Il mestiere di tradurre – una chiacchierata con Anna Mioni (1/2)

Dopo la chiacchierata con Chiara Fattori, e la sua casa editrice Intermezzi, ci occupiamo ora del mestiere di tradurre, e lo facciamo con Anna Mioni, traduttrice padovana (dall’inglese e dallo spagnolo) e titolare dell’agenzia letteraria AC². Ricordo che qualche anno fa avevo letto il libro  “Dèja vù”, di Tom McCarthy, edizioni ISBN, e avevo trovato particolarmente bello, e utile, che alla fine ci fosse una nota della traduttrice che spiegava quali problemi e quali sfide le avesse posto il particolare stile di McCarthy. Pochi mesi dopo, a una cena ai margini del Salone del Libro, in un curioso locale arabeggiante, ho scoperto che la persona che avevo davanti, e con la quale stavo chiacchierando da un po’, era proprio quella traduttrice; e mi è sembrato che quella coincidenza fosse resa particolarmente divertente proprio dal titolo del libro che avevo letto e che lei aveva tradotto.

La chiacchierata, che affronta diversi temi, è divisa in due parti – la prima esce oggi, la seconda mercoledì 8 maggio (tra due giorni): in tempi di Twitter e Facebook, ci piace pensare che i blog possano ancora offrire contenuti senza l’assillo della brevità a tutti i costi.

Ringrazio Anna per la disponibilità e la cortesia!

Grafemi: Come è iniziato il tuo rapporto con la traduzione? Riesco a immaginare qualcuno che si mette a scrivere poesie, un diario, un racconto, senza domandarsi per chi lo sta facendo. Tradurre un testo, invece, è un’attività onerosa, complicata, impegnativa: come ti sei avvicinata a questa attività? Quand’è che hai capito che questa era la tua strada?

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Anna Mioni

Anna Mioni: Tradurre è un talento molto simile a una malattia cronica di cui non ti puoi liberare: il rapporto con la traduzione non lo inizi, ce l’hai dentro dalla nascita, temo. A un certo punto emerge. Io ho cominciato a tradurre per gioco molto presto, quando la maestra delle elementari di mio fratello gli insegnò lo spagnolo; mi misi a impararlo insieme a lui, e mi accorsi subito che il volume di traduzioni degli Inti Illimani con testo a fronte sbagliato conteneva molti errori, e cominciai a correggerli a matita. Avevo otto anni. E appena mi innamorai dell’inglese, alle scuole medie, cominciai presto a tradurre i testi delle canzoni che più amavo (sorvoliamo sui risultati, a quell’età). Si può dire che per me la musica è la chiave principale per avvicinarmi a una lingua straniera.

Ho capito che potevo tradurre per professione quando, alla ricerca di un lavoro vero subito dopo la laurea, su Affari e Finanza di Repubblica vidi l’annuncio di un Master in traduzione letteraria dall’inglese all’Università di Venezia. Mi presentai subito alla selezione e fui ammessa. Per la prima volta scoprii che quello che avevo sempre fatto per passione poteva diventare un mestiere.

Dopo il Master la fortuna volle che un editore di Padova, il gruppo Aries (Franco Muzio editore e Arcana editrice) cercasse uno stagista per tradurre e impaginare un libro. Fu così che pubblicai la mia prima traduzione, In Marocco di Edith Wharton; poi l’editore decise di prolungarmi il rapporto di lavoro con un contratto. Da lì cominciò la mia carriera di traduttrice.

 G: Sono curioso di capire come funziona, in concreto, il rapporto tra l’editore, il traduttore e l’autore. Di solito come inizia un progetto di traduzione? E’ la casa editrice che ti contatta, o sei tu che proponi un libro che ti è piaciuto? L’autore del testo originale ha qualche voce in capitolo? Ti è mai capitato di contattare un autore per chiedergli dei chiarimenti, delle delucidazioni, sul suo testo? E se sì, come si sono svolti questi contatti?

 AM: Di solito i diritti di traduzione dei libri nelle lingue principali vengono acquistati dagli editori italiani quando ancora sono allo stadio di bozza, se non addirittura di proposta. Quindi ormai è molto difficile che un

Dèja vù
Dèja vù

traduttore possa proporre a un editore un libro che non gli sia già stato presentato mesi prima dai vari agenti letterari o dagli editori stranieri. Può capitare se si tratta di letterature poco frequentate e al di fuori dei circuiti commerciali, come quelle dei paesi post coloniali in inglese, per esempio; o quelle delle lingue straniere meno diffuse (“non veicolari”, in gergo tecnico). In linea di massima, comunque, almeno nell’85% dei casi il libro viene scelto a monte dall’editore, che cerca un traduttore solo dopo averne acquisito i diritti di traduzione per l’Italia.

La casa editrice contatta il traduttore che ritiene più adatto per il libro; nella situazione ideale, sottopone una prova a due o più traduttori, per vedere quale riesce a entrare meglio nelle corde del libro (non tutti possono tradurre tutti i libri: ogni traduttore ha il suo libro ideale, e viceversa. Se interessa approfondire, con il Sindacato Traduttori abbiamo stilato un Decalogo per il processo della lavorazione delle traduzioni), ma sempre più spesso non ce n’è il tempo, e il lavoro viene affidato a professionisti di cui si è apprezzato il lavoro in passato, ricorrendo alle prove solo per i traduttori nuovi da collaudare. Se l’autore del testo originale è già stato tradotto da te in passato e apprezza il tuo lavoro, può insistere tramite il suo agente perché sia tu a tradurlo. In alcuni casi si sono stati stabiliti rapporti proficui e duraturi tra autori e traduttori, che giovano di sicuro alla buona riuscita di una traduzione.

Se l’autore del testo che sto traducendo è vivo, capita di interagire via e-mail per alcuni chiarimenti: io cerco sempre di non abusare di questa disponibilità, e di ricorrervi solo se non trovo le risposte ai miei quesiti nelle numerose fonti che ho a disposizione. La situazione più tipica è quando una parola o un’espressione hanno 7-8 traducenti diversi: solo l’autore, a volte, può dirci con sicurezza quale accezione precisa intendeva usare. In alcuni casi con gli autori ci sono affinità anagrafiche, culturali e musicali, e se ci si conosce si finisce per rimanere in contatto e rivedersi ogni tanto per un caffè.

G: Da un punto di vista economico, si sa che gli scrittori guadagnano poco – sono rare le persone che riescono a mantenersi scrivendo romanzi o racconti. Per i traduttori come vanno le cose? E’ possibile vivere di traduzioni? Quante ore deve lavorare al giorno un traduttore per arrivare a fine mese? Pensi che lo Stato tuteli in modo adeguato i diritti di chi traduce?

 AM: Per i traduttori letterari le cose sono sempre andate piuttosto male, tanto che spesso i traduttori affiancano un’altra professione alla traduzione (io stessa sono stata bibliotecaria part-time per tredici anni, e l’anno scorso mi sono licenziata per aprire la mia agenzia letteraria, AC² ). Le retribuzioni dei traduttori sfiorano a malapena la sussistenza (vedi le tariffe esposte nell’inchiesta appena condotta dalla lista Biblit), e per raggiungere un reddito dignitoso spesso si è costretti a lavorare anche il sabato e la domenica, quasi senza ferie. Aggiungiamo che non esiste previdenza e la malattia non è pagata. Per fortuna, con il sindacato Strade, abbiamo raggiunto un accordo con una mutua privata e riusciamo a tamponare le carenze legislative con questo strumento. Lo Stato da un lato tutela i diritti di chi traduce facendo sì che i traduttori godano di un’aliquota agevolata, e in generale esentando dall’IVA i proventi ricavati da diritti d’autore; dall’altro non riconosce in alcun modo ufficiale la nostra professione, né dal punto di vista dell’inquadramento contrattuale né da quello previdenziale e sanitario, esponendoci a una precarietà che una volta forse era più rara, ma ora purtroppo si sta allargando anche a molte altre categorie di lavoratori.

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Per avere maggiori informazioni sull’inchiesta della Biblit, si può andare direttamente al sito http://www.biblit.it alla sezione “Inchiesta tariffe” dove, oltre al rapporto, è disponibile una sintesi dell’inchiesta in slide.

Per la fotografia di Anna Mioni  © Ole Steen Hansen

Per conoscere i libri tradotti da Anna Mioni, è possibile visitare il suo sito http://www.annamioni.it/ – gli ultimi quattro sono “C” di Tom McCarthy, “Niente è cruciale” di Pablo Gutierrez, “Dio odia il Giappone” di Douglas Coupland, e “Ritratto di famiglia con superpoteri” di Steven Amsterdam.

7 commenti Aggiungi il tuo

  1. lacinzietta ha detto:

    Post interessantissimo. Conosco Anna di nome, ero iscritta a Biblit tempo fa e a Bologna mi laureai con una tesi proprio in traduzione letteraria. Ho fatto la traduttrice per qualche anno dopo la laurea e anche se ho cambiato settore la traduzione continua ad affascinarmi. Aspetto di leggere la seconda parte 🙂

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  2. Silvia Pareschi ha detto:

    Ottima intervista, aspetto anch’io la seconda parte.

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  3. dhr ha detto:

    ottima descrizione del ‘mestieraccio’, del suo retroterra psicopatologico e dei suoi aspetti concreti 🙂

    non sono in grado di ricordare se mi sia capitato tra mano un libro tradotto dalla Mioni ma, a livello statistico, posso affermare che in generale le donne traducono meglio di noi maschietti: più precise, più gradevoli da leggere.

    insomma, un lavoro sporco ma qualcuno deve pur farlo… forza Anna!

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  4. marina ha detto:

    molto interessante!!!seguirò il resto!!!

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  5. saverio simonelli ha detto:

    molto esauriente. Grazie!!

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  6. Vittorio Felaco ha detto:

    Nessuno di noi capisce perfettamente perché tanti paesi non riescono a tutelare gli interessi dei traduttori e neanche quelli degli interpreti! Anna è stata molto brava a trattare questo tema con delicatezza, ma ci terrei a far capire ai non addetti ai lavori quanto ciò costi a noi. Le soluzioni, che sono spesso semplici da adottare, rimangono ancora oggi uno dei problemi più gravi dell’intera professione! E non parlo solo dell’Italia. La situazione negli Stati Uniti non è molto diversa da quella che vige in Italia. Ho conosciuto traduttori e interpreti che hanno sofferto molto con pensioni misere in un paese che non dà sconti a nessuno, eccetto ai milionari!

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