L’inserto del lunedì – La pioggia, di Daniele Trevisan

Come si sentivano i cercatori d’oro quando trovavano una piccola pepita? Credo di saperlo. Da poco ho concluso una serie di incontri con dieci esseri umani i quali hanno deciso di confrontarsi sulla scrittura. Abbiamo passato insieme sei pomeriggi, tra novembre e maggio – panettoni, frittelle, colombe, fragole, prosecchi e trecce di pane. E setacciando con pazienza i nostri giardini privati, piano piano abbiamo trovato cose davvero interessanti. Oggi propongo un racconto di Daniele Trevisan, giovane medico padovano (ma questa storia non ha nulla di autobiografico: una volta tanto è fondamentale specificarlo). Dopo averlo letto, mi sono detto che ci sarebbe bisogno di una raccolta di storie dal fronte più duro del ventunesimo secolo, quello tremendo delle corsie dei malati terminali.
Con l’augurio che questo “esordio” gli porti bene, ecco “La pioggia”. Buona lettura!

La pioggia
di Daniele Trevisan

Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale.
«Affanculo Ippocrate» sibili a mezza voce.
«Come dice dottore?»
«Niente, lasci stare.»
Fuori  è già sera, dai vetri arriva un suono ritmico, famigliare, di attesa: sta piovendo e la pioggia sembra impaziente, quasi quanto te, di mettere fine a tutta questa storia.
«Fatto, dottore.»
Silvia, l’infermiera, ti pone una siringa da 5 ml già riempita e protetta dal copri-ago.
«E’ sicuro?» ti chiede serrando le labbra.
«No» rispondi e non ci può essere verità più assoluta ma hai dato la tua parola, ora devi solo decidere che valore ha.

 È successo mentre stavi prendendo il caffè, giù ai distributori automatici accanto all’ingresso, la vecchia si è avvicinata, silenziosa e deferente, come sempre, questa volta però non ti ha rivolto il solito sguardo da povera bestia implorante, questa volta è stata diretta: «Non ce la faccio più dottore, non si può…»
Ha lasciato la frase sospesa, sperando che tu agganciassi il discorso, buttandoti un’esca e tu l’hai colta, hai capito subito cosa voleva dirti ma il tuo ruolo ti ha suggerito una risposta evasiva: «Non capisco, signora, di cosa sta parlando». Lei ti ha guardato, questa volta con un espressione dura e incontrovertibile:
«Lo sa di cosa parlo.»
«Venga in ambulatorio.»
La conosci da due anni, da quando ti hanno scaricato in reparto quel che resta di suo figlio: un ricettacolo di infezioni polimicrobiche, un involucro inerme che consuma risorse a spese dei contribuenti, nient’altro che un corpo vuoto, senza più speranze di poter essere considerato un uomo.
Il pietismo l’hai gettato nel cestino dei rifiuti molto tempo fa, quello che pensi non ti appare nemmeno più cinico ma solo evidente, potenza della deformazione professionale acquisita in dieci anni di lungodegenza.
I primi tempi la madre bussava quotidianamente alla porta dell’ambulatorio. Potevi riconoscere il tocco timido, quasi sfiorante sul battente, poi entrava, ti guardava con gli occhi intrisi di una speranza ottusa e fuori luogo e ti chiedeva: «Allora, dottore?»
Poteva sembrare un appello stupido, eppure eri pronto a giustificare quella vecchia col pensiero che si trovasse intrappolata nell’impossibilità di elaborare il lutto: un figlio in stato vegetativo persistente che non si risveglierà mai più dal sonno eterno, eppure così vivo, così tangibile, con gli occhi sbarrati, il cuore battente, il respiro regolare.
La tua risposta è sempre stata un sospiro e un movimento della testa come di diniego.
I colleghi della rianimazione avevano provato a spiegarle il significato di quel limbo esistenziale ma la sua povera mente di mamma non aveva potuto elaborare nient’altro che un sillogismo ingenuo: Alberto è vivo e, finché vive, c’è la possibilità che si risvegli.
Quindi te l’avevano scaricato, in lungodegenza: la cloaca dell’ospedale, la banchina da cui partono treni che hanno una sola, possibile, destinazione.
Avevi letto la sua storia: quel tizio che ora ti stava davanti fissandoti senza vederti, era un cocainomane della prima ora, uno che nella vita non aveva combinato granché e si era ritrovato a fare i conti con amicizie scomode. Qualcuno dei suoi “amici” (si suppone per una storia di prestiti andata male) l’aveva pestato a sangue davanti all’Istituto Alberghiero e l’aveva lasciato a terra agonizzante accanto ad un cassonetto dell’immondizia.
Un passante vedendolo aveva avvertito il 118 e quei supereroi mancati dei volontari della Croce Rossa  l’avevano ripreso dopo un arresto cardiaco, attaccandolo all’esistenza con uno sputo e condannando la famiglia ad un lutto perenne.
Era questo che la signora inizialmente non aveva capito, Alberto era già andato, le sue funzioni superiori irrimediabilmente danneggiate, la sua anima, se ne esiste una, era già arrivata a destinazione quando lui aveva varcato le porte del Pronto Soccorso.
Poi, lentamente aveva compreso: Alberto non si poteva svegliare, allora le sue visite, pur mantenendo una certa regolarità si erano fatte più rade, non ti chiedeva più alcuna informazione limitandosi a un sorriso timido mentre ti salutava con cortesia se la incrociavi in corridoio.

 Dopo aver chiuso la porta dell’ambulatorio è scoppiata a piangere.
«Non ce la faccio più! La prego dottore, basta, facciamola finita!»
«Signora» le hai risposto con calma «Quello che mi sta chiedendo si chiama eutanasia, comprendo il suo dolore ma mi sta chiedendo una cosa che non posso fare.»
«Le chiedo solo di fare il suo dovere.»
Sulle prime non capisci quella frase, poi ragioni: qual’è il dovere di un medico? Se prendi il primo che passa per la strada e glielo chiedi ti dirà che il medico deve salvare la vita alle persone ma questo, lo sai, va bene solo per i telefilm americani sui dottori. Il vero dovere di un medico è perseguire il benessere del paziente e, per estensione, della sua famiglia.
Guardi la madre di Alberto, quanti anni può avere? A prima vista diresti un’ottantina ma sai che potrebbe essere anche molto più giovane, dato quello che sta vivendo.
«Signora, non posso.»
«Dottore, la prego.»
«D’accordo, mi lasci pensare.»
L’hai detto d’istinto, per disperazione, per poter distogliere lo sguardo da quell’essere infelice, «Grazie» ti ha detto la signora e quasi voleva baciarti una mano.

 «Dottore?»
Silvia ti riporta nella stanza di Alberto, da fuori la pioggia furiosa gratta sulle finestre, in mano hai ancora la siringa riempita col Cloruro di Potassio a 20 meq. Hai scelto il potassio dopo averci ragionato su per una notte intera. Inizialmente avevi scelto l’insulina, dieci unità sarebbero bastate ma volevi evitare gli effetti neurologici dell’ipoglicemia: i tremori, le clonie,gli spasmi.
Il potassio avrebbe indotto un’aritmia cardiaca fatale ma non ci sarebbero stati elettrocardiografi a registrarla, il cuore sarebbe impazzito per qualche minuto, non di più e poi si sarebbe fermato, senza scosse, senza sussulti, un modo estremamente elegante di andarsene.
Sviti il tappo dell’agocannula, togli l’ago dalla siringa, la innesti e cominci a premere lo stantuffo, lentamente.
Silvia sospira, quasi impercettibilmente. Hai scelto lei, da solo non avresti potuto fare nulla, l’hai scelta perché sai come la pensa, perché tante volte avete parlato a bassa voce della non esistenza di quell’uomo ridotto allo stato di un contenitore vuoto che avete contribuito a non far marcire. Sai che Silvia manterrà il segreto, sarete complici per sempre, nessun rimorso, nessun rigurgito di coscienza.
Il corpo di Alberto sembra inarcarsi: è solo una tua impressione. L’infermiera controlla il polso carotideo, ti guarda «Avviso la madre»
«Faccio io» rispondi
Prima di uscire dalla stanza prendi la fialetta vuota del potassio e la infili nella tasca del camice, non è sfiducia, solo raziocinio.
Componi il numero della madre di Alberto, quando ti presenti la senti piangere un pianto di liberazione.
«Ci siamo» riesci a dire. Lei continua a piangere, tra i singhiozzi individui un “grazie” ma forse non l’ha mai detto.
Riagganci, getti la fialetta nel cestino dei rifiuti speciali. Ti togli il camice, vuoi solo andartene dal reparto. Saluti Silvia da lontano, lei tornerà a casa tra le braccia del suo uomo e, anche se non gli dirà niente lui saprà scacciare i fantasmi dalla sua mente.
A casa tua troverai solo il tuo gatto ad accoglierti con uno sguardo di sufficienza e nessun interesse ad ascoltare storie di morte.

Esci dall’ospedale, sei senza ombrello. La pioggia ti sbatte contro cercando di sciacquare dalla tua anima il disgusto.
È solo questo che provi, non c’è pentimento, dolore, sofferenza, un po’ di inquietudine magari e c’è la pioggia, inutile, fredda, ci sei tu che cammini, nel buio, completamente solo.

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Daniele Trevisan
Daniele Trevisan

 

 

Daniele Trevisan è nato a Padova nel 1978, laureato in Medicina, sposato, senza figli, scrive per hobby, per traslare su carta le idee che gli vengono in mente. All’attivo ha pubblicazioni  in ambito scientifico e un manuale di primo soccorso aziendale.

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. tramedipensieri ha detto:

    Ho letto e, niente…mi trovo d’accordo con la decisione del medico. Una grande responsabilità, un grande animo, una comprensione che va oltre la vita. La pietas così dovrebbe essere…

    Ciao
    .marta

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  2. woodwood ha detto:

    Bravo Daniele!..ho letto tutto d’un fiato e sono stata male male, ho avuto anche un dubbio: mi si è’ aperto uno scenario a cui già’ pensavo tempo fa in un PS.

    Per ridere…Zardi lo sa, ma a Padova solo scrittori “tragici” 🙂 ???

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