Il tempo dei bambini – i luoghi dell’infanzia #2

Mentre passeggio sul lungomare, sotto il sole ormai stanco della seconda metà di agosto, non posso evitare di guardare i corpi che mi circondano: mamme che inseguono bambini con la bocca piena di sabbia, vecchi rugosi che nuotano a rana nell’acqua alta un metro, ragazzi e ragazze che si rincorrono tra spruzzi gelati. Alcuni parlano in tedesco, altri in russo, altri in un italiano pieno di accenti; la pelle che li ricopre, la membrana che li contiene, assume infinite gradazioni di bianco, rosso, viola, marrone e nero; poi macchie, nei, chiazze, vitiligini, efelidi, funghi, papillomi, cisti e tatuaggi – decine, centinaia di tatuaggi di ogni forma e colore.

Quando ero ragazzo, e camminavo in spiaggia, il sentimento predominante era il desiderio. Le donne distese sugli asciugamani, o quelle che giocavano a pallavolo nella sabbia rovente, o quelle che passeggiavano a un passo dalla costa, sollevando spruzzi d’acqua con i piedi, e ridendo con gli occhi socchiusi dietro gli occhiali da sole, sembravano parlare una lingua fatta di turgida carne. Che fine hanno fatto quei corpi così espressivi? Mi verrebbe da dire che sono spariti, inghiottiti dall’euro, dal buco dell’ozono, da Berlusconi, dai cellulari – o da una qualsiasi altra cosa incomprensibile tra quelle emerse negli ultimi vent’anni, ma sospetto che il problema andrebbe descritto in termini diversi. La comunicazione richiede due soggetti: uno che emette un segnale, un altro che lo riceve e lo decodifica; e per un motivo che non so, io ho smesso di ricevere, oppure ho iniziato a decodificare nel modo sbagliato. O, forse, a decodificare in modo oggettivo: senza aggiungere significato a quei corpi.

Una delle idee che sfuggono ai bambini è quella del tempo che scorre. Si nasce in un mondo già fatto, già finito. I nonni sono vecchi, i genitori adulti, e i bambini continuano a essere piccoli per anni. Talvolta si trovano delle foto un po’ sbiadite di zii con la testa ancora piena di capelli, e si ride, perché sono buffi, e un po’ inverosimili, ma non hanno alcun legame con la realtà. Nessuno sembra ricordare il proprio passato, e quando questo viene raccontato presenta la stessa consistenza delle favole. Mio nonno era stato in guerra dalle parti di Pola, e quando era tornato i suoi vestiti erano pieni di pidocchi; mio padre aveva fatto la fame, mangiava carne una volta alla settimana e durante i bombardamenti trovava riparo nei rifugi; mia mamma fu battezzata nelle scale di casa da mia nonna, mentre scappavano sotto le sirene ululanti. Un giorno mio padre ci fece credere di essere nato alla fine del 1700 e noi fummo molto sorpresi da quella rivelazione, e poi molto orgogliosi di essere figli di un uomo che aveva quasi duecento anni. Un invitato al matrimonio dei miei genitori aveva regalato loro un filmino amatoriale girato del tutto casualmente durante quella gita in montagna che, nella storia della mia famiglia, rappresenta l’inizio di tutto: ogni tanto lo riguardavamo, ma non eravamo in grado di immaginare il processo che aveva trasformato quei corpi ventenni nelle persone che ora, adulte, si prendevano cura di noi.

Soprattutto, nessuno degli adulti, nessuno dei vecchi che ci circondavano, faceva caso alle gambe gonfie, ai capelli bianchi, ai visi segnati dalle rughe, alla pressione alta, alle dentiere, alle vene varicose, ai problemi di cuore, alle colonscopie e alle gastroscopie, alla pastiglietta da prendere dopo pranzo, e a quella da prendere dopo cena e alla memoria traballante, alle orecchie sorde, agli occhiali sempre più spessi. Quello che noi guardavano con incredulità, per loro non era un problema: c’erano i bambini con la pelle liscia, i capelli folti, i denti bianchi, sempre di corsa, sempre intenti a fare qualcosa, e c’erano loro, lenti, impacciati, incapaci di piegarsi, eppure comunque sorridenti. Era come se fossero nati così, già gobbi, già orbi, già sordi, già prossimi alla morte, e non avessero mai vissuto una vita diversa da quella; perché se non fosse stato così, se anche loro un giorno erano stati bambini come noi, così belli, così freschi, così pieni di vita, e poi qualcosa li avesse piegati, aggrediti, puniti in quel modo tanto crudele, tanto sistematico, non avrebbero potuto essere felici neppure per un momento: avrebbero invece passato i loro giorni, le loro ore, ogni singolo secondo, a maledire quel qualcosa.

Ci vuole tempo per capire che l’invecchiamento, la lentissima discesa verso la morte, è un processo inesorabile e irreversibile. Intorno ai trent’anni si ha l’impressione che sia solo una questione di concentrazione: invecchiano quelli che mangiano poca verdura, che non si mettono la crema solare a mezzogiorno, che fumano un pacchetto di sigarette al giorno. Poi, un giorno ti invitano al matrimonio di un vecchio amico, o alla cena delle elementari, e ritrovi la versione adulta dei bambini con i quali giocavi da piccolo: il tuo compagno di banco, la bambina che – ne eri convinto – prima o poi avresti sposato, il secchione con gli occhiali sul naso che alzava sempre la mano per primo, tutti davanti a te, tutti insieme. Con un po’ di fatica superi lo shock del primo impatto, e ricordi, insieme a loro, i momenti belli della tua infanzia; ma poi, a casa, riguardi le foto ricordo che avete scattato, abbracciati e sorridenti, e ti chiedi quando è successo che sei diventato così grasso, così pelato, così stanco. Improvvisamente, hai quarant’anni. Subito dopo, pensi ai tuoi genitori e ti accorgi che non sono tanto diversi dai tuoi nonni qualche anno prima che se ne andassero, con grande sorpresa di tutti.

Tornando dall’ultima cena delle medie, in macchina, da solo, ancora sudato per la serata passata a ballare con i miei vecchi compagni di classe, ho fatto una deviazione verso il quartiere nel quale sono nato e cresciuto: dopo aver parcheggiato davanti al magazzino della mamma di Alessio, ho fatto due passi lungo i marciapiedi che costeggiano i condomini di via San Giovanni da Verdara, immergendomi in un flusso di ricordi talmente struggente da risultare quasi insopportabile. Ecco la tana dove giocavamo a nascondino, ecco il campo da calcio a ELLE, delimitato dai cancelli che ora sono diventati elettrici; ecco l’appartamento al primo piano dei gemellini Enrico e Stefano, dal quale si affacciava la loro mamma per chiamarli, ed ecco l’appartamento di Giacomino, nel quale viveva con il padre architetto e il nonno Vittorio, e là in fondo, a destra, il condominio nel quale abitavano Jacopo (suo padre aveva una Renault 5 turbo che faceva sgommare quando tornava a casa), Emanuele e Antonella (il loro padre, un colonnello dell’esercito, morì nel 1981, di infarto, in un pomeriggio di una domenica d’autunno), Tommaso (che ha avuto un figlio qualche mese fa) e sua sorella Elisabetta (ho visto su Facebook le foto del loro padre: quando lo conobbi, aveva quarantun anni, due in meno di quanti ne ho adesso – ora ha i capelli tutti bianchi), e a sinistra il condominio nel quale, all’ultimo piano, vivevamo io e miei fratelli, e al secondo Andrea e sua sorella, e al primo la signora Veronese, con la sua lampada con le fibre ottiche che cambiava colore, e Carlo, morto qualche anno fa in un incidente in moto (la sua famiglia ha dovuto vendere l’appartamento nel quale era vissuta per quarant’anni, incapace di sopportare il dolore straziante degli onnipresenti ricordi). Perché quando eravamo là, tra quelle case, eravamo convinti che quel tempo sarebbe durato per sempre? La morte era così lontana da essere un evento impossibile… E invece alcuni sono morti, e tutti sono invecchiati, e nessuno ha sostituito i bambini che eravamo allora…

Ho continuato a camminare verso la mia scuola elementare. Sono passato sotto casa di Alessio, e poi davanti a quella di Marco, sotto le finestre della maestra Bruni, accanto al giardino di Caterina, di fronte alla villetta di Filippo e Maria Giovanna, e poi verso la casa dei gemelli Callegari, lungo via delle Palme, sotto gli alberi che cambiavano colore e odore ogni giorno, fino alla curva verso via Citolo da Perugia. Mi sono fermato davanti a scuola, e in silenzio ho sentito tutto il peso della distanza tra i miei ricordi e la realtà che mi circondava: il tempo non è una dimensione, come sostengono alcuni fisici, ma una forza tremenda che agisce sulle cose e le trasforma, le cancella, le espelle dalla vita delle persone. Ho fatto ancora duecento metri, fino al negozio di Otello, il negoziante pelato con la penna dietro l’orecchio che ci consegnava il pane da portare a casa, e qualche caramella per farci felici. Se fosse ancora vivo (forse lo è), avrebbe ottantacinque anni. Piano piano, perderemo tutto: dopo aver passato la prima metà della vita a conoscere un mondo, si passa la seconda a piangere la sua progressiva, inesorabile scomparsa. Spariscono i quartieri, i negozi, le maestre, i campi da calcio, le trasmissioni che guardavamo da bambini, il Corriere dei Piccoli, i nonni, i genitori, gli amici, l’albero di ciliegie dove ci arrampicavamo, i ricordi, e le nostre storie, i gavettoni e le biciclette, i pomeriggi estivi nei quali eravamo immersi con tutti noi stessi, e le mamme che ci chiamavano per la cena, e l’acqua nera che colava dalle mani quando le lavavamo alla fine di una giornata passata in giardino… E quando questa mattina ho passeggiato sul lungomare, e ho incrociato altri corpi, ho capito che una volta smascherato il trucco del tempo che passa, in qualche modo finisce la magia della vita.

(La prima parte de “I luoghi dell’infanzia – breve viaggio nel proprio passato” è qui: https://grafemi.wordpress.com/2013/08/20/la-caserma-i-luoghi-dellinfanzia-1/ )

5 commenti Aggiungi il tuo

  1. smilablomma ha detto:

    questa serie mi piace moltissimo e mi commuove. spero continui.

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  2. amanda ha detto:

    Orpo non butta bene questa fine estate, troppi magoni.
    Adoro gli amarcord ben scritti, fanno pensare a persone che se la sono vissuta bene la loro vita, che possono ancora gustare il sapore di quelle ciliegie di fine primavera perché le hanno assaporate con tutti i sensi accesi, ovunque ora la vita, ora, li voglia condurre per mano

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    1. amanda ha detto:

      un'”ora” di troppo (commento interrotto a metà dalla telefonata di un paziente)

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  3. Renato ha detto:

    Otello è vivo, e anche sua moglie Bertilla. Pensa che Carla è stata testimone di nozze di una nostra amica, più giovane di noi, che ha sposato suo nipote, ed erano entrambi al matrimonio.

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  4. Renato ha detto:

    (Naturalmente queste notiziole non vadano a sminuire la profonda verità che è disegnata in questo post)

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