Se questo è amore

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“Quello che il bruco chiama fine, il mondo chiama farfalla.”
C’era scritto questo, sulla prima pagina di un libricino che un’amica mi aveva regalato. Sfogliando, avevo trovato anche: “Se per il mondo sei nessuno, per qualcuno sei tutto il mondo”. Ho sentito le lacrimucce premere sugli occhi – quelle che ti scorrono sulle guance e che, se non hai i baffi, arrivano sulle labbra, salate. Allora i baffi non li avevo, per cui effettivamente alle labbra ci arrivarono, salate come previsto. Sulle mie labbra prostrate, direttamente dal mio cuore disintegrato. E io, un tappetino, uno straccio di quelli grigi che si usano per i cessi. Succede.

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Mattina del 15 agosto del 1999. Mattina tipo le otto, intendo. Io disteso sul solarium di una piscina di Abano Terme e con me, “Il processo” di Kafka.
La mia ragazza – la signorina con la quale avevo condiviso ogni giorno dei miei ultimi tredici anni di vita (su un totale di ventinove: tolti i primi due lustri di innocente infanzia, e cinque anni di rivoluzione ormonale e brufoli, tutta la mia vita da adulto), quella con la quale avevo comprato casa, fatto il corso prematrimoniale – io, che mi sarei soffocato con un’ostia se solo qualche prete avesse avuto il coraggio di porgermela – fissato la data del matrimonio (insisto: in Chiesa) il 2 settembre del 2000 – la mia ormai ex ragazza da poco più di quattro giorni, dalla mattina dell’11 agosto, quando durante l’eclissi di sole aveva ammesso che ormai con me non ci voleva più stare, ed erano tre mesi che andava avanti, la nostra agonia – la mia ex ragazza, insomma, era partita la sera di due giorni prima per andare a distribuire volantini per una raccolta di firme dei radicali per non so quale referendum. Come se Umberto Veronesi uscisse di casa dicendo alla moglie: “Vado a comprare un pacchetto di sigarette”. O, addirittura, come se Berlusconi si assentasse con la scusa di andare a pagare le tasse.
E da quella sera non si era fatta più sentire – noi che eravamo tra i principali clienti dell’Omnitel. Mandai, ogni ora, ogni mezz’ora, ogni dieci minuti, degli sms che iniziavano con yyyy: vecchio trucco, che non funziona più, per farsi mandare indietro – gratis – la conferma di lettura. Così avrei capito quando avrebbe acceso. Ma la conferma non arrivava mai.

Così sabato mattina – il giorno dopo la sparizione della mia ex – sono partito per Trento, per andare a trovare la mia vecchia amica Luisa – che invece era stata abbandonata sei mesi prima, anche lei dopo dodici anni di fidanzamento e la casa quasi finita.
E’ da sapere, infatti, che esiste un circolo di gente che è stata lasciata – una setta carbonara in continua espansione, che ha i suoi libri, le sue canzoni, i suoi ritrovi, i trucchi per guarire – la tisana col finocchetto, liquirizia e cavolfiore – i pomeriggi passati a raccontarsi “ma la tua storia come è finita? ma pensi che il mio ragazzo tornerà?” – un circolo segreto, del quale diventi socio onorario appena perdi la tua anima gemella.
Così andai a trovare Luisa, anche se non ero ancora convinto che per me fosse davvero finita. Mi sentivo come certi malati che ancora sperano di non essere arrivati al capolinea e guardano quelli che hanno già un piede nella fossa e pensano: ma io non sono così, ed è questa l’unica consolazione.
Uscimmo per Trento, con una sua amica che ricordo simpatica e carina, anche lei con qualche storia alle spalle, ma che non ricordo né di viso né di nome. E fu una mezza giornata simpatica – con loro provavo la storia degli sms con le quattro y davanti, per avere la conferma della ricezione, e con loro funzionava: perché con la mia ex no? Ma mano a mano che le ore passavano, calava un’angoscia terrificante. Ero partito bene: facevo il figo, quelle che tiene duro. Ma il cielo era diventato grigio, o così mi sembrava, e io non avevo più voglia di sorridere.
Non ho mai avuto le emorroidi: ma credo che chi ce le abbia conosca la stessa pena di non riuscire a trovare mai una posto dove fermarsi e stare bene. Per cui mi sono rimesso in macchina – la nostra auto, quella mia e della mia ormai ex da tre giorni (era ancora sabato) – e sono ripartito verso Padova, con la speranza che lì – da dove ero partito la mattina, con la stessa speranza – sarei stato meglio. Salutando le due mie care amiche – con Luisa mi sarei felicemente fidanzato tre mesi dopo, e l’avrei tristemente lasciata cinque mesi dopo – dissi loro di farsi forza, ma lo stavo dicendo a me. Tornando, ho costeggiato l’Adige, e mi sembrò un fiume gelido e nero – in agosto.

A Padova – era ormai sera – mi sono mangiato un risotto di pesce surgelato, da solo. Poi ho chiamato Monica, un’amica che avevo già iniziato a frequentare più di un mese prima, come forma di vendetta preventiva. Con lei avevo “limonato duro”, come si diceva alle medie, ed immaginavo che spingendo un po’ si sarebbe arrivati anche al resto – sebbene io fino ad allora avessi fatto l’amore solo con la mia ragazza, che in quelle ore si stava avviando a diventare la mia ex da quattro giorni. Monica disse che sarebbe uscita con me – sarebbe uscita con quella mummia angosciata che ero io, che ormai pensavo solo a quei cazzo di sms con le y davanti che non tornavano indietro. Prima di uscire ho visto il primo video di Jennifer Lopez, e ho pianto un po’, perché ormai avrei pianto anche per Cochi e Renato che cantavano “La gallina è un animale intelligente”.

In giro per Padova avrei voluto sorridere – per Monica, che era bella, per i suoi occhi belli, che se lo sarebbe meritato – e un po’ in effetti sorridevo, ma era più una paresi, un’ischemia da buona educazione. Sentivo gli occhi umidi, e mi sentivo brutto – è la prima cosa che succede quando si è lasciati: il proprio corpo ridiventa umano, e finalmente vengono fuori tutti difetti che l’amore di qualcuno ti aveva fatto dimenticare. Siamo andati in piazza, davanti al Duomo, a bere un prosecco, e mi pareva di essere con la persona sbagliata – mi pareva di tradire, mi pareva di sbagliare. Lo stesso stupido imbarazzo di quando ero stato operato al ginocchio, e dovevo fare la pipì nel pappagallo, a letto – dopo che avevo passato i primi anni della mia vita ad imparare a non pisciarmi addosso.

Così le ho detto vieni a casa mia, non pensavo avrebbe detto di sì, e invece ha detto di sì, perché, a differenza di me, lei mi voleva bene. In cucina le ho preparato un caffè, poi in salotto l’ho spogliata con la stessa passione – ed era la prima volta che vedevo una ragazza nuda, dal vivo, che non fosse la mia ex, che a quel punto della storia speravo stesse davvero raccogliendo firme per i radicali a mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto. Io sono rimasto con i pantaloni addosso. L’ho abbracciata così, in piedi, lei nuda e io con un paio di Dockers chiari, e la cosa che mi interessava di più era vedere il nostro riflesso sulla porta a vetri della terrazza – vedere che effetto faceva vedermi accanto ad un’altra persona nuda. Ricordo che aveva una pelle molto liscia, e il seno un po’ piccolino, il segno del costume. Non facemmo nulla – non quel giorno – perché non c’ero con la testa – scritta così, a distanza di dieci anni, sembra una baggianata, o almeno un luogo comune. Eppure era così.

Così la riaccompagnai da qualche parte e tornai a casa. Alle tre del mattino mi svegliai di colpo, come se stessi soffocando sotto acqua – fu una sensazione terribile. Per tanto tempo ho pensato che in quel preciso momento la mia ex avesse attraversato la frontiera che divide l’amore dalla passione – quel confine che io poche ore prima non avevo avuto il coraggio di passare. E ho pianto, ancora, ma questa volta di brutto, mi faceva davvero male. Così alle sette mi sono vestito, mi sono tagliato le unghie dei piedi, ho messo un costume in una borsa, e sono partito per la piscina, sapendo bene che in quel giorno, e per i giorni che sarebbero venuti, di me non gliene avrebbe importato niente a nessuno.

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Quindi in piscina, con il mio “processo” di Kafka, disteso sul solarium, bianco come un cadavere tirato fuori dal mare e lasciato sulla spiaggia ad asciugarsi.
Paolo, mi dissi – perché quando si è lasciati si riprende tutto un dialogo interiore, che si era abbandonato anni prima, ci si fa domande, si fanno teorie che si condividono con se stessi, si disegnano strategie, si provano le frasi ad effetto da dire al proprio aguzzino, immaginando le risposte che, chissà perché, poi sono sempre diverse – Paolo, mi dissi, questo, tra tutti i giorni che hai vissuto, è quello più simile alla morte.

Cercavo di leggere, per tenere impegnata la testa. Sulle pagine del Processo, andavo avanti ed indietro. Poi l’illuminazione. Ho capito che, ovviamente, quel libro parlava metaforicamente di qualcuno che era stato lasciato senza motivo – condannato senza aver fatto nulla di male a nessuno – perché quando si è lasciati ti casca addosso una tragedia che non avevi neanche mai immaginato e ti domandi dove ho sbagliato? quando ho sbagliato? che colpa devo pagare? quando finirà tutto questo dolore? Soprattutto, non trovi una ragione perché la tua storia d’amore debba finire. Fossi stato Tiziano Ferro, avrei detto che “non te l’avevo detto mai ma gridavo Dio ancora”. E’ proprio in quell’ancora detto da uno solo, il succo di tutta la storia.

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Il pomeriggio mi sono messo al computer, e finalmente ho trovato la forza di scrivere la lettera che avrebbe sistemato tutto. Ho capito dove ho mancato, quando non sono stato al tuo fianco come avrei dovuto, ma posso cambiare. Sarò migliore. Torneremo ad essere quelli di una volta, gli stessi ragazzini innamorati. Immagino io e te in una piscina calda, con tutto il mondo incasinato fuori, in una piscina calda senza rumori, in penombra, a ritrovare noi stessi. E via dicendo. Mancava solo la frase sul bruco. Poi la stampai, e cercai una rosa – la tagliai con le mie mani scavalcando il recinto di un giardino privato – e la portai, assieme alla lettera, a casa sua, della quale avevo le chiavi. Misi tutto sul suo cuscino – che baciai come un devoto fa con le reliquie del suo santo preferito, che ama e del quale ha profondissimo e riverente terrore – e me ne andai.
Verso le sei di sera di domenica, iniziarono ad arrivare i messaggi di ritorno, uno ogni trenta secondi – un centinaio. La chiamai, era in treno, era fredda. Disse che era stanca, che la raccolta di firme poi non si era fatta, che si era fermata da degli amici dalle parti di Torino – ma di quali amici stai parlando, che non ti sei mai mossa da Padova in vita tua – e che aveva visto il Gran Premio di Formula Uno, che come scusa valeva quella del referendum dei radicali – e avrei voluto chiederle che cosa ne era stato della persona che conoscevo, insomma, che mi dicesse se c’era un riscatto da pagare, un fioretto da fare – tipo amputarsi una gamba a mani nude, cose di questo tipo. Ma quando parlavo sentivo l’eco della mia voce, ed era una voce che non riconoscevo più – neanche la mia, era qualcuno che a malapena avrei sopportato, era dolcezza piena di terrore, il belato dell’agnellino prima di Pasqua, era un uomo che aveva rinunciato ad amarsi. Abbiamo chiacchierato così per due minuti, una pena. Così ci siamo detti: ci sentiremo domani.

Arrivata a casa, credo che lei abbia letto la lettera, perché mi ha mandato questo sms: scrivi bene. Punto. E in quel momento pensai a quei due giorni – che al cambia valute te ne davano cento di normali, in cambio – alla mia salma bianca nel solarium con Kafka seduto al mio fianco, a me con i pantaloni addosso che mi guardo nel vetro, e all’Adige nero come il mio cuore, alla pena di volerla sentire, allo sgomento di non sentirla tornare, a quello smarrimento di non averla accanto, e pensai solo: se questo è amore. Perché, pensai poco dopo, tutto questo dolore, con l’amore, non c’entra proprio niente.

(post già pubblicato su http://pabloz.blogs.it il 5 dicembre 2006)

6 commenti Aggiungi il tuo

  1. Renato ha detto:

    Scrivi bene.

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  2. Michele Lecchi ha detto:

    a Renato: sei diabolico!!!!!!!!!!!!

    a Paolo: il culmine di questo brano lo raggiungi con la frase:
    “una voce che non riconoscevo più – neanche la mia, era qualcuno che a malapena avrei sopportato, era dolcezza piena di terrore, il belato dell’agnellino prima di Pasqua, era un uomo che aveva rinunciato ad amarsi”
    …..si presta moltissimo ad una largamente diffusa immedesimazione, e mi ci metto anch’io con quel tipo di voce, che talvolta mi sento e non solo per questioni di amore.
    Ah Pablo…. agnellino prima di Pasqua…. sei diabolico anche tu!

    Saludi / besos

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  3. ottantacento ha detto:

    No. Pensavo. Chi c’è passato – e alla fine chi non c’è passato? – sanno che quell’11 agosto sembra l’11 settembre. Solo due anni prima.

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  4. morenafanti ha detto:

    Un brano perfetto. Da romanzo.

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