Anonime

il

 

Uno dei primissimi racconti che ho scritto, nel luglio del 2007. La foto è stata scattata a Padova, il 30 giugno 2007, a quattro ignare passanti. In quel periodo, avevo appena scoperto David Foster Wallace del quale, qua e là, scimmiotto lo stile. Racconto un po’ troppo lungo, per le cose che ha da dire, ma che, riletto dopo 4 anni, non mi fa pentire di averlo scritto.

 

anonime insieme

Le piastrelle del pavimento sono rettangolari, e opache, ricoperte da una polvere antica e impalpabile; sono chiare, forse di marmo, con piccoli pezzi colorati al loro interno. Le sedie sono basse, di legno, scheggiate, ricoperte di scritte. Di giorno, questa stanza probabilmente viene usata come aula di scuola, e qui ci sono bambini con qualche difficoltà e un’insegnante che con pazienza cerca loro di insegnare quello che non si può imparare, cioè lo stare al mondo senza creare problemi a se stessi, ed evitando di crearne troppi agli altri.
Con le sedie formiamo un piccolo cerchio, non proprio regolare – piuttosto una porzione di un cerchio, diciamo 120°, e al vertice c’è la responsabile di questo incontro, mentre noi quattro ce ne stiamo a debita distanza dal centro, e piuttosto vicine tra di noi. La signora che ci sta parlando ha meno di quaranta anni, i capelli raccolti, il viso senza trucco, i pantaloni verdi con la riga in mezzo e un paio di scarpe nere con il tacco, di quelle piuttosto avvolgenti e poco seducenti, le calze color carne, un maglione grigio e informe e una spilla decisamente fuori misura all’altezza del seno sinistro. In mano tiene una cartellina che contiene diversi fogli, e continua a sfogliarli, a guardare loro e poi a guardare noi, con uno sguardo che vuole essere gentile e allo stesso tempo deciso, da istruttrice preparata e consapevole. Noi invece abbiamo in mano la paginetta che ci hanno consegnato all’ingresso, dieci minuti fa, con brevi indicazioni su quello che faremo, il motivo per il quale siamo lì, lo scopo che abbiamo, e istruzioni molto rassicuranti su cosa fare dopo che saremo uscite da lì. 

“Essere qui è già un passo in avanti per tutte. Il primo gradino – quello più alto – da superare. Voi ce l’avete già fatta. Dovreste essere orgogliose di questo.”
Ci schiariamo la voce imbarazzate, riposizionandoci sulle sedie che sembrano diventare ogni minuto più piccole e più dure, continuando a cambiare l’ordine di accavallamento delle gambe; incrociando e liberando le braccia, e poi incrociandole di nuovo, ritmicamente, a turno o insieme, come un’involontaria coreografia. Dalla finestra posta dietro alla responsabile entrano una luce bianca e insostenibile, che avvolge la sua testa, e rumori di ragazzini che giocano a pallone, proprio davanti al nostro edificio.
“Siamo già uno a zero per noi. Ma la partita non è vinta. Serve ancora impegno, ancora sacrificio, ancora sudore. Davanti a noi abbiamo una salita, e non dobbiamo scoraggiarci. Ci aiuteremo. E sapete come? Semplicemente parlando. Sembra impossibile, vero? Il modo migliore per darci una mano è parlare di noi – ciascuna di se stessa. Qui nessuno ci giudica, nessuno ci condanna. Siamo solo noi, con le nostre storie, la nostra vita un po’ complicata, le nostre paure e le nostre speranze. Soprattutto con la nostra consapevolezza, che è forza.”
Si ferma un attimo. Vorrebbe che capissimo fino in fondo quello che sta dicendo. Ci guarda una ad una, ma noi ovviamente spostiamo lo sguardo altrove – per timidezza, imbarazzo, noia, anche vergogna.
“Sapete cosa vi dico? Che tra qualche mese saremo qui di nuovo, e rideremo di questo momento: rideremo della vergogna che avevamo. Di quel senso di non essere adeguate da nessuna parte.”
Chiude la cartellina di colpo, e dice: “Ma credo di avere parlato anche troppo. Succede solo la prima volta: poi vedrete che farò fatica a farvi smettere di parlare!” e fa un sorriso con troppe gengive. Non ha l’anello nuziale. E da vicino si sente un aroma di sudore, di ascelle lasciate a se stesse per troppo tempo, e un alito fuori dal suo controllo, un alito colpevolmente inconsapevole del suo potenziale odoroso. Alcuni capelli sono grigi, sono piccole righe bianche disposte con rigorosa distribuzione statistica sulla sua testa un po’ allungata.
“Inizi tu? Hai voglia? Hai letto il foglio che ti abbiamo dato all’ingresso? Hai capito come funziona?”. Si rivolge alla più bassa di noi, quella con i capelli con i colpi di sole fatti mesi fa e mai più aggiornati, una maglia bianca piuttosto aderente e un paio di pantaloni neri sopra al ginocchio esattamente uguali ai miei, una che sembra sconfitta da tanto tempo, e quindi più facilmente manipolabile.
“Eh?”
“Hai letto il foglio? Qui dovremmo sforzarci di parlare di noi. All’inizio può sembrare difficile, ma poi è una liberazione. Ti puoi alzare in piedi, dire il tuo nome – non sei obbligata a dire il tuo nome vero: lo puoi inventare, qui siamo tutti anonimi. Nessuno ci giudica e nessuno ci condanna. Siamo qui perché crediamo di avere qualcosa che ci accomuna – non sto dicendo un problema in comune: abbiamo un’esperienza che ci avvicina, e dobbiamo cercare di capire insieme se è un problema, e se è un problema da dove viene fuori e perché, e una volta che lo avremo capito magari troveremo anche la soluzione. Su, non è difficile. Mettiti in piedi, schiarisciti la voce e parlaci un po’ di te.”

Samanta

La ragazza è molto imbarazzata, ma dimostra di avere un certo rispetto per l’autorità docile di quella signora che prima di rivolgersi a noi guarda i suoi fogli dove forse ci sono scritte cose di noi che nemmeno sappiamo. Quindi si alza in piedi – è un po’ ingobbita, nonostante sia giovane – si schiarisce la voce esattamente come le è stato detto di fare e inizia a parlare con una voce che sembra una cantilena veneta.
“Mi chiamo…”
“Coraggio, di’ un nome che ti piace”
“Mi chiamo Samanta, ho…”
“Cosa vuoi dire?”
“L’età”
“Di’ gli anni che vorresti avere, ti aiuterà a sentirti meglio”
“Ho 12 anni” e piega la testa di lato, con un gesto molto lezioso.
“Be’, non esageriamo, dai, Samanta” dice sorridendo la responsabile
Tutto d’un fiato, come se si dovesse lanciare da un ponte con un elastico legato alle caviglie: “Ho 18 anni e mi chiamo Samanta. Sono qui perché credo di avere un problema”
“Hai voglia, Samanta, di parlarci del tuo problema? Forse noi potremmo aiutarti” le dice la signora, leggendo dai suoi appunti.
“Sì, ho voglia di parlarne, perché è una cosa che mi fa male… e penso che parlandone con voi forse starò meglio”.
Passa poi ad un’espressione molto più seria, quasi da sogno: “Ho un problema, ce l’ho ormai da diversi anni, un problema che mi crea altri problemi. Ho fatto finta di non averlo. Mi ripetevo: cosa vuoi che sia. Ho pensato che sarebbe bastato non pensarci, che nessuno se ne sarebbe accorto. Invece, ho scoperto che non è così.”
“Continua, Samanta, stai andando benissimo. Coraggio”
La ragazza accanto a me, quella con la maglia nera a pois bianchi che puzza di sigarette, l’unica con i pantaloni bianchi e i capelli corti, sbadiglia piuttosto rumorosamente.
“E credo che farebbe bene a tutte ascoltare quello che ha dirci Samanta, perché forse è qualcosa che ci riguarda” dice la responsabile senza rivolgersi a qualcuno in particolare, ma ovviamente allo sbadiglio della mia vicina che sta parlando.
“Il mio problema me lo porto dietro da anni. L’ho sempre rimosso per paura, per vergogna. Ma ora voglio trovare il coraggio di dirlo…” e scende un silenzio piuttosto teso, in quella stanza con le piastrelle ricoperte da polvere e una lavagna con una frase divisa nelle parti che la compongono, e l’indicazione del soggetto, del predicato verbale, del complemento oggetto e quello di specificazione: “I cani hanno mangiato la carne del padrone”. La carne del padrone? O quella che il padrone ha dato loro?
“Lo voglio dire qui, davanti a voi, sperando di trovare la vostra comprensione, la vostra umana comprensione, la vostra umanissima pietà” e intanto la voce le si incrina, parola dopo parola, e gli occhi diventano umidi, e il suo viso pare si stia trasformando – tutta la tensione che teneva insieme il suo viso, che gli dava una compostezza, un’espressione decente, uno sguardo moderno, all’improvviso cede, si schianta, e il labbro sotto inizia a tremare, il naso diventa rosso, la bocca piega i propri angoli verso il basso, verso la terra, verso le piastrelle di prima – e intanto il suo corpo acquista una dignità che prima non aveva, una postura più eretta.
“Non voglio più nascondermi: sono culona” e scoppia a piangere, con singhiozzi piuttosto rumorosi – sembra un pianto che tratteneva da tanto tempo, tra la bocca e il cuore, lì a marcire – e anche noi ci sentiamo invadere da qualcosa di caldo e tremante, perché è la prima volta che lo sentiamo dire, che sentiamo chiamare il nostro problema per nome. Perché, dicendo quello che è lei, ha detto quello che siamo noi, e che noi nascondiamo, neghiamo, dimentichiamo.

Tra le lacrime, con il trucco spalmato sul viso sempre più brutto, continua a parlare, guardando la responsabile che mostra una commozione molto professionalmente trattenuta – la trattiene ma la mostra – e senza guardarci perché sa che, in qualche modo, sta parlando di noi, e ci sta costringendo a prendere atto della verità nei modi e nel momento che ha deciso lei.
“Sono culona. Lo sono ormai da anni. Faccio finta di niente, compro i miei pantaloni a vita bassa, e mostro le mutande che escono, negando l’esistenza di ciò che dentro alle mie mutande non ci entra più. Mi guardo allo specchio, e vedo le mie tette, e i miei capelli, le mie labbra e il piercing molto grazioso sul naso che ritengo in tutta onestà essere molto più che decente, e mi ravvivo gli occhi poco espressivi con i trucchi che mi ha consegnato mia madre, quando ho iniziato a diventare adolescente e sentivo il bisogno di sembrare una donna, ma non scendo mai più sotto, non guardo mai cosa c’è là dietro, dietro di me, sotto di me.. Rimuovo, nego, e non ci penso – ma ci penso, ogni momento, e faccio finta di non pensarci, ma ci penso quando vado in discoteca e cerco di tenere sempre un muro dietro di me, e quando rinuncio ad andare al mare dicendo che ho sempre le mestruazioni, ma invece ho semplicemente il terrore di mettermi un costume, perché il perizoma so come mi starebbe, e quello che mi copre tutta sarebbe ancora peggio, così terribilmente.. terribilmente fuori moda” e riprende a piangere, la ragazza, che mano a mano che parla perde la sua gobba ma scivola verso un’età molto più avanti della sua, si avvicina a quella della signora che annuisce grave e comprensiva: i 18 anni sono ormai un ricordo di qualche minuto fa.

“Samanta, credo che per oggi possa bastare. Non dobbiamo esagerare e tirare fuori tutto in una volta sola. Abbiamo un cammino lungo, da compiere, e abbiamo anche bisogno di pensare, e di capire meglio; soprattutto, dobbiamo dotarci degli strumenti necessari ad analizzare quello che ci è successo, e a immaginare quello che ci succederà.”. Ci guarda tutte negli occhi con affetto grave, poi riprende: “Grazie Samanta per aver condiviso con noi il tuo problema, ora asciugati gli occhi – no, ti prego, non uscire, usa quel rotolone che ho portato, quello sopra a quel tavolino – soffiati bene il naso, datti una sistemata al viso e siediti, perché ora è il turno di ascoltare: è importante fare anche quello” e la guarda con umanissima comprensione. Anzi, addirittura si alza in piedi e la va ad abbracciare prima che possa rimettersi sulla sedia, e la stinge forte, tirando fuori da Samanta un ultimo profondissimo singhiozzo. Quindi torna alla sua postazione, gira la testa verso la ragazza accanto a Samanta, andando in senso antiorario, quella tra Samanta e la ragazza accanto a me che puzza di sigarette e sbadiglia rumorosamente, e la invita a fare quello che ha fatto la nostra amica. Ora è evidentemente più semplice, perché qualcuno ha già deciso di parlare, qualcuno ha superato quel muro di omertà e silenzio nel quale amavamo stare fino a prima di entrare, e ha trascinato lì dentro anche noi, che lo volessimo o no.

Simona

“Io mi chiamo..”
“Ti prego, in piedi. Non avere paura.”
“Io mi chiamo Simona, e ho 18 anni, e sono culona”
Ci viene da applaudirla, perché ha avuto il coraggio di dirlo subito. Lei sorride imbarazzata, e capisce che c’è più merito ad essere culone e dirlo che non essere affatto culone e non avere niente da dire.
“Sono culona da molto tempo. Provengo da una famiglia di culone. Mia madre ha iniziato ad essere culona da molto giovane: ai suoi tempi non si dava molto peso a queste cose, sembrava normale, era un’abitudine. Anche sua mamma era culona, e anche le sue sorelle lo erano. Non c’è niente di male, dicevano. Un po’ di culo non ha mai ucciso nessuno, diceva mia nonna, e rideva, sembrava felice. Così io vedevo mia madre sempre più larga, e da un lato avrei voluto essere diversa, ma dall’altro dicevo che le cose dovevano andare per forza così, che se era stata culona mia nonna e se era culona mia mamma, sarei stata culona anch’io.”
“Quindi tu sei culona perché qualcuno ha scelto per te?” le chiede la responsabile, con un tono più severo di quello che mi sarei aspettata in una riunione di persone che si trovano a discutere i loro problemi che tendenzialmente nemmeno ammettono.
“Be’, in un certo senso sì”
“Quindi se tua madre avesse deciso che tu dovevi buttarti fuori da una finestra, tu ti saresti buttata sotto, non è così?”
Simona rimane un po’ in silenzio, indecisa su quale delle due domande è un trabocchetto – la prima alla quale aveva già risposto o la seconda alla quale deve rispondere in quel silenzio di attesa, nel quale ciascuna di noi pensa alla risposta che sarebbe corretto dare in vista del futuro discorso che dovremo tenere. Io sto già pensando al nome da darmi.
“No” dice con incertezza “non mi butterei sotto, no”
“Certo. Lo sai perché? Perché ti ami. E’ per quello che non ti butteresti fuori dalla finestra, vero?”
“Sì, perché mi amo” e fa un po’ fatica a dirlo.
“Però se tua mamma ti fa capire che è giusto che tu sia culona come lei, allora tu lo fai.”
“Sì, l’ho fatto..”
“E allora non ti ami più”
Anche a Simona inizia a tremare il labbro inferiore, e il naso si riempie di un ingorgo di muco molto liquido che cerca di cacciare su con il dorso della mano.
“Capisci, Simona? Se sei culona, non ti ami più. Mentre tu, Simona, ti ami: non ti butteresti mai fuori da una finestra, per nessuno”, e Simona inizia a piangere, e la sua voce diventa bassa, quasi cavernosa, e mentre parla la saliva forma dei fili tra le due labbra, e dice “io non mi voglio così, non voglio essere culona, non voglio dovermi mettere jeans a vita alta” e ora la voce si alza, è un accusa “non voglio rinunciare ad avere il ragazzo per quella stupida di mia madre, non voglio fare la sua fine, io voglio potermi divertire, divertire ancora, perché ho solo 23 anni, è troppo presto perché tutto questo finisca” e intanto toglie il piede dall’infradito bianco e lo appoggia, senza un motivo, sul pavimento polveroso “è troppo presto, io non mi merito questo, io voglio avere indietro me stessa, voglio il perizoma che mi esce da dietro senza dovermi vergognare, voglio essere giovane ancora per un po’, non voglio sembrare una ridicola, penosissima culona!” e ora grida, è scossa da un pianto sconvolto, abbassa le braccia e mostra i palmi delle mani, e le dita divaricate, come se stesse dicendo “guardatemi, sono innocente, e non ce la faccio più”.
Anche Samanta piange, perché sente che quello che dice Simona riguarda anche lei, la sua vita, le sue speranze, le sue paure più profonde.
La responsabile la lascia sfogare – sa bene quando è il caso di parlare e quando è il caso di tacere – la guarda con un’altra dose di umanissima comprensione e un pizzico di orgoglio professionale per essere riuscita, lei, donna priva di qualunque marito, signora dalle ascelle trascurate, a tirare fuori con poche domande tutto quello che c’era da tirare fuori da quella ragazza ricciola e timida – compresa la sua vera età.

Elena

“Simona, sei stata bravissima. Oggi è un giorno importante per te. Sei già salva. Ci vorrà del tempo, ma sei già salva” e si alza, abbraccia anche lei, tenendo il viso un po’ distante da quelle guance scivolose e da quel naso che cola e non si ferma più. “Asciugati anche tu, dai, fai la brava, e siediti che ora qualcun altro deve parlare” e si gira verso la mia vicina.
“Io non ho niente da dire” rantola la ragazza che puzza di sigarette.
“Ti vuoi comunque alzare e dire chi sei e quanti anni hai?”
“E’ tutta una pagliacciata, questa qui. Siete ridicole.”
“Pensi questo di Samanta? Che sia ridicola?”
“Si chiama Loretta. Ha un nome ridicolo, e se ne è scelto uno ancora più ridicolo.”
“E di Simona? Cosa hai da dire?”
“Che si sta facendo un sacco di seghe mentali” e con la mano mima la masturbazione di un pene eretto. Trovo che sia molto coraggiosa, e villana.
“Quindi solo loro hanno questo problema”
“Certo, non le vede? Hanno un culone che non finisce più” e intanto si sistema un po’ meglio sulla sedia, si mette più dritta, solleva il seno che non dà l’impressione di essere sodo come le sue parole, si sistema i capelli corti, li solleva dietro per dare un po’ di volume, ma qualcosa inizia a tremare – non il labbro inferiore, questa volta sono le mani, a tradirla.
“Io non sono come loro, non ho niente da dire, mi hanno mandato qui i miei genitori, loro hanno paura di tutto, pensano che stia ingrassando, che non ci tenga più alla linea, che abbia smesso di curarmi.”
“Allora alzati in piedi e dillo a tutte. Di’ alle tue amiche che tu non hai il culone, che va tutto bene, che non c’è un problema”. La responsabile la punzecchia, la vuole stanare, spingere fuori dal suo guscio. E’ una lotta piuttosto tesa.
“Vuole solo questo?” e si alza in piedi, con una certa baldanza; i pantaloni bianchi con la cintura nera sono a vita bassa, e sotto la maglia nera a pois bianchi ha una canottiera, anche quella nera, che tiene scoperti dieci centimetri di carne rosa e un po’ straripante, non molliccia ma comunque in una quantità superiore al necessario. Ha anche un brillantino attaccato dentro all’ombelico, leggermente incassato. “Vuole solo questo? Sono Elena, ho 23 anni, e io non sono culona”. Le mani tremano più forti.
“Bene, Elena, brava. Ora hai voglia di girarti? Di farci vedere che non sei affatto culona? Che tu non hai questo problema? Vuoi?”. Elena ora sembra molto agitata. Si siede.
“Affanculo voi e i vostri problemi. Io qui non ci vengo più. Voi siete matte.”

La responsabile la guarda fissa per un po’, e quindi si rivolge a noi: “Il primo gradino, è quello più difficile. L’ammissione di fronte a se stessi. Il prendere atto della propria condizione richiede coraggio, richiede una forza che tante volte manca – perché se ci fosse stata, probabilmente avreste già risolto tutto da sole. Qui ci troviamo per cercare proprio quella forza – la troviamo dentro di noi, e la troviamo dentro alle nostre amiche che prima di noi hanno avuto il coraggio di dire che là dietro c’è qualcosa che non va, che non siamo a posto, che c’è qualcosa che cerchiamo di nascondere perché non piace neanche a noi. Qualcosa che più nascondiamo e più cresce dentro e dietro di noi.”
Si ferma per prendere fiato, poi riprende: “Elena non vuole ammettere di avere un problema. Le daremo tempo. Tutte voi avete visto, quando si è alzata in piedi, che forse un problema esiste. Vero, Elena? Mi sto sbagliando?”
Elena ha le braccia incrociate, le gambe divaricate e ben piantate per terra, il viso scuro rivolto verso il basso, e non risponde.
“Avete visto tutte, quale è il suo problema. E avete visto che non ha voluto ammetterlo. E avete visto che non avendo voluto ammetterlo, ora deve rimanere chiusa dentro a se stessa, a ripetersi che siamo delle matte, e che in lei non c’è niente che non va. Ma anche lei sa che il problema esiste, e proprio in questo momento ci si è seduta sopra.”

Betty

Finalmente è il mio turno. La signora lascia passare qualche secondo, poi gira la sua testa nera e grigia verso di me e mi punta addosso gli occhi piccoli e vicini. Riprende il suo tono di umanissima compassione.
“Cara, hai voglia di alzarti in piedi davanti alle tue nuove amiche? Hai voglia di parlare un po’ di te?”
Mentre mi alzo, penso che oggi è un venerdì come tutti gli altri, un venerdì di una settimana come tante, una settimana di questo anno che è stato felice e drammatico, e pieno di casini e di soddisfazioni. Fuori il cielo è ancora bianco, e sento le voci dei ragazzi che rincorrono una palla – gridano, ridono, senza chiedersi nulla – e sento che nel mio stomaco c’è un languorino, una voglia di pizzetta che è qualcosa di più di un semplice desiderio: è il suono della vita che vuole rimanere su questo mondo, è la voce della sua passione, della sua semplice ricerca dell’unica gioia che può conoscere, è il richiamo di qualcosa che ha miliardi di anni e non si è mai fermato. E poi sento anche il bruciore dentro per la felicità che ho perso in questi mesi, le occasioni perdute per un culo troppo grande, troppo pieno, poco in linea con la moda attuale, e sento che lo vorrei davvero più piccolo, più sodo, più stretto, più bello, e che non c’è niente di male nel volerlo – anche questa è la voce di una sensualità senza tempo, la voce della femmina che chiama a sé il maschio, lo invita con un corpo che di volta in volta è peloso, grasso, nero, secco, piumato, puzzolente o fiorito. Sento che il mio culo parla di me più di quanto vorrei che facesse, che dice cose che riguardano la mia vita, il senso che le do, la passione che contengo e non contengo, il mio amore per i perizoma e il mio timore di mostrarli, il mio coraggio a testa alta e la mia paura a vita bassa. Sento che vorrei distinguere, dividere il corpo da tutto il resto, i desideri da tutto il resto, la fame da tutto il resto, la pigrizia da tutto il resto, e mettere da una parte tutte le speranze e le promesse e i giorni belli che verranno e quelli che sono già passati e che ora mi lasciano in bocca un gusto di caramelle, e dall’altra parte le bugie, il grasso, le paure di non piacere, di non essere all’altezza, i brufoli che tornano anche adesso, quel terrore di non essere accettata, ma sento anche che io sono proprio tutto questo ammasso di contraddizioni – che sono contraddizioni solo se le prendi una ad una, solo se dimentichi che una persona, una persona vera, è fatta proprio di questa sostanza.

Ora sono in piedi.
Guardo Samanta ancora stravolta e Simona ora più serena e Elena con il broncio. Apro le labbra.
“Io mi chiamo Betty, ho 24 anni, e sono felice di essere me.”

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. bri ha detto:

    per niente male. Notevole, direi.

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  2. Paolo Zardi ha detto:

    Grazie! 😉

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