Una splendida giornata

Ritrovo questo vecchio post, lasciato su un blog che poi ho abbandonato, e che avevo scritto nell’estate del 2009, e provo un piccolo tuffo al cuore, nel rileggerlo. Che serva a questo, scrivere? Per non perdere i ricordi?

acqua e sole

E’ possibile immaginare un ricordo?
Se io ora avessi ottant’anni, e fossi seduto su una sedia in cucina, con le mani posate su un tavolo bagnato dal sole del duemila e cinquanta – un tramonto dietro l’orizzonte del futuro – solo una cosa vorrei, solo per questo sarei disposto a pregare qualcuno: che i miei ricordi non se ne siano andati; che i segni, i rumori, le luci e i colori della mia vita siano rimasti impigliati a qualche intreccio di neuroni del mio cervello. Allora, mentre i nipotini si rincorreranno per le stanze della casa dei nonni, giocando a nascondersi dietro ai vecchi armadi polverosi, sotto i letti che si usavano una volta, sollevando un po’ di quella polvere che niente riuscirebbe a far sparire, io penserei a quella domenica di luglio in cui io e il mio figlio maggiore eravamo andati in piscina – lui aveva cinque anni, gli mancava un dente sotto, era appena tornato dalla montagna; io non ancora trentanove, i capelli neri, e nessuna macchia epatica sul dorso delle mie mani.

Quanto tempo è passato?
Jurij era un folletto pieno di energia, che non vedeva l’ora di farmi vedere cosa aveva imparato al corso di nuoto che aveva seguito durante l’anno. Mentre la piscina era ancora vuota – c’era quel rumore da spiaggia in giugno, quando si può distinguere ogni singola voce di mamma, ogni rumore di paletta che sbatte su un secchiello, e ogni grido di bambino che gioca ad affogare un cugino, o un amichetto appena conosciuto – abbiamo preso confidenza con la temperatura dell’acqua: dopo aver messo un piede dentro, mi ero stupito che fosse ancora allo stato liquido. Abbiamo sguazzato per una decina di minuti in una vasca che, per profondità, era praticamente un bidè: mi sono messo disteso, e ho camminato sulle mani, mentre Jurij cercava di mettermi la testa sotto acqua. Poi siamo passati alla piscina media, dove lui non toccava: andava sotto, si spingeva con la punta dei piedi, tornava in superficie, respirava, sorrideva, tornava sotto. Non si stancava mai.

E’ vero che i soldi non danno la felicità?
La ricchezza, a questo dovrebbe servire: a rendere la vita più comoda. Per questo, quella domenica, i miei ricchi concittadini padovani hanno preso i loro SUV con l’aria condizionata, e i televisori a cristalli liquidi inseriti nei poggiatesta dei sedili davanti, in modo che i passeggeri dietro non siano costretti a smettere di guardare uno schermo luminoso nemmeno durante un viaggio, sono saliti, i padovani, sulle loro lussuosissime automobili a rate e sono andati, in fila indiana, verso la lunga spiaggia di Sottomarina, alla quale arriveranno dopo un’ora di comodissima coda, cronometrata dalla sequenza di bestemmie rivolte a chiunque abbia cercato di superarli. I miei concittadini rumeni, invece, e quelli moldavi, che si riconoscono a distanza di metri per le pettinature alla Solidarnosc, e una certa passione per le paiettes inserite nei vestiti, si sono dovuti accontentare di rimanere a Padova, a cinque minuti dai loro appartamenti: ora, stanno distesi sul prato verde, chiacchierando nella loro lingua lontana, spalmandosi creme protettive sulle loro pelli chiare, aprendo le lattine di birra che tirano fuori da una borsa refrigerata. E io sono tra loro, io minoranza linguistica in questa piscina, io curioso di capire se quando i nostri vecchi dicevano che tutto il mondo è paese stavano mentendo, oppure avevano colto una profondità che si può solo accennare.

A cosa dovrebbero servire i tatuaggi?
Adolf Loos fu architetto viennese, e finissimo teorico degli inizi del secolo scorso. Apparteneva a quel circolo di intellettuali tra i quali spiccava il suo caro amico Karl Kraus, insieme al quale cercò di portare avanti una nuova visione estetica del mondo. La sua attenzione fu costantemente rivolta all’ornamento, cioè a quegli elementi architettonici che non svolgono alcuna funzione se non quella di essere mera decorazione: fenomeno che imperversava sotto il nome di stile Liberty, che lui analizzò da un punto di vista molto ampio, considerando, ad esempio, il ruolo del tatuaggio nelle popolazioni primitive. O in quelle comunità forzate, come le navi di lungo corso o le prigioni, nelle quali l’unico spazio del quale un individuo è proprietario, la sola superficie sulla quale può tracciare le linee che sente la necessità di proiettare sul mondo, è la propria pelle. In piscina, ce n’è di pelle, da vedere: sebbene la distanza tra vestiti feriali e vestiti festivi si sia sensibilmente ridotta con gli anni (ma nel 2050 l’ingenuità di questi anni mi farà sorridere), rimane comunque evidente il salto che ognuno è disposto a compiere quando oltrepassa le porte d’ingresso della piscina – pare, addirittura, che anche il sole sia disposto a scaldare di più, affinché gli abiti spariscano, lasciando scoperto il rosa dell’epidermide. Ecco, caro Loos: non ho mai visto tanti tatuaggi come in quella domenica di luglio. E non ho mai visto tanta omologazione quanta era possibile osservare sulle spalle e le caviglie e i coccigi delle donne, e sulle braccia degli uomini. Credo che a Padova ci fosse un solo tatuatore. O una sola scuola per tatuatori. O che esistesse un solo grande cervello che veniva condiviso da corpi diversi. I fiori che compaiono poco sopra alla scapola, quelle rose sempre uguali, che significato rivestono? Cosa dicono al mondo che sta dietro al proprietario di quella spalla? Perché serve disegnare, nella parte bassa della schiena, tutte quelle frecce che puntano verso l’ano di una donna? Esiste davvero il rischio che il maschio del duemila non sappia come orientarsi? Che abbia bisogno di una mappa tribale disegnata in nero sulla pelle? Così, mentre seguo con lo sguardo i tuffi sempre più folli di Jurij, fui colto da una sensazione leggermente spiacevole, e che solo anni dopo, negli anni quaranta, sarei riuscito a definire in modo compiuto: cioè che i corpi degli anni duemila erano “cose” completamente separate dai loro proprietari. Che erano diventati, quegli arti, quei tronchi, quei capelli, semplicemente degli strumenti finalizzati alla seduzione: accessori ornamentali da impreziosire.

Quanto sono lontani tra loro i ricordi di due eventi successi a ventiquattro anni di distanza?
Riesco a fermare mio figlio per il tempo di una pizzetta, mangiata di fretta sotto un ombrellone del bar – non contavo di rimanere fino a pranzo, in piscina, così i soldi mi sono appena bastati per nutrire quella creatura della quale mi sento ancora responsabile. Accanto a noi, stavano sedute tre ragazze che ancora oscillavano tra adolescenza e maturità – nel dubbio, le considerai tutte minorenni, e spensi l’occhio clinico di un maschio di 38 anni. Una delle tre tiene in mano un pacchetto di sigarette sopra al quale qualcuno ha scritto, con uno di quei pennarelli neri dalla punta larga, un “TI AMO FRA XXX”; un’altra racconta della serata passata con un ragazzo; l’ultima ha una massa impressionante di capelli, che continua a spostare da una parte all’altra della testa, con un braccio pieno di braccialetti. Sebbene facciano prove di conversazioni da tea delle cinque, hanno una freschezza fragrante: che comunque perderanno nel giro di pochi anni. E mi fanno venire in mente il 10 giugno del 1985: era finita la quarta ginnasio, e si era deciso di andare in piscina, per stare insieme ancora un giorno. Non ci eravamo mai visti in costume, noi della quarta B, ma la cosa non imbarazzava nessuno – non si usava avere la pancia, o la cellulite, a quell’età. Una mia compagna di classe, Elisa, baciò per la terza volta il suo fidanzato (le prime due, risalivano al novembre dell’anno prima); Sabrina, piccola e abbronzatissima, sembrava un pesciolino scuro che entrava e usciva dall’acqua (morì sei o sette anni dopo, in un tragico incidente automobilistico); Michaela, che poi sarebbe diventata campionessa nazionale di nuoto in apnea, pareva annoiata. Mangiammo i panini che ci avevano preparato le nostre mamme prima di uscire di casa; bevemmo coca cola e chinotto, con due cannucce per lattina; qualcuno aveva il walkman, con il quale si ascoltava, a turno, gli U2, l’ultimo dei Simple Minds, o i Wham. Qualcuno aveva già qualche pelo sul petto, qualcun altro camminava su gambe ancora glabre. Quello stesso giorno, dopo essere tornato con la pelle che mi scottava, giocai a calcio con degli amici sotto casa, e mi lussai un ginocchio, e passai quell’estate caldissima con il gesso, e una vite al titanio infilata tra la tibia e il perone.

Perché sembra sempre che gli stranieri si divertano di più?
Nei miei ricordi, ecco che ritorniamo in acqua, io e Jurij, poco dopo la pizzetta. C’è una coppia di trentenni grassi e brutti che continuano a baciarsi, ma danno l’impressione di essersi accontentati, o di voler imitare un amore che per tanto tempo hanno solo visto. C’è una mamma che fa dondolare uno scricciolo di qualche mese sulle piccole onde della vasca, e una nonna sorridente che incita una nipotina di dieci anni a lasciarsi andare. Sul bordo della piscina, è seduta una ragazza bellissima che accarezza, con una dolcezza piena di pigrizia sudamericana, i capelli riccioli del suo muscoloso fidanzato (che si è tolto la cuffietta obbligatoria, e per questo verrà richiamato dal bagnino, poco dopo); quando lei si alza e va a sedersi su una panchina poco distante, il ragazzo non si muove, e le indica qualcosa che c’è sotto acqua, qualcosa che confida nel potere astringente dell’acqua fredda per riacquistare proporzioni presentabili.
Arriva una comitiva di ventenni enormi e muscolosi, accompagnati da ragazze che masticano chewingum e indossano minuscoli costumi bianchi, così piccoli e aderenti che è possibile determinare alcune loro caratteristiche anatomiche generalmente protette da inespugnabili barriere; si lanciano in acqua, i ragazzi, e fanno esplodere la superficie azzurra della piscina con tuffi mostruosamente rumorosi, e diventano, nel giro di cinque minuti, gli idoli di Jurij. Intanto la piscina si è riempita. Il prato pullula di persone che parlano lingue sconosciute – e osservo che in Romania, o in Moldavia, o in Ucraina, probabilmente esiste una maggiore consuetudine alla piscina, perché questi ragazzi, e queste ragazze, queste famiglie che si uniscono ad altre famiglie, hanno mazzi di carte, terrine piene di cibo, palle gonfiabili e materassini per prendere il sole, e tubi di creme per ogni tipo di gradazione, giornali, seggiolini, sgabelli, asciugamani matrimoniali e semi di zucca, enormi occhiali da sole, tabelloni della tombola, ciucci e fiasche e barilotti, prendisole, parei leopardati, parei a fiori, parei con la solita donna che guarda un tramonto sull’isola di Bali, costumi di ricambio, orecchini di ricambio, cappelli, cappellini. E il confronto con i pochi padovani presenti, tra i quali io e mio figlio, è doloroso: perché loro, a differenza di noi, sembrano aver preservato la capacità di stare insieme, in tanti, per tanto tempo.

Che cos’è la luce?
Continuammo con i tuffi e le nuotate. Io ero esausto, Jurij no. Aveva un’energia incontenibile, instancabile, inarrestabile. Era così lieto, così felice, e così contagioso nella sua felicità, che probabilmente io e lui sembravamo gli esseri più stupidi della piscina. Mentre il sole iniziava a perdere un po’ del suo fulgore, ci siamo messi sotto una specie di fungo che faceva cadere piccole cascate, e abbiamo lasciato che l’acqua ci colpisse le spalle. Sembravano gocce di luce, quelle che scendevano: l’acqua imprigionava quel fuoco, e lo trascinava per un brevissimo tratto – brillanti che irradiavano arcobaleni in miniatura: minuscoli, e fatui.

E cosa sono le rughe?
E quella sera, dopo che Jurij crollò esausto sul lettone (ho ancora in mente quel corpicino accaldato sotto le lenzuola bianche, e un sole rosso che passava attraverso le tapparelle), mi guardai allo specchio: avevo la faccia rossa, come tutti quelli che si ostinano a non usare nessuna crema protettiva. Ma attorno agli occhi, c’erano piccole, sottili linee bianche: le rughe del sorriso avevano lasciato la loro firma. E sfiorando quei piccoli canali pieni di felicità, un uomo di ottant’anni guarderà sereno il sole tramontare.

8 commenti Aggiungi il tuo

  1. tramedipensieri ha detto:

    Fotogrammi.
    Ecco si ricordano (ricordano?…no, no…sono impressi dentro!) come fotogrammi indimenticabili di momenti magici.
    Istanti di vita che scorre, felice, semplice … non serveno sovrapiù.
    E’ già.

    Un bel vivere…questo.
    Non si può scambiare con niente…

    buona serata
    grazie
    .marta

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  2. Zio Scriba ha detto:

    Come si fa a non leggerti? Ero venuto a vedere se c’erano nuovi commenti all’altro post, e mi hai impreziosito altri minuti di questa serata nevosa.
    Le rughe del sorriso come “piccoli canali pieni di felicità”: c’è, in questa frase, tutta l’intelligenza del saper vivere.
    Un bacio grande per Jurij e Matija, miei nuovi nipotini.

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  3. bettyboohhh ha detto:

    Ricordare le cose a distanza di tempo i particolari sfuggono, si confondono i momenti. Scrivendo così dettagliatamente non si perderà nulla, tutto ritornerà alla mente. E sarà ogni volta un’emozione grande!
    Come è un’emozione ogni volta che passo di quì a leggerti!

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  4. Daniele ha detto:

    Guarda, tu sei uno scrittore serio per cui lo sai meglio di altri. Io nel mio piccolo (piccolissimo) scrivo per non dimenticare, dicendo cose che non sarei in grado di dire a voce.
    Il tuo post è lungo e ora devo scappare a lavorare, e ho letto solo l’inizio, ma tornerò per leggerlo con più calma.

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    1. Daniele ha detto:

      Ora che ho letto questo “antico” scritto dico che mi ha fatto vivere quella giornata in piscina come l’avessi vista attraverso un vecchio super 8, un po’ graffiato e senza audio.

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  5. amanda ha detto:

    bene me lo sono gustato questo su e giù nel tempo e certe cose che tu così bene racconti le ho viste con i miei stessi occhi preziosamente ricamati dalla vita

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  6. Nina ha detto:

    Mi ha colpito l’altro giorno il post in cui ti chiedevi se non fosse il caso di non scrivere più.
    Voglio sperare che sia stato come quando ci si chiede come sarebbe la vita senza le cose a cui più teniamo, quasi per vedere l’effetto che fa, una specie di esorcismo…
    Confesso che a me capita ogni tanto, mio malgrado, perfino di prefigurarmi la mancanza delle persone che mi sono più care e, dopo aver provato tutto il dolore del mondo, assaporare la gioia di pensare: non è vero!
    Il post che leggo oggi mi fa l’effetto di quel “non è vero” A mio parere nei tuoi scritti ci sono tante di quelle cose che spingono per essere dette, raccontate, condivise, che non è possibile metterle a tacere.

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