Le avventure di Augie March – Saul Bellow

Da qualche mese sto leggendo “Le avventure di Augie March” di Saul Bellow, in una vecchia edizione Einaudi del 1962, con la traduzione di Vincenzo Mantovani (da quello che mi risulta, ancora l’unica esistente). Non ho letto solo questo, negli ultimi mesi: c’è stato il Cane giallo di Martin Amis (del quale Bellow fu il primo estimatore), la Piattaforma di Michel Houllebecq, L’ispettore Elio Gamba di Carlo Vanin, la prima parte de L’uomo senza qualità di Robert Musil – un libro che mi sta sorprendendo – e mille piccole altre cose.

L’edizione che sto leggendo ha 624 pagine; da poco ho superato il traguardo della quattrocentesima, e constato, con tristezza, che sta arrivando la fine: mi conosco abbastanza bene da sapere che poi, chiuso il libro, riprenderò a leggerlo dalla prima pagina.

Martin Amis, ancora lui, nella sua raccolta di saggi The war against cliché, scrive:

The Adventures of Augie March is the Great American Novel. Search no further. All the trails went cold forty-two years ago. The quest did what quests very rarely do: it ended.

Il Grande Romanzo Americano, dunque. E in effetti, leggendo questo libro, pare di intravedere la nascita dell’uomo americano, della sua essenza, della sua peculiarità: un cammino di formazione che lo allontana dall’Europa, e dai suoi spazi angusti, e lo porta in una dimensione nuova, solo sua. Augie, voce narrante, è un individuo senza padre, cresciuto in una famiglia scalcagnata di Chicago – padre sparito, madre remissiva, un fratello più grande sempre teso verso la realizzazione economica, un fratello più piccolo deficiente, nel senso clinico del termine, che a un certo punto deve essere affidato alle cure di un istituto – un manicomio. Le relazioni con il mondo, gli scopi della gente, i mezzi a disposizione e le strade da tentare vengono definite lungo il cammino: mentre il romanzo europeo parla quasi sempre del tentativo, riuscito o fallito, di un individuo che cerca di integrarsi, o di ribellarsi, alle regole della società in cui vive, Le avventure di Augie March racconta di come una generazione di americani ha definito le regole stessa della società in cui sarebbe vissuta. Il senso di libertà che queste pagine emanano è quasi struggente; e osservando l’America di oggi, le sue idiosincrasie e le sue ossessioni, ci si chiede quanto è andato perso delle premesse che si intravedevano allora, nel tumulto che seguì la Grande Depressione, negli anni che precedettero la Seconda Guerra Mondiale.

Saul Bellow
Saul Bellow

Al di là delle idee che stanno dietro questo romanzo (“Le grandi idee non servono a niente: conta solo lo stile e la struttura”: chi l’ha detto?), è la lingua che Bellow crea, inventa, ad essere abbagliante. Nel suo bellissimo saggio Mademoiselle O, il giovane Adam Thirlwell confronta, per accostamento, i tentativi compiuti negli anni quaranta da un giovane Bellow per arrivare a definire il linguaggio di questo libro (la cui realizzazione richiese quattro anni, e che tu terminato nel 1953). Il risultato di quegli sforzi è di una bellezza nuova e inarrivabile – una lingua libera dai retaggi europei, finalmente americana, capace di raccontare un mondo che stava nascendo. L’America è questa prosa, e questa prosa è l’America: una reciproca definizione. E non è un caso che Saul Bellow fu uno dei primi ad apprezzare il giovane Martin Amis per la sua “lingua elettrica”: se Bellow inventò la lingua per raccontare la nascita dell’America, Amis riuscì a creare quella che avrebbe descritto la sua rovinosa caduta.

So bene che estrapolare una pagina da un libro serve a poco – la grandezza di un romanzo è inseparabile dalla sua totalità, e dal movimento creato dall’evoluzione dei personaggi e della trama… Ma quando ho letto queste due pagine, qualche sera fa, ho sentito di essere sul bordo di una montagna che si affacciava su un’enorme vallata – la stessa vertigine, lo stesso sgomento per la bellezza incommensurabile. Non so quanto sia necessario leggere le 388 pagine che le precedono – ma la parte in cui si scorgono gli occhi calmi e lenti di Thea, la ragazza di Augie, ha il valore assoluto di un diamante puro e perfetto.

Le avventure di Augie March

Saul Bellow – edizioni Einaudi – traduzione Vincenzo Mantovani – paggg. 388-389

S’era di pomeriggio: ci trovavamo sulle prime balze dei monti Ozark, a una buona distanza dalla strada, nei boschi presso un pascolo. Sopra di noi c’era un brulichio di pini nani, e più in alto alberi più grossi, e sotto il terreno digradante. Siccome l’acqua che avevamo era cattiva, per migliorarne il sapore la correggemmo con il whisky. Faceva caldo, e l’aria era limpida, le nubi bianche e grevi, gonfie, minacciose, in serici grappoli. I campi aperti luccicavano cuocendosi al sole, il frumento sembrava l’immagine riflessa del frumento,  le bestie avevano le zampe nell’acqua. Prima il caldo e poi il whisky ci convinsero a spogliarci, a toglierci la camicia, poi i calzoni, e infine ogni indumento. Fui sorpreso alla vista di quei suoi seni rosei, così pesanti e prominenti, che malgrado tutto mi incutevano, ancora, all’inizio, una certa timidezza. Quando cominciai a baciarla, restando entrambi in ginocchio, mi passò una mano sui peli del ventre: mi sorprendeva, a volte, il posto in cui posava un tenero bacio, e non sapevo di dove sarebbe scaturito  l’empito di felicità. Dapprima mi porse solo un lato del viso e, quando mi offrì le labbra, per un po’ non volle aprire la bocca, finché le sue braccia non mi strinsero la testa. Mi sentii, quando fui avvolto e sopraffatto dal calore, vicino a lei come non mai, e fino all’ultimo pelo, trascinato sopra il suo corpo, agevolmente. Non aveva chiuso gli occhi, ma non era aperti per vedere me o qualsiasi altra cosa; colmi e lenti, non compivano alcuno sforzo ma ricevevano o rivelavano soltanto. Ben presto, quasi senza accorgermene, seppi che uscivo dai miei nascondigli e dalle mie strettoie, dagli sforzi, dagli scopi e dalle osservazioni, e non volevo nulla che non fosse per lei e mi sentivo identico a lei. Restammo a lungo così come eravamo, staccandoci e distendendoci lentamente ma sempre tenendoci abbracciati, poi più vicini, ancora una volta, baciandoci sul colo e sullo sterno e sull’orlo del viso e sui capelli.
Frattanto le nubi, gli uccelli, le bestie nell’acqua, le cose, si tenevano a distanza, e non ci fu nessun bisogno di radunarli in un gregge, metterli fuori combattimento, tenerli per le corna, perché ciò fu sufficiente per essere in mezzo a loro, distesi a terra, in libertà, come essi lo erano nel torrente o nell’aria. Era questo che intendevo, o pressapoco, quando ho detto che ogni tanto potevo guardarmi intorno come un animale. Perché, in qualsiasi cielo avessi guardato, sarei stato in grado di rammentare le api e le particelle d polvere nell’afa pesantemente divisa di un budello tra i piloni della sopraeleva – come Lake Street, dove si trovavano i vecchi depositi di rottami e bottiglie – come la tremenda immagine di una chiesa di pazzi, e le sue stazioni, innumerevoli, dove strisciano gli adoratori con i loro carretti di stracci ed ossa. E a volte m’invadeva la pena di sentire che io stesso ero il prodotto di tali luoghi. Com’è che gli esseri umani sono pronti a cedere agli inganni della storia mentre le semplici creature vedono con i loro veri occhi?

Altopiano di Ozark
Altopiano di Ozark

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. La McMusa ha detto:

    Bellissima analisi la tua. Augie March è proprio quello che dici tu, la definizione dell’America, la creazione del suo linguaggio e delle sue regole. Un romanzo stupendo davvero. Sei arrivato alla fine?

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  2. carloesse ha detto:

    Avevo solo 16 o 17 anni quando mi capitò per la prima volta di leggere Bellow. Il libro era Herzog, e rimasi sconcertato. Lo abbandonai presto, ma ritentai riprendendolo da capo, pensando che la prima volta non ero forse nello spirito, che non era il momento. Fu tuttavia solo al terzo tentativo (era passato almeno un paio di anni) che riuscii a entrare in quello strano linguaggio, in quella struttura apparentemente caotica e mi resi conto di trovarmi davanti a un grande scrittore. Mi appassionai al punto da trovare in breve tempo altre opere del medesimo autore, tra cui anche questo “Augie March”, e continuai a leggerlo fino alla sua morte.
    Herzog è rimasto il romanzo che mi ha maggiormente impressionato, ma anche Augie March non è sicuramente da meno.
    Recentemente ho riletto “Il pianeta di Mr. Sammler”, trovandone immutato godimento (se non maggiore della prima volta). E’ da questo che si vedono i grandi scrittori. E senza Bellow non ci sarebbe Richler, e forse neanche Roth e la letteratura americana contemporanea sarebbe monca di una sua parte importante.
    Forse la più notevole.

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