Mirco Buso

Ci sono storie che iniziano dalla fine: Al Pacino viene ferito a morte nella prima scena di “Carlito’s way”, Ivan Il’ič muore nel titolo, la famiglia di Anna Frank è stata già inghiottita dalle fauci fiammeggianti di Auschwitz mentre iniziamo a leggere le prime pagine del suo diario struggente, e il Titanic giace nel fondo del mare mentre Leonardo Di Caprio e Kate Winslet fanno progetti su un futuro insieme che – noi lo sappiamo  – non avranno mai. Anche questa storia inizia dalla fine: Mirco Buso è morto. Gli anni novanta sono finiti.

Non si può scegliere la propria data di nascita – potessi farlo, chissà, punterei verso il medioevo o addirittura al tardo impero; e non si può scegliere il momento in cui si diventa grandi, e si inizia a uscire con gli amici, a bere, a mangiare, a passarci insieme gli interminabili sabato sera. Talvolta, ho nostalgia dei primi anni sessanta – avrei voluto vivere la folle scivolata verso l’anarchia, la corsa da Edoardo Vianello a Jimi Hendrix; altri giorni, avrei voluto avere quindici o vent’anni nel 1977, e vivere l’irripetibile e indecifrabile fermento di quei mesi. Invece, ho smesso di essere un ragazzino alla fine degli anni ottanta, a valle dell’onda edonista di Reagan, dopo i paninari, proprio mentre crollava il muro di Berlino e il comunismo era diventato, improvvisamente, un ricordo del passato, prima di Kurt Cobain, prima di Berlusconi, prima dei ruggenti anni duemila, a un’era geologica di distanza dalla crisi che dilania questo 2013 e i prossimi cupissimi anni che verranno.

Sono diventato grande in un periodo di transizione privo di eccessi. Si studiava seriamente, perché ancora si credeva che potesse servire a qualcosa: i politici si confrontavano sui grandi temi – la proprietà privata vs. la nazionalizzazione, il pubblico impiego, la politica monetaria – ma i toni si erano fatti più tranquilli: Mosca non incombeva più sull’Occidente. Nessuno aveva più paura per il proprio futuro. Il Paese cresceva. Noi ragazzi che passavamo le giornate a studiare all’Università, volevamo essere pronti per quando sarebbe toccato a noi prendere le decisioni. Era un impegno la cui costanza sopperiva all’assenza dell’ardore delle grandi imprese: volevamo essere gli ingegneri, gli avvocati, i dirigenti del nuovo millennio. Fu quello il nostro peccato originale? L’aver rinunciato da subito ai sogni?

1994 - si balla sui tavoli!
1994 – si balla sui tavoli!

Quindi studiavamo, sempre, ogni giorno; ma la sera, dopo un boccone mangiato al volo in mensa, o a casa, si usciva e si andava a bere qualcosa. Fu il periodo in cui scoppiò il fenomeno dei circoli Arci. Al Banale, il primo storico locale dalle parti di via Belzoni, a Padova, si aggiunsero l’Athanor, vicino a Corso Milano, dove ogni tanto c’erano concerti dal vivo, e la Papessa, sulla strada per Battaglia Terme, con il suo bel giardino estivo, e il No Se No in via Trieste, che io adoravo per il suo stile un po’ newyorkese… Ce n’era anche uno vicino al Bacchiglione, sotto gli argini, con il campo da bocce e il calcio balilla, dove mangiavamo uova sode disegnando i papiri di laurea dei nostri amici. Ovunque, si beveva birra alla spina a un prezzo decente, e si poteva stare seduti senza che nessuno venisse a chiederti nulla. Qualche volta si ballava. Qualche volta ci si ubriacava.

Ogni tanto si andava in un enoteca – ce ne erano due o tre, a Padova – e si ordinava una bottiglia da novemila lire in tre, e se il vino era forte, e ci si dimenticava di quanto fosse importante risparmiare soldi per il sabato sera, se ne ordinava un’altra, e poi si tornava a casa barcollando, abbracciati, in bici o a piedi. Il sabato, dopo aver fatto il pieno di spritz nei bar delle piazze, si andava alla Barchessa, dove servivano i primi su piatti enormi, o, se c’erano abbastanza macchine, sui colli a mangiare bigoli col ragù, costicine e salsicce. E ogni posto – i locali, le enoteche, le pizzerie – aveva ancora quell’aria un po’ casereccia da trattoria anni settanta: i bicchieri da cucina, le tovaglie rosa con disegni in raso che brillavano sotto la luce sbieca, il frigo con l’adesivo dell’Algida su un fianco e le torte alla meringa dentro, la vecchia alla cassa. Era molto tempo prima che i locali fossero disegnati dagli architetti, e il prosecco venisse servito nei bicchieri del brandy.

E poi, c’era Mirco Buso. La sua osteria era un genere a sé. Aveva il vino più economico di Padova, perché con quattromila lire ti arrivava un litro di rosso; era anche il vino peggiore di Padova, a ben vedere, una roba che iniziavi a stare male dopo due bicchieri e che il giorno dopo ti svegliavi con un’incudine appoggiata sulla testa, ma a quell’età non era importante: presentarsi in aula studio con gli occhiali da sole e la faccia quasi stravolta regalava un po’ di prestigio, e poi ci si riprendeva in fretta. Eravamo studenti sempre in bolletta, con un fegato in forma. Massimo risultato con il minimo sforzo.

Da Mirco Buso potevi trovare i giochi di società. Entravi, ti sedevi, ordinavi qualcosa, e quindi scorrevi con lo sguardo una pila di scatole l’una sopra l’altra, e sceglievi: Risiko? Monopoli? Il gioco dell’oca? Oppure chiedevi le carte. Ci piaceva giocare a briscola – quella classica, in due o in quattro, o la variante “vigliacca”, in cinque, dove contava soprattutto la faccia tosta. Se avevamo fame, Mirco Buso ci portava un toast, o una piadina, o una pizzetta tagliata in quattro fette. Alla cassa, ci faceva sempre lo sconto.

Mirco Buso girava per i tavoli e chiedeva ai ragazzi cosa stavano studiando; capiva metà degli esami che cercavamo di dare, ma partecipava alle nostre sventure. Premiava quelli che, dopo un trenta, andavano da lui sventolando il libretto, e consolava gli sconfitti, offrendo il suo vino al metanolo che leniva ogni dolore. Aveva una cinquantina d’anni, o qualcosina in più: gli occhiali da presbite, il viso rosso, la testa pelata, il sorriso di chi è contento, e la voce di quei baristi che passano la vita a parlare con i loro clienti. Ci voleva bene, uno a uno.

Mirco Buso
Mirco Buso

“Qua, ‘na volta, iera pieno de veci”, ci diceva. “Una sota co ‘na gamba de legno, uno co l’ocio de vero,  un altro col baston che non stava in pie.. Un simitero, iera qua”. Poi, eravamo arrivati noi, così, all’improvviso, da un giorno all’altro, tutti insieme. Una mandria di ventenni che passavano le serate là dentro. Non smetteva mai di stupirsi della nostra presenza, non si capacitava di quella fortuna: senza fare nulla, si era trovato di colpo con il locale pieno di ragazzi che entrando gli dicevano “ciao, Mirco!”, e poi gli raccontavano le loro avventure scolastiche, le loro storie d’amore – iniziate, sbocciate, finite – come se fosse uno zio saggio e buono. Ecco, era come se si sentisse onorato della nostra presenza – come se, dandoci da bere e da mangiare, fornendoci le carte per le nostre partite, e i tavoli sui quali discutevamo, potesse anche lui partecipare alla nostra vita, e alla nostra giovinezza. Si sentiva giovane, perché aveva confuso i nostri vent’anni con i suoi.

Ci siamo tornati alla fine degli anni novanta, laureati, mezzi sposati, impiegati, qualcuno pronto a partire, altri impegnati a cercare il mobile giusto per il salotto. Mirco Buso era già ammalato: cercava di sorridere, ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta. E mentre lo ascoltavo, lui continuava a buttare lo sguardo verso il suo locale pieno degli studenti che avevano preso il nostro posto, ed era come se volesse dirmi: “vedi? Vent’anni fa morire non sarebbe stato un problema, ma ora…”. Per un colpo di fortuna era riuscito a entrare in una festa che non era la sua, e tutti lo avevano accolto abbracciandolo; ora che doveva lasciarla, gli sembrava che non fosse ancora arrivato il momento: che ci fossero ancora toast da cucinare, vino da versare, sconti da regalare. Ma lo sapevamo fin dall’inizio, no? Mirco Buso è morto, la sua osteria non c’è più, gli anni novanta sono finiti da un pezzo. Il passato non esiste senza il presente. Ogni storia è solo un ricordo che parte dalla fine.

18 commenti Aggiungi il tuo

  1. andrea ha detto:

    Ho appena letto un romanzo che parte dalla fine, o meglio, quasi dalla fine, anche se c’è una morte di mezzo. Il romanzo è “Skippy muore” di Paul Murray. Molto bello.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Segnato, sembra interessante, ma non è troppo lungo? So che è una domanda idiota, ma sono del parere che si possa arrivare a 800 pagine solo se si ha davvero tanto da dire…

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      1. andrea ha detto:

        Formato piccolo però. Mio padre dice anche scritto un po’ troppo piccolo. Romanzo dal grande respiro. Con tantissimi personaggi e storie che s’incastrano. Io amo i romanzi molto lunghi ma capisco bene cosa intendi e sono d’accordo con te, spesso sono troppo lungi e perdono in qualità.

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  2. Ciccina ha detto:

    Non ti permettere mai più di dire che kate winslet e leonardo di caprio non faranno successo capito?????

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  3. Bisus ha detto:

    Bello.

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  4. amanda ha detto:

    certo che leggere dei posti e delle persone che sono stati anche tuoi, anche se eri già più grande, fa davvero effetto 🙂

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  5. overdose ha detto:

    hai dato senso alla tua vita Paolo in qualche modo indipendentemente dal fatto che hai talento, “testa” che, ti ha portato a vivertela, senza mai cadere troppo in basso…costante e laborioso come quell’ape anche quando la vita poteva sembrare quella un pò.. (frivola?) esuberante di un ragazzo degli 80 e 90 (ma comunque abbastanza presa sul serio..) …bhe per tutto questo un pò t’invidio…
    E forse una certa dose cinica o apparentemente tale che ti si rimprovera…
    ma il bello è che non lo sei…o se lo sei non in modo così insopportabile per me..

    p.s.: in cosa ti saresti dovuto “abbandonare” io non saprei…anche perchè mi sembra sei stato abbastanza “aperto” nella vita…non hai avuto complessi “forti” …:) livelli di coscienza più profondi che non hai ancora ben scandagliato?…una …”vita della mente” che non hai provato?…chissà Paolo forse ti saresti dovuto drogare per saperlo! ..

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  6. i mal di testa migliori della vita

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  7. Gigi ha detto:

    Bella storia. Mi appartiene. Io c’ero. ps. E la tipa che sulla foto balla sul tavolo la conosco pure 😀

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  8. clovepower ha detto:

    Io ci ho fatto la festa di Laurea da Mirco…bei ricordi e bel post…

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  9. Lau ha detto:

    Palle, i giochi in scatola da Mirco non ci sono mai stati!! e MAI che abbia fatto uno sconto… Caro vecchio Mirco, ricordo di una volta che per sbaglio batté uno scontrino da 196mila lire anziché 19mila e 600 e si presentò a casa del mio amico a chiedergli se per caso lo avesse ancora… Comunque sua moglie ha riaperto l’osteria! Se fate un giro da quelle parti, fermatevi… sai mai che riusciamo a riportarlo in auge come ai bei vecchi tempi…

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  10. Giovanni ha detto:

    Bello! Mi riprometto di leggerlo con più calma… Ma è inserito in un racconto più ampio su Padova? Perchè io di Mirko Buso parlo anche nel mio libro di prossima uscita “Camminando per Padova – Le vie del centro storico attraverso i secoli e la storia” …

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  11. Andrea ha detto:

    Il mio processo goliardico, la mia prima riunione Gran Maestri, innumerevoli altre serate goliardiche a bere e a fare casino…. e sempre ogni volta finivo con un “Mirco, dame na botilia del to rosso al do per cento che go el serbatoio del motorin quasi vodo!” (all’epoca avevo un Piaggio Bravo)…
    Sono tornato due settimane fa, ha riaperto (grazie alla figlia e al genero di Mirco), solo il bagno non è più al suo posto originale, per il resto si respira un’aria molti simile 😀

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  12. manuel ha detto:

    grazie, che bel testo. l’ho vissuto nei primi anni 2000 mirco buso, se non sbaglio ci ha lasciato nel 2003/2004. come la giovinezza.. anzi quella rimane sempre dai.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Anche Mirco rimane sempre, nei nostri cuori. Come la giovinezza, insomma! 😉

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  13. johncatrame ha detto:

    mi ricordo di te dai tempi dei giovani cosmetici..
    hai fatto rivivere il buon mirco buso. e sai come scrivere, cristo!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Grazie! 😉

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