Quando ho saputo dell’intervista in cui Philip Roth dichiarava, abbastanza a sorpresa, che non avrebbe più scritto un libro – aveva da poco finito di rileggere tutti i suoi romanzi a ritroso, fino a Lamento di Portnoy (che non è il primo, ma è quello che evidentemente Roth ritiene essere il suo punto di inizio) – ho pensato: e ora?
Amo diversi scrittori con la caratteristica molto umana di essere già morti. Alcuni, mi hanno lasciato un sacco di tempo fa, come Flaubert, Cechov, Kafka, Nathanael West o Flannery O’Connor; altri, in tempi più recenti, come Nabokov, Borges, Wallace (che dispiacere, quel giorno)… La morte pone un confine all’espansione della loro opera: i libri che hanno scritti sono un insieme numerabile. Roth, invece, ogni due o tre anni, continuava ad aggiungere un nuovo capitolo alla sua opera monumentale. Ma l’anno scorso ha detto basta. Così, improvvisamente, ho dovuto accettare che tutto quello che avrei potuto leggere di uno dei miei autori preferiti era già stato scritto. Che quel corpus monumentale non sarebbe più cresciuto.
Per questo ho rinviato la lettura di Nemesi, l’ultimo – a questo punto definitivamente l’ultimo – romanzo di Roth (ha qualcosa da papa Ratzinger, questa coesistenza di un autore vivo e di un’opera che non crescerà più): ho preferito rileggere Pastorale Americana e Il teatro di Sabbath, che sono, a mio parere, le 800 pagine più alte e più importanti scritte nel ventesimo secolo, mentre Nemesi rimaneva là ad aspettare. Conoscevo la storia a grandi linee – l’estate, l’epidemia di polio, un insegnante che si occupa di ragazzi. E conoscevo il titolo, che diceva molto. Alla fine ho ceduto. L’ho letto durante questa settimana, la sera, dopo cena, con calma.
Non credo che il problema sia stato un’aspettativa troppo alta: conoscevo le ultime fatiche di Roth (diciamo da Complotto contro l’America in poi) e sapevo che la sua produzione era in fase calante. Ma il punto è che ho fatto fatica ad arrivare alla fine: una fatica talmente grande che ho avuto la tentazione di smettere almeno tre volte. A un tratto mi sono sentito invaso dall’imbarazzo: per lui che l’aveva scritto, e per me che lo stavo leggendo. Ho avuto il sospetto (o forse la speranza) che si trattasse di un problema legato alla traduzione, che considero comunque pessima (non è un problema di “resa”, ma di mera conoscenza di cosa si può dire in italiano, e di cosa non suona bene) ma non c’è nulla – la trama, i personaggi, il dramma – che funzioni, in Nemesi. Dov’è finito l’autore che ha rivoluzionato la letteratura della seconda metà del novecento? Ecco la descrizione del personaggio principale (che per un motivo misterioso per gran parte del libro viene chiamato Mr Cantor).
Su quel corpo compatto troneggiava una testa notevole, una combinazione di tratti sbilenchi e obliqui: zigomi larghi e pronunciati, fronte alta, mascella spigolosa e un naso lungo e dritto con un ponte sporgente che faceva somigliare il suo profilo affilato a una silhouette su una moneta. Le labbra carnose erano altrettanto ben definite dei muscoli, e la carnagione era brunita tutto l’anno. Fin dall’adolescenza portava i capelli a spazzola, in stile militare. Un’acconciatura che metteva particolarmente in risalto le orecchie, non perché fossero troppo grosse – non lo erano -, e neppure perché fossero particolarmente appiccicate alla testa, ma perché, viste di lato, avevano la forma di un asso di picche in un mazzo di carte, o delle ali di un mitologico piede alato, non essendo arrotondate in cima, come di consueto sono le orecchie, ma praticamente a punta.
Sembra di essere tornati, improvvisamente, alla fine del diciottesimo secolo – quelle interminabili descrizioni lombrosiane dei personaggi, i loro nasi, gli zigomi, le orecchie… Poco dopo, parlando di un certo Horace, lo scemo del villaggio del quartiere dove si svolgono i fatti:
Aveva una faccia lunga e irregolare, come se fosse stata sgualcita e deformata nella morsa del canale uterino, a parte il naso, che era grosso e, in rapporto alla strettezza della faccia, stranamente e grottescamente bulboso, così che, quando col suo passo strascicato sfilava davanti al portico o al vialetto dov’erano radunati, alcuni ragazzi amavano stuzzicarlo gridandogli «Ehi, naso a trombetta!»
Ma al di là di questa clamorosa regressione della lingua rispetto a quella rivoluzionaria dei capolavori di Roth degli anni ottanta e novanta, c’è l’ineludibile banalità del nucleo drammatico, che si basa su una domanda (come è possibile che esista Dio se i bambini muoiono?) e la sua variante più generica (perché i bambini muoiono?) Se lo chiede il personaggio principale durante il funerale di un ragazzino.
Dentro il carro Mr Cantor vide il feretro. Impossibile credere che Alan giacesse in quella disadorna, pallida cassa di pino solo perché si era preso una malattia estiva. La cassa da cui non esiste via di fuga. La cassa in cui un dodicenne resta per sempre un dodicenne. Il resto di noi sopravvive e invecchia, ma lui continua ad avere dodici anni. Trascorrono milioni di anni, e lui ne ha ancora dodici.
Esistono considerazioni più banali di queste? Il problema dell’esistenza di Dio in un mondo in cui imperversa il Male è uno dei temi centrali del ventesimo secolo. Ma qui il male è un’epidemia, un virus – non la crudeltà inaccettabile dei campi di concentramento – e la nemesi colpisce un uomo che, nel suo rigore etico, è poco più di una macchietta. I personaggi principali, tutti poco più che ventenni, si pongono domande che si pongono, appunto, solo le persone poco più che ventenni quando, per la prima volta, si accorgono che la gente muore anche se non ha colpa. A un certo punto Mr Cantor e la sua fidanzata Marcia, mentre giacciono distesi nudi in un isoletta in mezzo a un lago, sotto un cielo che, ovviamente, sta minacciando un temporale, discutono di Dio in questi termini:
Ma come può un’ebrea pregare un dio che ha fatto scendere una maledizione come questa su un quartiere di migliaia e migliaia di ebrei? – Non lo so! Dov’è esattamente che vuoi arrivare?
A un tratto ebbe timore di dirglielo, timore che, se avesse continuato a insistere perché comprendesse ciò che lui aveva compreso, avrebbe perso lei e la sua famiglia.
Però, prima che arrivi la nemesi (e non è importante spiegare quale: dopo aver letto tre pagine è già chiaro quello che succederà – è come se gli indizi fossero evidenziati con il luminol), è necessario mostrare che la vita è bella. Ecco come Philip Roth, il creatore di storie che hanno sconvolto la morale occidentale, cerca di ottenere il risultato:
Mentre Bucky se ne stava sulla banchina sotto il sole caldo a guardare le facce illuminate dai raggi solari che ballonzolavano nell’acqua, una delle farfalle si posò su di lui e cominciò a succhiargli la spalla nuda. Miracoloso! Sorbiva le sostanze minerali del suo sudore! Fantastico! Bucky restò immobile, osservando la farfalla con la coda dell’occhio finché si alzò in volo e subito scomparve.
Una farfalla che si posa sulla spalla del protagonista: è questa la vera nemesi del libro – la nostra nemesi! Dopo aver passato la vita a sferzare quello che c’era di trito, scontato e borghese nella letteratura, Roth rinnega tutti i suoi sforzi e punisce i suoi lettori! E mentre la storia procede sempre più scontata, sempre più stanca, si ha l’impressione di vedere un grande calciatore del passato che scende in campo ormai grasso, quasi incapace di camminare, con il fiato corto, e che pretende di giocare una partita come se il tempo non fosse passato. E’ per questo che ha smesso di scrivere? Perché ha riletto Nemesi e ha capito che quello scrittore non era più lui?

È probabile.
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pastorale americana l’ho amato molto.
ho letto con gusto la mia vita di uomo, indignazione, la macchia umana, ho sposato un comunista, everyman.
non mi sono piaciuti zucherman, il prof di desiderio, i fatti, la controvita, il fantasma esce di scena.il teatro di sabbah mi ha fatto schifo.
nemesi mi è parso senza infamia e senza lode, assolutamente leggibile.
questa la mia classifica personale, di una persona a-intellettuale.
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Ho amato anch’io molto “Pastorale americana”, ma considero “Il teatro di Sabbath” un capolavoro – anche nel suo essere repellente.
“Indignazione” è un po’ fragile; “La macchia umana” è un grande libro, così come “Ho sposato un comunista” ed “Everyman”. Ma anche “La controvita” è eccezionale… Gli autori dividono e uniscono! 😉
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L’ha ribloggato su La Biblioteca Della Lettrice Solitaria.
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Grazie, sono davvero onorato!
A presto,
Paolo
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Ps la pagina non è più raggiungibile…
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Io mi ero stifata già da un pezzo. Di lui rimane quasi solo il vecchio sporcaccione. E santo cielo, ne facciamo a meno. Cioè, io ne faccio a meno. Il mio tempo è poco, va dosato…
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Eh… il problema è che su “Nemesi” non c’è neppure il vecchio sporcaccione! 😉
Scherzi a parte: è un gigante, ma che ha costruito la sua grandezza con un’impressionante forza di volontà… quando è venuta meno, i risultati sono stati subito scarsi.
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la nemesi potrebbe essere proprio nel mettere a nudo aspetti insopportabili, gettare certe maschere o trucchi del mestiere …sulla traduzione invece ci sono delle cose interessanti che ho notato, il nome della fidanzata, “Marcia”, che in italiano fa subito sorridere, per via della “c” che in inglese si pronuncia in modo diverso, e lo stile, che come hai già sottolineato tu è molto letterario, quasi arcaico, parla una lingua lontana…rientra nel filone di un certo modo di tradurre qui in Italia, le ripetizioni nel testo di partenza si saltano, con dei risultati spesso leziosi…
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Sì, ho trovato cose davvero inspiegabili.. a un certo punto “i due restarono avvinghiati con braccia non paralizzate, dondolandosi al ritmo della musica su gambe non paralizzate, premendo l’uno contro l’altra torsi non paralizzati”. Possibile che non esistesse nessun altro modo di tradurlo?
E la lingua…. questo è un pezzo di dialogo verso la fine:
– Lungi da me, – ribattei -, trovare da ridire sul conto di un ammalato di polio, giovane o vecchio che sia, che non riesce a superare del tutto il dolore di un’infermità che non ha mai fine.Sulla sua persistenza c’è di che rimuginare, è ovvio.
Che…che…che… Questo è un problema di traduzione, non di autore.
Ma anche Roth sembra aver perso tutto lo smalto di un tempo…
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Hai ragione, magari l’hanno pure corretto, pensando di migliorarlo…
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Finalmente inizio a capire cosa mi sta succedendo con Roth. Ed è triste parlarne. Forse anche un po’ vergognoso. Roth è un amore maturo, di quelli che quando arrivano ti squassano, anche se ormai dovresti averci fatto l’abitudine, alle meccaniche dell’amore. L’ho conosciuto col “Lamento di Portnoy” e, soprattutto, con “Pastorale americana”, il libro che ho sempre usato per provare agli altri e a me stessa l’eccezionalità del “mio” scrittore. Ho passato due anni a leggerlo, sottolinearlo, adorarlo sotto le coperte, incassata nel divano, sui sedili dei treni, in panchina, stesa sull’erba… Roth, sempre Roth, comunque Roth. Consumato con quella foga che si regala a un amore nato da poco, oggetto di un vero e proprio culto (che come scrive lui non scrive nessuno) con l’esaltazione chimica dei primi sei mesi che poi, però, finiscono. E ti ritrovi, senza sapere bene il perché, a dire che l’ultimo letto non è poi così eccezionale, che la sua penna è sempre buona ma senza apici, che ti convince ma non ti entusiasma. E inizi a cercarne altri, di autori, senza sentirti in colpa, del resto, ché la poligamia su carta è lecita e addirittura apprezzata. Eppoi arriva la presa di coscienza: il Roth dell’inizio (il tuo inizio, non il suo ovviamente) non lo ritroverai mai più. Qualunque cosa abbia scritto e io non abbia ancora letto non sarà più in grado di emozionarmi le viscere. (queste cose le ho scritte leggendo “Il professore di desiderio” e me le hai fatte tornare in mente. Siamo lettori poligami, fortunatamente. E gli scrittori non sono amanti sempre in tiro.) Ciao.
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Siamo lettori poligami… è vero! Si conosce un autore, e l’emozione di quel primo incontro è insuperabile. Ricordo ogni “prima volta” – con Wallace, Kundera, Nabokov, Amis, Flannery O’Connor, Flaubert…. Poi si vuole leggere tutto – anche ciò che pensavano di quello che scrivevano. E poi inizia qualcosa di simile al matrimonio: amore maturo ma le farfalle nello stomaco si sentono meno…
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La sua recensione è così priva di forza da essere volgare. Non si può sminuire un libro e un autore con i mezzucci che usa lei.
“I personaggi principali, tutti poco più che ventenni, si pongono domande che si pongono, appunto, solo le persone poco più che ventenni quando, per la prima volta, si accorgono che la gente muore anche se non ha colpa”.
Lei che domande si pone? Quali domande bisognerebbe porsi?
Roth sa andare al cuore delle cose, usa un’anacronistica descrizione di facce e luoghi ad uno scopo: calare il lettore nella tragedia, la stanca, ripetuta, ineluttabile tragedia inflitta dal destino. Non è il problema dell’esistenza di Dio, …..è l’indifferenza del caso.
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Buongiorno Maria, mi fa molto piacere ricevere un commento così appassionato: la critica si può fare solo a viso aperto, prendendo posizione. Parto da lontano. Cos’è una recensione di un libro? Quando è onesta, non è altro che la rappresentazione dell’impronta che un libro lascia su un particolare lettore, in un particolare momento della sua vita. Parla più del recensore che dell’autore. Nel caso specifico: ritengo che Philip Roth sia il più grande scrittore del ventesimo secolo. Considero alcuni suoi libri (tra tutti “Pastorale americana” e “Il teatro di Sabbath”) opere paragonabili solo alle grandi tragedie di Shakespeare. Non voglio tediarla, ma se vuole sapere il mio parere, ad esempio, su “Il teatro di Sabbath”, può leggere questo: https://grafemi.wordpress.com/2012/11/01/il-teatro-shakesperiano-di-sabbath-le-influenze-di-philip-roth/ E può essere che proprio questo grande amore, questa aspettativa smisurata, abbia falsato il mio giudizio su “Nemesi”, che però, per quanto povero e volgare, mi sento di riconfermare. Lei mi chiede: che domande avrebbero dovuto porsi i personaggi di Nemesi? Io le rispondo: le domande che si pone Sabbbath, o quelle che si pone Levov, o quelle che si pone Zuckerman quando parla di Levov. In Nemesi, c’è solo un pallido riflesso di quella potenza introspettiva, di quella profondità cognitiva che lascia stupefatti in “Pastorale americana” o in “Il teatro di Sabbath” (o in “Inganno”, in “Lezione di anatomia”; in “Lamento di Portnoy”, in “Everyman”, in “La macchia umana”). L’ho trovato stanco, esausto, il mio amato Roth in questo libro: privo di forze, svuotato di tutto. Perfino la sua lingua ha perso gran parte del vigore delle opere precedenti. E più ci ripenso,e più mi piace pensare che Roth se ne sia accorto, che l’abbia capito, e che proprio per questo abbia deciso, dopo questo libro, di gettare la spugna. Ha capito di aver detto tutto quello che doveva dire. Da un certo punto in poi, il fuoco si è estinto. E “Nemesi” assomiglia più a una brace che alla fiamma dei libri precedenti… Non la voglio convincere a darmi ragione – ci mancherebbe. Ho solo provato a spiegarle meglio il mio punto di vista. Grazie ancora per aver condiviso il suo parere, Paolo
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Questo Roth privo di forze a me piace. Mi piacciono le sue domande da ventenni “schiocchi”, il suo scrivere cercando di cogliere quel momento della vita in cui ancora proviamo un senso di ribellione.
Mi sono piaciuti anche gli altri libri che lei cita. Forse amo troppo questo autore per leggere le sue opere con il necessario distacco. Gli sono grata perché attraverso i suoi personaggi mi ha dato l’illusione di vivere seguendo prospettive che la mia esperienza (per fortuna il più delle volte) mi ha negato. E’ un autore di cui leggerei con interesse anche gli appunti per la spesa.
Non credo però che Nemesi mi sia piaciuto solo perché sono incapace di giudicare negativamente qualsiasi cosa che di Roth ho letto dopo Pastorale Americana (il primo suo libro che mi è capitato tra le mani). Mi è piaciuto perché questo ragazzo dalle molte qualità che non viene risparmiato dal suo destino è per me la domanda. Accettare l’indifferenza del caso non è così banale a nessuna età, per nessuno. Roth ce ne parla provando a dar voce a un ragazzo che meno di tutti è in grado di subire il peso di questa indifferenza. A me quella voce sembra credibile, la sua semplicità la rafforza.
Non è certo mia intenzione convincerla. I giudizi dati con la leggerezza di cui mi sembrava provvisto il suo un po’ mi spaventano. Mi sembrava ho detto, perché in realtà non ne ho la più pallida idea.
Grazie per la sua risposta
Maria
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Forse è perché sono poco più che ventenne, ma a me è piaciuto davvero molto. Forse sono davvero domande da giovani quelle che Bucky si pone, sono intrise di quell’idealismo – ma anche egocentrismo – che però al momento sento come vero. Non so cosa, in futuro, prenderà il posto di questo sentimento.
Il teatro di Sabbath è invece uno dei suoi libri che non credo leggerò mai, perché temo il “Roth vecchio sporcaccione” – quello che io proprio non apprezzo di una buona fetta di letteratura americana, l’eccesso, la volgarità – di cui parlavate ironicamente qualche commento più in alto.
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“Il teatro di Sabbath” è oscino, ma non volgare: dionisiaco, priapico, ma credo che, al di là di un turbamento di superficie, si avverta la prorompente forza anarchica della vita. Lo considero uno dei migliori cinque romanzi di sempre, e gareggia, in grandezza, con l’Amleto di Shakespeare. Leggerlo è come scendere nel tumultuoso inferno che si nasconde dentro a ogni uomo (e donna? non lo so, non le conosco abbastanza).
Sarei curioso di rileggere il tuo parere su Nemesi tra vent’anni, per capire se è una questione di età o di gusti.
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