C’è una cosa che non smette mai di meravigliarmi: alcuni studiosi (chi? boh!) sostengono di essere riusciti ad individuare la zona in cui viveva il nucleo originario degli Indoeuropei prima che questi spargessero la loro lingua e il loro seme per gran parte dell’Europa (no paesi baschi, no ungheresi, no finlandesi). Come? Hanno preso i nomi delle piante in tutte le lingue che derivano da questo unico, prosperoso ceppo, e hanno individuato quali sono quelle comuni: cioè, quali piante vedevano attorno a sé i nostri antenati, prima di prendere, ciascun gruppo – i biondi protosvedesi, i bassi protoitaliani – una strada diversa, verso nuove e sconosciute verdure.
I filosofi viennesi a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo (sulla schiena di un cavallo che si stava lanciando, di corsa, e inconsapevolmente, verso alcuni tra i più grandi orrori di tutti i tempi) hanno concentrato molti dei loro sforzi per risolvere, o almeno capire, il problema del linguaggio. Wittengstein è arrivato a dire che
Tutto ciò che si può dire lo si può dire chiaramente. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere
il che può essere visto (con cosa? con quali occhi?) anche come un gioco di parole (un gioco tipo il calcio?), ma che invece nasconde una rinuncia fondamentale: è impossibile (o comunque difficile) costruire un linguaggio formalizzato su basi puramente logiche, e quindi ci si deve rassegnare a considerare l’uso reale del linguaggio stesso. Per semplificare (per semplificare molto, ma rimanendo comunque nel solco della tradizione di quegli studiosi), esiste un mondo che viene descritto tramite le parole; non esistono parole nate dentro al linguaggio, o a causa del linguaggio, cioè in un mondo astratto. Tutto quello che diciamo, parte sempre da qualcosa di concreto. Concreto, ad esempio, è il participio passato del verbo concrescere, formato da CON, cioè insieme, e CRESCERE, cioè aumentare: così come fanno le cose materiali che da liquide di condensano fino a diventare solide. E solide deriva da solidus, che anticamente era sollus, che significava intero.
Pochi giorni fa mia suocera, parlando di un maiale in carne ed ossa, ha usato l’espressione “porco”, che è l’unico modo con il quale i triestini chiamano il quadrupede rosa. Mio figlio si è messo a ridere; poi, mi ha chiesto come mai la nonna avesse detto che il maiale era un porco.
La maggior parte delle espressioni colorite che utilizziamo nascono da un’osservazione quasi millenaria di un mondo che non è mai cambiato: il maiale, detto anche porco, si accoppia con decine di maiale, dette anche le troie; la mucca ha le corna, cioè è cornuta, e il suo toro ha diverse mogli; la cacca, con la quale si convive, puzza e fa schifo a tutti; i testicoli dell’uomo, detti anche coglioni, non ragionano.
Anni fa mi è stato regalato un dizionario del dialetto veneto, a cura di Giuseppe Boerio. Si tratta di un libro che oggi compie 152 anni. Una specie di relitto del passato – una nave fantasma approdata per sbaglio sulle nostre modernissime coste. L’autore di questa opera, nelle retoricissime note introduttive, cerca di alzare la portata del suo lavoro, descrivendolo come un tentativo di salvare la lingua veneziana dall’usura dei tempi. In realtà, sfogliando le sue 800 pagine su tre colonne, si scopre che l’obiettivo era completamente diverso, e molto, molto più pratico: questo libro è un manuale per famiglie di contadini che arrivano in città, e non sanno come descrivere ciò che vedono con parole diverse da quelle che hanno usato per raccontare il loro mondo agricolo. Un Pigmalione da tenere sul tavolino per trasformare una rana spagnola in un gatto da appartamento.
Questo dizionario, dunque, non spiega le parole venete ad un Italiano, e non spiega neanche le parole italiane ad un veneto: si limita, invece, a tradurre espressioni idiomatiche legate alla terra, in espressioni idiomatiche legate al nulla. Sfogliare questo libro dà un piacere quasi irresistibile.
Esistono due tipologie di grammatiche: quella descrittiva e quella prescrittiva. Dietro a ciascuna delle due, ci sono linguisti che si danno battaglie da anni – battaglie vere, feroci, combattute proprio con le parole delle quali entrambi, alla fine, parlano.
La grammatica descrittiva parte dal presupposto che la lingua è una convenzione, una sorta di contratto condiviso e che come tale è soggetta ad evoluzioni delle quali si deve semplicemente prendere atto. Gli usi cambiano, il mondo cambia, parole che non esistevano nascono, e non si sa come.
La grammatica prescrittiva, invece, ritiene che esistano regole condivise, e che tutto ciò che esce da queste leggi debba essere rifiutato, in quanto sbagliato.
Il dizionario in questione, rappresenta un tentativo di passare da una grammatica descrittiva, cioè la lingua parlata dai contadini, ad una grammatica prescrittiva, figlia di regole decise a tavolino da alcuni studiosi fiorentini.
Torniamo al librone. e partiamo dai bovini. Grasso come una vaca diventa Parer un carnovale; andar dentro per el bo e vegnir fora per la vaca si traduce Andar messere e tornare sere; co xe scampà i bo, serar [chiudere] la stala è A usanza di villano matto, che dopo il danno fa patto.
Espressioni colorite, piene della fragranza della vita diventano grigie e inodori. Tirar indrio el cul va detta Tirare alla staffa; Meter el culo in qualche logo è tradotto, per il villano rifatto, Allogarsi; Gò magnà un’oca co tanto de culo è Ho mangiato un’oca arciraggiunta – riesco ad immaginarmi questi sempliciotti con le mani callose, che dopo essere finalmente riusciti a coronare il loro sogno di ricchezza – un piccolo palazzo che si specchia sulle acque del Canal Grande – prendono un precettore che insegni loro come si sta in società, ma la signora, stufa di questi insegnamenti, esplode in un sonante go in culo el bipi co tute le so scatole! Il precettore, paziente, la corregge: “no, dica piuttosto Non ne do una stringa o una frutta di che che sia. Troppo difficile? Provi con questo: Vada il mondo in carbonata”.
Il signore, invece, parlando di un suo amico, esclama: “el trovarà un cul per el so naso”, un’espressione che pare quasi di vederla, o di annusarla, per la sua vividezza. Ma Poerio insegna: “Troverà chi non abbia paura delle sue bravate”. E il signore si inchina di fronte a tanta eleganza, e sussurra, con un filo di ironia: “lù, sior, el fa proprio merde col crostolo”.
“No, signore”, risponde Poerio, “fo cose da darle del voi o del messere” oppure “fo bravate a credenza. Non dica mai le parole che ha detto poco fa. Piuttosto: zucche fritte!”
E il librone continua con altre decine, centinaia, migliaia di queste folli traduzioni.
No la xe merda ma el can l’ha cagada: tanto è zuppa che pan molle. Se uno scoreza, si dirà che è suono di corno, mentre se si sente solo l’odore, cioè se si tratta di una scoreza slofa, diventa buffare. Se uno si sveglia con una faccia malata, il contadino dirà che el ga una ciera [cera] da scorese, mentre Poerio si limiterà a dire che ha una brutta cera – ma in che modo quel “brutta” dovrebbe rendere la potenza di quel “da scorese”?
Come potrebbe competere un Fi fi, che gli si è mossa la cacaia con lo spessore iperrealista di Oh che spussa, qualchedun se ga cagà adosso! ?
E infine la mona – ah, la mona veneziana, simbolo verace di questa terra sull’acqua – al quale Giorgio Baffo, poeta del 1700, dedica i suoi sonetti (uno dei quali si conclude così: per ti el più desperà torna contento/
per ti se perde onor, robba, e cogioni/Mona, mo cossa mai gastu là drento?)– diventa, per Poerio, la Natura con l’iniziale maiuscolo, la Potta, il Salvadanaio, la Castagna: ma chi mai perderebbe la testa per una castagna?
Anni fa, ho iniziato a sospettare che il mondo stesse impazzendo. I miei colleghi, i miei amici, la gente al bar, avevano iniziato, tutti, ad usare le stesse frasi, dette con gli stessi accenti, le stesse espressioni del viso – ricordo un imbarazzante ma vieeeeniii, ad esempio, che faceva ridere tutti tranne me. Chi gli stava insegnando qualcosa che mi stavo perdendo? Poi ho capito che dipendeva dal fatto che non avevo la televisione. Mi ero perso Zelig.
Il mondo, sul quale per migliaia di anni, si è formato il nostro linguaggio, è diventato una scatola in salotto (o addirittura di fronte al talamo nuziale, sostituto di ogni altro piacere) che ci propone una lingua che fa riferimento ad una realtà minima, condivisa, semplificata, stereotipata, inodore – la televisione, in realtà, parla quasi esclusivamente dell’immagine azzurognola che lei stessa proietta nelle case – di quella realtà che non ha alcun legame con ciò che tocchiamo – rimosse la merda, la morte, gli animali (che, negli spot di alimenti composti con le loro carcasse, sorridono sempre), ma sostituite da cosa? Quali sono le nuove esclamazioni del duemila? Quali le metafore che stiamo inventando? Cento anni fa, quando qualcuno diceva che una donna era una troia, tutti avevano in mente l’animale che tenevano dietro a casa, per l’inverno – ne conoscevano il tanfo, la lussuria, l’ingordigia, l’indecenza, e tutte queste qualità davano spessore alla lingua che si parlava. In che modo la vita che ci circonda può diventare terreno condiviso per nuove metafore, se ora il maiale, per mio figlio, è diventato, lui, qualcosa che ricorda il vero porco umano? Dove dobbiamo andare a scovarle, le nuove parole?