolata” è pieno, di queste grandi idee, che spesso traboccano fino al rischio di straripare: e in molte occasioni si ha l’impressione che Dickens, quando pensava a sé, si vedesse come uno “scrittore sociale”, impegnato, con i suoi romanzi, a forzare un cambiamento della società nella quale viveva.

Ora, non è da escludere che i suoi romanzi abbiano contribuito a migliorare l’Inghilterra – molti libri, più o meno consapevolmente, hanno cambiato il mondo – ma il motivo, l’unico, per il quale, a distanza di quasi 160 anni, ho passato la mia settimana di vacanza a leggere, con grandissimo piacere, “Casa Desolata” non è dato dalle grandi idee, che inevitabilmente sono legate al loro tempo, ma dallo stile e, in seconda battuta, dalla struttura. Dickens è un discreto moralista, un quasi discreto indagatore dei meccanismi che regolano una società, un moralizzatore convinto e quindi a tratti anche ingenuo; ma tutto ciò non basterebbe. Ciò che conta è che Dickens è un grandissimo scrittore, e un buon narratore. E volendo applicare alla lettera l’aforisma di Nabokov, in Dickens ci sono sia stile che struttura, anche se il primo prevale sul secondo.

Le parole

E’ per questo motivo che, volendo parlare di “Casa Desolata”, trovo del tutto inutile raccontare il contenuto del romanzo – le vicissitudini di una famiglia sull’orlo della decadenza, intrecciate a quelle di una povera orfanella che attraverso le sue grandi virtù, e un po’ di culo, riesce a diventare il perno attorno al quale pare ruotare mezza Londra – e mi sembra superfluo descrivere, anche solo in poche parole, la trama (che è complicata come quella di una telenovela, intricata come quella di una soap opera, ramificata come gran parte dei romanzi dell’ottocento: Dickens stesso, ad un certo punto, si sente in dovere di domandarsi: Che relazione può esserci fra le molte persone nelle storie innumerevoli di questo mondo, che da opposti lati di grandi abissi si sono tuttavia incontrate?), perché ciò che colpisce, ciò che rimane dentro, il motivo per il quale si finisce per amare questo romanzo, e tutti i buoni romanzi in generale, è il modo particolare con il quale l’autore ha deciso di mettere le parole una dopo l’altra.

Un’ovvietà: un romanzo è composto da capitoli (“Casa Desolata” ne ha ben 67); i capitoli (che in “Casa Desolata” quasi sempre descrivono una porzione di tempo e di spazio ben delimitata) sono composti da paragrafi, e i paragrafi a loro volta da proposizioni che stanno insieme attraverso avverbi e punteggiatura; e infine, le proposizioni, sono fatti di parole: nomi, verbi, aggettivi, ancora avverbi. Dickens, è grande già al livello più basso di questa piramide: le metafore (Proust: soltanto la metafora è capace di dare allo stile un carattere di eternità) nascono, in miniatura, già dagli epiteti, nella scelta dei quali Dickens è straordinariamente fecondo. Al funerale di un importante avvocato, il numero delle carrozze inconsolabili è immenso, e l’investigatore Mr Buckett (“Casa Desolata” mostra, in una delle sue tante trame che si intrecciano, una delle prime detective story) se ne sta tranquillo tra gli impresari di pompe funebri, le carrozze, gli equipaggi e le tante gambe tutte immerse nel lutto. Oppure: La violenza dei superlativi [di Mr Boythorn], che esplodevano come cannonate a salve ma non facevano male a nessuno. Il suo sguardo sugli oggetti (che egli non smette mai di animare: meravigliose le descrizioni dei quadri che fissano il mondo) e sulle persone che riempiono la scena è sempre incredibilmente originale; ed è forse è nella descrizione, nella creazione, dei suoi personaggi – anche, e soprattutto, dei personaggi minori, quelli che al cinema si chiamerebbero caratteristi – che il democratico Dickens dà il meglio di sé:

Mr Chabland è un solenne uomo giallo, dal sorriso grasso e l’aria di avere nel sistema olio di pesce a botti. Si muove lento e impacciato, non dissimile da un orso che ha imparato a camminare in piedi. Pare che non sappia cosa fare delle braccia, come se non gli appartenessero e volessero appoggiarsi a terra; è tutto sudato in fronte e non parla mai senza prima alzare la grossa mano, come per comunicare al pubblico che si accinge ad edificarli.

Di personaggi come Mr Chabland è pieno tutto il libro. Si contrappongono, o accompagnano, i quattro o cinque personaggi principali, che sono tutti caratterizzati dall’essere profondamente “moderni” nel loro modo di vedere il mondo, di interpretare la realtà – tanto che viene da chiedersi se Dickens (ma la stessa donanda se la pone anche Harold Bloom su Shakespeare, e il suo Amleto), abbia saputo individuare gli uomini del futuro, o se invece li abbia creati dal nulla, inventando un nuovo modo di pensare. Ma tornando ai caratteristi, ecco i vecchi coniugi Smallweed: lui, il prototipo di tutti gli avari, la versione edulcorata di Uncle Scrooge, altra mitica invenzione di Dickens; lei, vecchietta rincoglionita che ogni volta che sente pronunciare un numero inizia a combinarlo secondo tutte le possibili unità di misura del denaro; e di nuovo lui, che ogni volta che la moglie si lancia nelle sue filastrocche numeriche, le lancia un cuscino in testa, spostandole la cuffia, ed urlandole dietro ogni genere di insulto. E c’è Judy, una delle loro figlie, alle quali il vecchio dice “Quando io me ne sarò andato, tornerai ai fiori” – e Dickens aggiunge, sornione: Si potrebbe dedurre dall’aspetto di Judy che la sua professione avesse più a che fare con le spine che con i fiori. Ma queste persone – anche le peggiori –, per le quali Dickens sembra avere, in ogni momento, una grandissima simpatia non compaiono come mere figure sullo sfondo, per poi sparire: ritornano, invece, nei punti più opportuni del romanzo; a volte anche semplicemente richiamati in vita dalle parole di qualche altro personaggio che accenna a loro – e di colpo, il ricordo di loro si materializza in mezzo alla stanza, con un precocissimo effetto 3-D.

L’empatia e la ragione di Dickens

Se il genio è anima più ragione, a Dickens non manca niente di nessuno dei due ingredienti: c’è una calda, avvolgente, empatia umana verso ogni cosa, e c’è la capacità di trasformare questa empatia in una descrizione vividissima e perfetta. Ecco, ad esempio, il modo che Dickens sceglie per descrivere il vuoto spirituale nel quale i poveri sono costretti a vivere (il personaggio di questo pezzo, Jo, è un ragazzo orfano, privo di istruzione, che vive spazzando la strada: usando le parole di Dickens: Jo vive – cioè non è ancora morto – in un luogo squallido noto a tutti i suoi pari col nome di Tom-all-Alone’s):

Giunge una banda musicale e suona. Jo ascolta. Così fa anche un cane, un cane pastore, che aspetta il padrone fuori dal macellaio pensando a quelle pecore che ha avuto in mente per alcune ore e dalle quali si è felicemente liberato. Pare perplesso su tre o quattro; non riesce a ricordare dove le ha lasciate; guarda su e giù per la via come se si aspettasse di vederle; a un tratto alza le orecchie e ricorda tutto. E’ un cane vagabondo, abituato alle cattive compagnie e alle taverne; un cane pastore perfetto; pronto con un fischio a saltare addosso alle pecore e a strappare loro morsi di lana; ma è un cane educato e corretto al quale sono stati insegnati i suoi doveri e sa come compierli. Lui e Jo ascoltano la musica, probabilmente con la stessa soddisfazione animale; in quanto ad associazioni, aspirazioni o rimpianti, riferimenti malinconici o gioiosi a cose non tangibili, sono probabilmente tutti e due allo stesso livello. Ma, sotto gli altri punti di vista, quanto è superiore all’uomo l’animale.

Dentro a questo pezzo c’è tutto Dickens: la sua visione antropologica e sociale (homo homini lupus: ma forse c’è più Plauto dell’Asinaria, che Hobbes del De Cives…), il suo gusto per il dettaglio, la vividezza dell’immagine – il cane pastore, la via, le pecore nei ricordi – e lo struggimento delle aspirazioni, dei rimpianti…

Ancora qualcosa su Jo, il ragazzo homeless al quale sfugge il senso del mondo nel quale è costretto a vivere, e che l’unica cosa che sa fare è spazzare, di sua iniziativa, un incrocio di strada, con la speranza di ricevere un po’ di elemosina:

Jo se ne va al suo incrocio e inizia a prepararlo per la giornata. La città si sveglia; la grande ruota della fortuna si prepara alla rotazione quotidiana; si riprende quella incomprensibile lettera e scrittura che per poche ore è stata sospesa. Jo e gli altri animali inferiori girano come possono in questa incomprensibile confusione. E’ giorno di mercato. I ciechi buoi, spronati troppo e non ben guidati, si infilano nei posti in cui non devono andare e ne sono cacciati a bastonate; si lanciano con gli occhi rossi e la schiuma al muso contro i muri di pietra; spesso fanno male a persone innocenti, spesso fanno male a se stessi.

In filigrana, si intravedono, certo, le grandi idee: ma sono le colonne di cemento armato sulle quali si costruisce il capolavoro: non il capolavoro in sé. Dickens era animato da un grande senso civico; ma questo grande senso civico, questa sincera, profonda compassione per i poveri, per i diseredati, non era ciò che lo rendeva grande: era solo il combustibile che gli serviva per alzare la fiamma della sua voce, che è l’unica cosa che può creare l’arte immortale.

Il cemento armato della struttura

Dal punto di vista della struttura, l’altro grande puntello sul quale poggiano i capolavori, “Casa Desolata” è costruito appoggiando tra loro due voci ben distinte che raccontano un’unica storia su due piani diversi: c’è la voce piana, serena, amorevole, di Esther Summerson, che è il personaggio principale del libro, e quella vigorosa, maschia, passionale di un narratore onnisciente che descrive il mondo nel quale si muove Esther, e che lei non potrebbe vedere. La scelta di usare queste due voci, che si dividono in modo abbastanza equo i diversi capitoli, se da un lato consente di arricchire lo spettro di colori usati, dall’altro mostra un limite di Dickens: altri autori (penso al Nabokov di “Ada”, dove le voci continuano ad inseguirsi e a mescolarsi) avrebbero forse potuto trovare un modo più efficace, e meno meccanico, per mescolare la visione placida, benevola (e di parte), di Esther con la vivida descrizione dei sobborghi putridi di Londra, e delle residenze delle famiglie ricche. Ma Dickens, da questo punto di vista, sembra un po’ meno dotato.

Rimanendo sempre nell’ambito della struttura, emerge, in modo piuttosto chiaro, la forma iniziale di questo romanzo: uscì nel corso di due anni, in venti fascicoli. Per questo motivo, Dickens non si può permettere il lusso di far crescere la tensione per tutta la durata del libro: a intervalli regolari, si trova praticamente costretto dai suoi lettori (che gli scrivevano lettere per suggerire possibili evoluzioni della storia) a svelare un qualche retroscena che, se lasciato maturare, avrebbe potuto esplodere con maggiore vigore. E’ evidente che Dickens avesse chiaro fin dall’inizio l’impianto complessivo del suo libro; ma qualche volta si notano alcuni aggiustamenti di tiro, dei cambiamenti in corsa. Mr Jarndyce all’inizio della storia pare più vecchio e più brontolone di quanto lo sia nella seconda parte; Mr Buckett parte in sordina, e acquista maggiore importanza solo quando la detective story sembra poter assicurare altre duecento pagine di tensione; la modestia di Esther, che da principio è ben calata nella sua vita, con il passare delle pagine diventa sempre meno giustificata, e giustificabile. Ma si tratta spesso di piccoli dettagli; nel complesso, tutta la storia si regge in piedi forte e sicura, e le sbavature sono quasi sempre nascoste dalla potenza della lingua di Dickens.

La morte

In “Casa Desolata”, come in molti romanzi dell’Ottocento, muoiono diverse persone; Dickens, che sembra essere bravissimo a descrivere gli ultimi attimi di vita delle creature che ama, ne fa morire una ogni sette o otto capitoli – con una regolarità che un po’ insospettisce. Però lo stile lo salva, ancora una volta, perché questi trapassi un po’ scontati sono forse i punti più commoventi del romanzo (che ne conosce altri, molto intensi, come quando, ad esempio, si parla di bambini pieni di dignità che affrontano con coraggio la loro situazione disperata). Sul corpo di Nimrod, enigmatico personaggio che compare nel libro praticamente già morto, ma la cui presenza si sentirà in tutte le pagine, Dickens dice:

Se quell’uomo abbandonato fosse stato profeticamente visto giacere qui in queste condizioni dalla madre che lo strinse al seno, mentre lui le guardava il volto amoroso con la mano appena in grado di chiudersi sul collo che accarezzava, come sarebbe sembrata impossibile questa visione! O, se in giorni più lieti il fuoco ora estinto dentro di lui arse per una donna che se lo strinse al cuore, dov’è quella donna ora che queste ceneri non sono ancora sotto terra?

Qui Dickens non solo è bravo a mettere in un unico quadro il seno amoroso della madre e quello caldo e sensuale della donna amata, ma è anche un po’ furbetto, perché la seconda donna di cui parla morirà quasi seicento pagine dopo, proprio di fronte al cimitero nel quale Nimrod sarà deposto; e là davanti sarà trovata da Esther:

Corsi al cancello e mi chinai sul corpo. Sollevai la testa testa pesante, spostai i lunghi capelli bagnati e voltai verso di me il viso. Era lei, fredda e morta.

(La testa “pesante”! E’ questo genere di dettagli fisici che rendono grande la chiusura di un capitolo che altrimenti potrebbe sfiorare il melodrammatico.)

Ancora una morte: un uomo, che ha passato la vita a combattere contro la Corte di Giustizia del Lord Cancelliere (emanazione del Male, che in Dickens è sempre chiaramente delineato), sta probabilmente morendo. Accanto a lui, ci sono alcuni amici, il poliziotto (ancora Mr Buckett) che è venuto ad arrestarlo, e una vecchietta mezza matta, che aveva preso a cuore la causa dell’uomo. Il poliziotto è dispiaciuto nel vedere l’uomo così mal ridotto, e lo provoca:

[Mr Buckett]: “Voglio soltanto scuoterlo. Mi spiace vedere un vecchio conoscente arrendersi così. Se potessi spronarlo ad arrabbiarsi un po’ con me, credo che non gli potrei fare un piacere maggiore. Sarà il benvenuto se mi si scaglierà contro. Non ne approfitterei mai.”

Il soffitto risuonò per lo strillo di Miss Flite e l’ho ancora nelle orecchie:

Ah no! Gridley! – gridò mentre egli ricadeva pesantemente indietro davanti a lei, – non senza la mia benedizione dopo tanti anni!”

Muoiono anche i cattivi – anche il più cattivo di tutti. Ma per lui, non c’è quella redenzione che invece verrà generosamente concessa ad altri disperati, buoni o incapaci di esserlo, nel momento della loro morte, che è sempre in qualche modo annunciata: come si pregava nel Medioevo, a subitanea et improvisa morte, libera nos, Domine. E Dickens concede a tutti quelli che lo meritano una morte che dia il tempo di chiudere degnamente la propria vita.

**

Proust, in un piccolo saggio sullo stile di Flaubert, dice qualcosa che io, nel mio piccolo, ho sempre pensato. Proust, per chi non lo sapesse, aveva uno straordinario dono, che era quello di impossessarsi della voce di qualcuno, e di farla sua: non solo nel suo romanzo “Alla ricerca del tempo perduto”, dove ogni personaggio possiede un modo di parlare sempre coerente, e sempre unico, ma anche, e soprattutto, nei suoi pastiches, piccoli pezzi di bravura con i quali parodiava gli scrittori del suo tempo. Per Proust, la parodia era un modo per purificare ed esorcizzare la parola, dopo che la mente si è immersa fino in fondo nello stile di un romanzo:

Quando abbiamo terminato la lettura di un libro, non solo vorremmo seguitare a vivere con i suoi personaggi, con la signora Beauséant e con Frédéric Moreau; ma la nostra voce interiore, che per tutta la lettura si è misurata al ritmo di un Balzac o di un Flaubert, vorrebbe seguitare a parlare come loro. […] Il pedale prolunghi pure il suono! Bisogna in pratica fare una parodia volontaria per poter, dopo, diventare nuovamente noi stessi e non seguitare a fare una parodia involontaria per tutta la vita.

Sono convinto che il sorprendente potere della lettura derivi dal fatto che la voce interiore che legge, parola dopo parola, il pensiero di qualcun altro, finisca, in qualche modo, per trovare un modo nuovo di dire le cose; e, trovandolo, può rivedere il mondo sotto un’altra prospettiva, può porsi domande per le quali non aveva una lingua sufficientemente preparata, e può, nei casi migliori, trovare anche una qualche risposta. Le domande che pone Dickens, dunque, non sono quelle che rivolge in modo esplicito, attraverso l’enunciazione delle sue grandi idee, ma, piuttosto, quelle che derivano, implicitamente, dalla potenza della sua lingua: e cioè dal suo stile.

6 commenti Aggiungi il tuo

    1. Paolo Zardi ha detto:

      Matteo, detto da un dickensiano come te, è un grandissimo onore… Ora passo al Flaubert di Madame Bovary – Oliver Twist aspetterà ancora un po’.
      A presto!
      ps ricevuto il messaggio sul cambiamento di numero – registrato.

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  1. Matteo Scandolin ha detto:

    @Paolo
    Abbè, «Madame Bovary» è un libro im-men-so.

    Comunque molla «Oliver Twist» (che è bello, eh, non dico di no) e ti sfido su due caposaldi della letteratura dickensiana (la mia, almeno): «Grandi speranze» e «Una storia tra due città». 😉
    MS

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  2. Loredana Becherini ha detto:

    Una recensione bellissima e approfondita, che va al cuore dell’opera e della personalità dell’autore.
    Complimenti vivissimi!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Cara Loredana, grazie mille! E’ sempre un piacere quando qualcuno perde un minuto per lasciare la propria impressione…
      A presto!

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  3. morena fanti ha detto:

    Avevo in programma di leggere questo romanzo, ma ora, con questa tua bella e dettagliata recensione, sono indecisa 😉 Hai scritto così tante cose che sembra impossibile potere trovarne altre nella lettura

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