Una falsa partenza

Uno degli aspetti che rendono più difficile scrivere un libro – uno degli aspetti più difficlii per me – è rappresentato dalla scelta della voce da utilizzare per raccontare una determinata storia. E’ come nel canto: ogni timbro è adatto a un certo tipo di musica – se Joe Cocker si fosse dedicato all’opera non sarebbe mai diventato famoso (o forse sì, ma allora avrebbe rivoluzionato il bel canto). E c’è un bellissimo esempio di come una voce diversa possa stravolgere le intezioni di un autore: è Rock Swing, un disco in cui Paul Anka reinterpreta, in chiave swing, alcuni successi dei Nirvana, dei Soundgarden e Billy Idol. La scelta della voce, dunque, non può essere svincolata dalla storia che si vuole raccontare, e viceversa. Nel mio caso, la ricerca del tono che voglio adottare è un’attività penosa, che si può trascinare per mesi e mesi, durante i quali tento, e provo, e poi mollo, mille inizi.

Anche per “XXI secolo” la gestazione della voce è stata lunga. All’inizio del 2013 ero convinto di aver trovato quella giusta, e avevo iniziato a scrivere un libro su una famiglia benestante in cui la moglie, la madre, viene trovata morta in casa. Si tratta, con ogni evidenza, di un omicidio compiuto da una persona vicina alla donna. Un magistrato indaga e mette sotto accusa il marito; nel giro di qualche settimana, però, viene trovato il vero omicida: un uomo che aveva una relazione da anni con la donna, che, rimasta incinta di lui, voleva rendere pubblica la loro storia. Il marito viene scagionato, ma dopo l’indagine per scoprire chi era l’assassino, ne inizia un’altra per scoprire chi era realmente la vittima.

Questa idea iniziale si è smontata nel giro di pochi mesi: non avevo abbastanza conoscenze su come si svolge un’indagine. Ho provato a chiedere aiuto ad alcuni amici avvocati, ma ho capito che non sarei mai stato credibile nel raccontare una storia di questo tipo. Ho quindi ripiegato su un romanzo in cui si intrecciavano due storie: quella di Marco Baganis, protagonista de “La felicità esiste”, impegnato nei preparativi del suo matrimonio con una certa Laura, e quella dell’amministratore delegato della SIB, la società in cui lavora Baganis, la cui moglie, anche in questo caso, viene trovata morta a casa. Ad agosto, dopo aver letto il libro “Perché non siamo il nostro cervello – una teoria radicale della coscienza”  di Noe Alva, ho deciso di trasformare la morte in un coma impenetrabile. A metà ottobre del 2013, dopo quasi 200.000 battute e nove mesi di scrittura, ho deciso di buttare via tutto e di ripartire da zero: la voce che avevo scelto, e che mi serviva per raccontare una storia di questo tipo, con questi personaggi, non funzionava da nessun punto di vista.

Questo pomeriggio, per caso, sono andato a tirare fuori quelle pagine e mi sono convinto di aver fatto bene a lasciarle andare. La voce sembra artificiale, i personaggi posticci, l’ambientazione forzata. In alcuni momenti, specialmente nei dialoghi, avverto lo stile di una soap opera. Cesare, il “lui” di questa storia, sembra ritagliato con le forbici. Ed è per liberarmene per sempre, che ho deciso di ricopiare qui il terzo capitolo (nel primo c’è il ritrovamento della donna, Eleonore, da parte di Laura, futura moglie di Baganis e dottoressa; nel secondo, una descrizione di come Baganis e Laura si sono messi insieme).  Chi ha letto “XXI secolo” troverà molte analogie ma, spero, soprattutto molte diversità.

Ps il nome del personaggio di “XXI secolo” non è Cesare! 😉

Il matrimonio di Baganis

Capitolo 3

Quando Cesare arrivò a casa – erano già passate le dieci di sera – non trovò sua moglie Eleonore in salotto, seduta sul divano, davanti alla tv, con l’iPad in grembo, e non trovò neppure sua figlia Elena in camera sua, davanti al PC, o suo figlio Leonardo che giocava alla Playstation in cucina; c’era, invece, Enrico, il marito di sua sorella Giulia, in piedi, in cucina, appoggiato ai fornelli, con il viso basso, la testa incassata tra le spalle. Cosa aveva pensato in quel momento? Se l’era chiesto qualche settimana dopo, quando i fatti avevano iniziato a riprendere la loro naturale consistenza: aveva provato a ricostruire gli istanti in cui la sua vita era precipitata nel baratro del dolore e della rabbia, i secondi che avevano preceduto lo schianto e quelli che erano venuti immediatamente dopo, ma i ricordi erano confusi, imprecisi, irreparabilmente trasformati dalle ricostruzioni a posteriori. Aveva capito che era successo qualcosa – la casa era vuota, e suo cognato non avrebbe dovuto essere là, con quella faccia – ma era quasi sicuro che il primo pensiero fosse andato ai suoi figli. Gli sembrava che, in quei pochissimi secondi di attesa, avesse pensato che uno dei due, forse Leonardo. si era fatto male, ed era stato portato in ospedale; Eleonore era con lui, ed Elena da qualche parte – forse ospite di sua sorella Giulia. Per quanti secondi aveva continuato a pensarlo? Per quanto tempo Eleonore era stata un essere umano capace di rispondergli, di guardarlo, di stringergli la mano?
Non era mai stato in confidenza con Enrico: passavano i Natali insieme, e qualche volta, cedendo alle insistenze di Giulia, l’aveva portato con sé in barca, sul Lago Maggiore, o a qualche cena tra amici, ma non avevano mai avuto molto da dirsi. Vite troppo diverse, troppo distanti. Obiettivi inconciliabili. Chiunque avesse deciso che doveva essere proprio lui, quell’uomo che aveva fatto del proprio grigiore una regola di vita, a dargli una cattiva notizia, non aveva avuto una buona idea: in casi come quelli, per situazioni così drammatiche, servivano determinazione, sangue freddo, una certa virile fermezza. Enrico, invece, gli era andato incontro lentamente, strascicando i piedi, con gli occhi bassi; e quando Cesare gli aveva chiesto cosa stava succedendo, era scoppiato a piangere e lo aveva abbracciato, singhiozzandogli addosso, senza dire niente. Gli era sempre mancato il coraggio – non era questo che aveva rimproverato a sua sorella quando l’aveva scelto? Perciò lo aveva allontanato da sé e di nuovo gli aveva chiesto cosa cazzo stava succedendo, e lui, sottovoce, gli aveva risposto solo Eleonore, e lui aveva capito – aveva dovuto capire – che il nome di sua moglie, pronunciato tra le lacrime nella cucina vuota di casa sua, poteva significare solo una cosa: che era successo qualcosa di terribile ad Eleonore, e che i suoi figli erano salvi. Anche se Cesare non se ne rese conto subito, fu in quel preciso momento che iniziò la seconda parte della sua vita.
Poi, a fatica, sorseggiando l’acqua di un bicchiere che Cesare gli aveva riempito, Enrico spiegò che Eleonore era stata portata in ospedale perché si era sentita male. Cesare gli chiese perché piangeva, e lui rispose che la situazione era grave. Quanto grave? E’ in coma. Ha avuto un… Un? Un ictus. Dove l’hanno portata? Biascicò San Raffaele, passandogli un bigliettino tutto stropicciato sul quale qualcuno aveva scritto un numero. Cesare lo prese, e lo mise nella tasca della giacca. Si spostò in salotto, lasciando Enrico in cucina a uggiolare. Le luci erano spente, ma attraverso le vetrate entrava il tenue chiarore dei lampioncini del giardino, che illuminavano il divano, la libreria bianca, il pavimento di legno scuro sul quale suo figlio Leonardo aveva lasciato alcune macchinine. Pioveva ancora, da giorni, con costanza impietosa. Accese il telefono: aveano chiamato tutti, durante il pomeriggio – Elena, sua sorella Giulia, sua madre, Enrico, e qualche numero sconosciuto. Il primo messaggio di sua figlia era delle sei e un quarto: Papà, ti prego, chiamami appena puoi. C’era perfino un messaggio di sua moglie, partito intorno alle dodici: Sii prudente. A mezzogiorno, dunque, Eleonore stava ancora bene; alle dieci di sera l’eco di quella vita, l’ultima traccia sensibile, lo aveva appena raggiunto con la coda della sua scia luminosa.
Chiamò Giulia. Le chiese perché non fosse rimasta lei ad aspettarlo a casa. Aveva la voce di una che aveva pianto tutto il giorno – il naso chiuso, le ottave superiori trattenute a forza.

Ho portato via i bambini, non potevo lasciarli là”.
“Come stanno?”
“Elena è forte, fa coraggio a Leonardo. Lui è confuso. Ha ripreso a balbettare. Sono a casa della mamma, ti stanno aspettando”.
“L’hanno vista?”
“E’ terribile, Cesare… L’hanno trovata loro”.
“Dove?”
“Eleonore me li aveva portati dopo pranzo, doveva sbrigare delle cose. Li ho riportati alle sei, non sono entrata a casa… Li ho lasciati davanti alla porta, e sono andata via, avevo una torta in forno, dovevo tornare a casa. Hanno chiamato loro il 118. Leonardo. E’ stato Leonardo a chiamarli”.
“E tu non c’eri?”
“Mi ha chiamato una dottoressa venti minuti dopo, da casa tua. Sono tornata, li ho presi e li ho portati via. E’ venuto anche Enrico, è rimasto là, ha parlato lui con i dottori. Oh, Cesare, è tutto così…”
“Ma cosa è successo? Cosa è successo a Eleonore? Cristo, non iniziare a piangere anche te!”
“Non ci riesco… Non ci riesco! E’ stato un ictus, Cesare… Un’emorragia cerebrale”.
“Ma i dottori hanno fatto qualcosa, hanno detto qualcosa?”
“Quando sono arrivati praticamente non respirava più. Hanno impiegato quasi dieci minuti a rianimarla. Quando i bambini sono arrivati a casa lei era già per terra…”
“Non piangere!”
“Scusa, Cesare, scusa… Non ce la faccio… Hanno detto a Enrico di… gli hanno detto di non farsi troppe illusioni… Vai dalla mamma, ti prego, i bambini hanno bisogno di te. Vai da loro, fatti accompagnare da Enrico. Stai con i tuoi figli”.

Prese il biglietto che gli aveva dato suo cognato, tirò fuori gli occhiali dalla tasca, lesse il numero. Chiamò e qualche secondo dopo rispose la voce di una donna stanca. Le chiese notizie di sua moglie; dopo un minuto di trattative, partì una musica new age – Eleonore, pensò, l’avrebbe apprezzata. Enrico era ancora in cucina, in silenzio; pregava che qualcuno spiegasse a Cesare tutto quello che lui non aveva il coraggio di dire.
Ora dall’altra parte del telefono c’era un uomo. La lucetta rossa della televisione sembrava un lumino. L’orologio del decoder segnava le 22:22.
Parlarono per qualche minuto, ma c’erano problemi di privacy. Cesare usò il tono perentorio che gli aveva consentito di diventare amministratore delegato di un’azienda di quattrocento dipendenti; il dottore diede qualche dettaglio in più. La prognosi era riservata. L’ospedale era in grado di fornire assistenza psicologica ai parenti del paziente. Non era possibile entrare nel reparto di terapia intensiva, dove la moglie era ricoverata con altre due persone. Era stata operata al cervello. Troppo presto per dire se c’erano danni cerebrali permanenti. Ripeteva che non ci si doveva fare troppe illusioni. Cesare insistette ancora; il dottore ammise che la donna era in pericolo di vita. Cesare rimase in silenzio.
“Se viene qui, le possiamo spiegare meglio la situazione. Le diciamo quello che si può fare”.
“Devo andare dai miei figli”
“Capisco. Quanti anni hanno?”
“Una decina. Il piccolo sei, la grande quattordici. Posso parlarle? Posso parlare a mia moglie?”
“No. La può guardare da dietro un vetro”.
“Capisco”. Avrebbe voluto toccarle il viso.
“Qui trova sempre qualcuno. Venga quando riesce. Non c’è fretta”.

Rimase qualche secondo a fissare lo schermo del telefono; poi guardò verso le vetrate, e vide il riflesso del suo viso illuminato da quel chiarore; dietro, i contorni vaghi dei mobili del salotto immersi nel buio; più lontano, il profilo tozzo di Enrico sulla porta, disegnato dalla luce gialla del corridoio. Si girò verso di lui: aveva smesso di piangere, il respiro era tornato regolare. Gli fece cenno di entrare in salotto; si sedettero sul divano, e rimasero in silenzio, l’uno accanto all’altro, in un’intimità che lo imbarazzava.
Qualche volta Cesare aveva pensato a cosa sarebbe successo se lui fosse morto, o se qualcosa lo avesse trasformato in un vegetale, e lo aveva sempre fatto in termini piuttosto pratici: la riscossione del premio dell’assicurazione, le coordinate bancarie del conto in Svizzera che Eleonore conosceva, le quote della SIB che lei avrebbe ereditato, e poi venduto al migliore offerente, la serenità che gli derivava dal sapere che i soldi non sarebbero mancati per almeno tre generazioni. Avevano case ovunque – a Portovenere, a Bormio, in Baviera, un appartamentino a Parigi, un monolocale in centro a Milano dalle parti di Piazza Piemonte, il loro primo nido… Sarebbero sopravvissuti tutti, se lui fosse morto, o se qualcosa lo avesse inchiodato a un letto. Leonardo avrebbe potuto studiare nelle migliori scuole europee e americane, ed Elena avrebbe seguito il suo sogno di diventare una stilista – aveva talento, e gusto, e le spalle abbastanza coperte per poter osare. Non aveva mai considerato, invece, la possibilità di perdere Eleonore: non aveva mai immaginato la sua famiglia senza di lei. Leonardo era ancora un bambino, Elena stava diventando grande, e lui non aveva la minima idea di cosa si dovesse fare per tirare su quei figli: si era sempre preoccupato di fare in modo che ci fossero le condizioni ideali perché qualcuno – sua moglie – potesse portare avanti quel progetto famigliare, e si era anche dato da fare perché quel progetto non portasse via troppo tempo, troppe energie, ai suoi progetti: l’espansione della SIB, il consolidamento delle quote di mercato, la crescita del suo ruolo in azienda, le feroci battaglie contro la concorrenza, e le battaglia ancora più feroci contro l’appagamento dei soci, contro la pigrizia e l’ignavia dei dipendenti, contro tutto ciò che sembrava frenare le sue ambizioni: ambizioni sane, vitali, contagiose.
Quante probabilità c’erano che sua moglie si svegliasse, e continuasse a occuparsi dei suoi figli? Se quel dottore aveva detto di non farsi troppe illusioni, e lo aveva detto senza dover aspettare i risultati della terapia intensiva, qualsiasi cosa potesse fare una terapia intensiva, era necessario iniziare a pensare subito alle estreme conseguenze di ciò che era successo. Serviva coraggio, per farlo, e sangue freddo; e anche se lui aveva coraggio e sangue freddo da quando era nato, non aveva la minima idea di come avrebbe potuto fare. Il dolore era ancora lontano e impersonale; non assomigliava a quello che aveva straziato sua madre quando suo marito aveva gettato la spugna di fronte a un’armata di sondini, cateteri e bombole di ossigeno… Dopo, per mesi e mesi lei aveva continuato a preparare la colazione per due, ogni mattina; la sera guardava fuori dalla finestra, come se aspettasse qualcuno; e per quanto ne sapeva lui, i completi grigi che lei gli aveva cucito durante gli anni in cui era stata sarta erano ancora negli armadi, uno accanto all’altro, copie disossate dell’uomo che aveva amato. Era quello il destino che lo aspettava? Colazioni per due, vestiti trattenuti per ricordo?
“Vado da mia madre”, disse a Enrico.
“Ti accompagno”.
“Non serve. Torna a casa da Giulia. Non credo sia stato facile, per lei. Piangeva”.
“Sei sicuro di farcela?”
Lo guardò in silenzio. In azienda, tutti sapevano che ce la faceva sempre, qualsiasi fosse l’ostacolo o il problema che doveva affrontare. Era così diversa la vita vera?
Uscirono insieme. Prima di chiudere la porta di casa, vide sul comodino in entrata un mazzo di chiavi che non conosceva: le porse a Enrico, che però gli disse che non erano sue.
“Sono di Giulia?”
“Non mi pare”. Erano chiavi di casa – un portoncino, una porta blindata, forse il lucchetto di una bicicletta, la cassetta della posta.

Venti minuti dopo era sotto casa di sua madre, una palazzina di sette piani che si affacciava sul semaforo di viale Palmanova. Lasciò la macchina in una piazzola devastata da bottiglie di plastica, fazzoletti, i soliti preservativi. Due marocchini fumavano sotto un albero, seduti su una lavatrice abbandonata. Anche se aveva smesso di piovere, il cielo era ancora gonfio di nuvole scure. Chiamò sua madre al cellulare, ma era spento. Erano le undici, e non sapeva se i ragazzi stavano dormendo o se erano ancora svegli. Cosa sarebbe stato meglio, per loro? Guardò il quarto piano, lato destro: la luce della cucina era accesa. Tirò fuori le chiavi che aveva trovato a casa sua, e provò a vedere se aprivano il portoncino: niente. Suonò il campanello, un colpo veloce. Lo scatto della serratura lo fece sobbalzare. I marocchini lo stavano seguendo con lo sguardo, da lontano – sentiva i loro occhi puntati alla schiena. Per un attimo sperò che si facessero sotto, con una scusa qualsiasi.
Salì a piedi. Dalle porte degli appartamenti si sentiva arrivare un fragore di applausi, il ritornello di una canzone. Anni prima, da ragazzo, conosceva a memoria i nomi scritti sui campanelli: Rossi e Rostirolla al primo piano, Brambilla e Viscardi al secondo, Peretti e De Toffoli al terzo… Al quarto c’era il suo migliore amico, Federico Zanetti, e suo fratello Carlo, più grande di loro, che si divertiva a prenderli in giro, e che qualche anno dopo si sarebbe schiantato in moto contro un camion, e una sorella più piccola (Linda? Livia?) che si era innamorata di lui: aveva dieci anni, e passava i pomeriggi a disegnare matrimoni molto sontuosi. Quando andava a trovarli, si sorprendeva di come i mobili, e gli odori, determinassero le caratteristiche di una casa più di quanto facesse la sua planimetria, che si ripeteva uguale a ogni piano. Ogni tanto si affacciava alla finestra della camera di Federico: il panorama era quello che lui vedeva dalla sua – viale Palmanova, un supermercato, il semaforo, il ponte della ferrovia – ma la diversa angolazione (tre piani di differenza) dava nuova vita alle cose. Di quelle famiglie non era rimasto praticamente nessuno. Da un po’ di tempo, il turn over era sempre più veloce, e i cognomi ora avevano qualcosa di esotico: Xun Pan, Li, [aggiungere altri nomi] . Sua madre, quando in ascensore incontrava quelle facce così diverse, aveva paura. Glielo diceva al telefono, tutte le volte che lo chiamava: i cibi che cucinavano avevano odori nauseabondi, e sugli stendini in terrazza appendevano lenzuola lunghissime che le nascondevano il sole; di notte, qualche volta si sentivano dei tonfi, e urla in una lingua sconosciuta. Lui, invece, ricordava la puzza di muffa delle scale di trent’anni prima, i vecchi tremolanti, bianchi come cadaveri, sempre sul punto di morire, che d’estate uscivano alle sei di sera a fare la spesa e tornavano devastati dall’afa, e dal tempo che scorreva; la faccia sempre rancorosa della portinaia, che quando era morta non avevano sostituito con nessuno, perché nessuno aveva più soldi. Dall’est, dal sud del mondo, stava arrivando nuova energia: era tra gente come quella – uomini affamati, coraggiosi, disposti a morire per realizzare il loro sogno occidentale – che avrebbe voluto scegliere i suoi collaboratori; li avrebbe formati nel giro di qualche settimana, e poi li avrebbe gettati nella mischia a lottare. Un’armata invincibile. Ma sua madre, una donna che cinquanta anni prima era stata la sarta delle donne più ricche di Milano, e che con il tempo si era ridotta ad accorciare i pantaloni che una pulitura le passava in subappalto, non aveva i mezzi per apprezzare quel melting pot che si stava affermando così rapidamente. Più volte aveva proposto ai suoi genitori, e poi a sua madre, quando era rimasta vedova, un appartamento più grande, e più lussuoso, dalle parti di San Siro; avevano sempre detto di no, che non serviva, e non gli era chiaro se non volesse pesare sui propri figli, e dipendere in qualche modo da loro, o se invece avesse paura di perdere le poche certezze che aveva.
Sua madre lo attendeva dietro la porta socchiusa, con un fazzoletto in mano e una coperta sulle spalle. Lo fece entrare, e mentre lei lo abbracciava lui vide i suoi figli sul divano – Leonardo addormentato su un fianco, con la testa appoggiata sulle gambe di sua sorella, la bocca aperta, le ciglia lunghe e scure che gli aveva dato in eredità, ed Elena che gli accarezzava i capelli: aveva il viso forte di Eleonore – la stessa determinazione, la stessa distanza – appoggiato al corpo grande e muscoloso che lui le aveva trasmesso. Le andò incontro, silenziosamente; si sedette nella poltrona accanto, e le appoggiò una mano sul braccio. Le chiese come stava, e lei chiuse gli occhi; quando li riaprì, erano pieni lacrime, che lui asciugò con il dorso della mano. Entrambi sapevano che parlare non sarebbe servito a niente.
Prese in braccio Leonardo e lo portò nella camera che tanti anni prima aveva condiviso con sua sorella Giulia. Lo distese nel letto che era stato il suo. Elena aveva indossato una camicia da notte che le aveva dato la nonna – Cesare la riconobbe: sua madre che avanzava, ancora giovane, nella penombra della camera, con un bicchiere d’acqua in mano, pronta per dare la buona notte. Abitavano ancora nella prima casa, dalle parti di Brera, prima che andare dal sarto diventasse un’attività così stravagante da costringerli a spostarsi là, ai margini della città.
Elena si infilò sotto le coperte; Cesare si sedette sul bordo del letto e le accarezzò una guancia. Ce la faremo, le disse. Lei annuì. La nonna spense la luce. Lui baciò la fronte di sua figlia, prima che lei si girasse su un fianco, e poi quella di Leonardo, che non si accorse di nulla. Quando si rimise in piedi, si guardò intorno. Anni prima aveva visto, con Eleonore, alla Biennale di Venezia, una mucca fatta a fette, e ciascuna fetta era stata infilata in una scatola di plexiglas trasparente, e tutte queste scatole, due metri per due, pendevano dal soffitto: sospese in aria, mostravano le interiora di quell’animale, la sezione delle sue ossa, le circonvoluzioni del cervello, con una rassicurante staticità. Quella bestia era stata strappata all’inesorabile declino che il tempo impone alle sue creature; e per farlo, era stato necessario toglierle la vita. La sua camera doveva aver subito un procedimento di conservazione simile a quello. Ogni cosa era nell’esatta posizione che occupava quando lui se ne era andato venticinque anni prima, e nulla sembrava vivo: i libri di diritto nel primo ripiano della libreria, quelli di economia nel secondo, quelli di matematica nel terzo, e la mazza da baseball appesa all’attaccapanni dietro la porta – quella passione durata così poco – e il diploma di Harvard che sua madre aveva voluto incorniciare, la foto di una gita alle superiori attaccata vicino al letto – Parigi, la Grande Arche sullo sfondo, e lui tra i suoi compagni di classe. Nella penombra si avvicinò a guardarli: riconobbe Elisa, la prima ragazza con il quale aveva fatto l’amore, e Federico, morto da poco in un incidente stradale con tutta la sua famiglia, e Stefania, che anni dopo avrebbe ritrovato per caso una sera a Venezia, ubriaca, disperata, sola. E Luca, con il quale era andato in vacanza l’estate della maturità, in Grecia, a Santorini… E lui era là in mezzo, al centro, e anche nella penombra della camera si intravedevano il sorriso sicuro, lo sguardo intenso, i capelli nerissimi, e quell’aria da eterno vincitore. I suoi professori avevano sperato che si iscrivesse alla Normale di Pisa dove, ne erano sicuri, avrebbe ottenuto splendidi risultati; lui scelse la Bocconi – una decisione non scontata, nel 1982, in un’Italia che si stava riprendendo lentamente dagli anni di piombo, e che ancora non aveva capito che erano i soldi, e non le idee, il motore del mondo.
Sul tavolo c’era anche la custodia del flauto di legno che aveva studiato con tanta passione tra i dodici e i tredici anni, e una scatola piena di compassi, squadre, righelli. Sua madre aveva conservato ogni cosa, come se prima o poi i suoi figli sarebbero tornati a casa per riprendere la loro vita di bambini. Leonardo ed Elena non assomigliavano a lui e Giulia: la nuova generazione era nata in condizioni talmente diverse che era impossibile fare un confronto. Suo padre, quando era ancora vivo, quando aveva ancora la forza, e la voglia, di parlare, gli rimproverava di dare troppo, ai suoi figli: troppo agio, troppe comodità, troppo di tutto. Come avrebbero affrontato le difficoltà che prima o poi avrebbero incontrato? Avrebbero saputo lottare per raggiungere i loro obiettivi? Lui sorrideva, e non lo ascoltava: non aveva mai creduto alla retorica della povertà come palestra per la vita. I suoi figli conoscevano un mondo che lui, da ragazzo, non era nemmeno riuscito a intravedere. Con i loro amici, con i compagni di classe, bambini paffuti e abbronzati che andavano a cavallo, davano ordini a colf filippine, sciavano sulle piste di Saint Moritz, avrebbero formato la futura classe dirigente del paese; avrebbero colto il successo con la naturalezza di chi è abituato a essere sempre dalla parte giusta.
“Cesare… Ho preparato la camomilla”.
Sua madre era sulla porta, ancora avvolta in una coperta, con due tazze fumanti tra le mani che le tremavano. Negli ultimi anni era diventata più piccola, le spalle si erano incurvate; i capelli completamente bianchi erano sottili, spenti, e le orbite degli occhi erano sempre più profonde e scure. Fu solo in quel momento che, di fronte a quell’umanità così incerta, si rese conto di cosa era successo a Eleonore, in concreto, e cosa la aspettava. Subito dopo realizzò che sua moglie non sarebbe mai diventata vecchia, che non avrebbe mai accolto un figlio che aveva ancora bisogno di lei.

7 commenti Aggiungi il tuo

  1. amanda ha detto:

    hai fatto bene a cambiare, è cambiato il colore, il ritmo e lo spessore 🙂

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  2. Renato ha detto:

    Ma il protagonista di “XXI secolo” ha un nome? O verrà indetto un concorso tra i lettori con in premio una cassetta di un celebre liquore giallo?

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  3. carloesse ha detto:

    Da che mi risulti il protagonista il nome non ce l’ha proprio (l’ho finito da poco, ma a volte non mi fido più di mi stesso, sospetto di essere predisposto all’Alzheimer, e quindi potrei anche essermi sbagliato: in tal caso quel che sto per dire è un granchio colossale). Però da qualche altra parte dello stesso libro mi sembra di ricordare di avere letto che “la vita inizia con l’imposizione di un nome” (o qualcosa del genere), chi non ce l’ha è come se fosse quindi privo di vita.
    Mi piace pensare (sarò nel giusto ?) che se Paolo non ha voluto alla fine dare un nome al suo protagonista sia come per sottolinearci proprio che nella vicenda la sua vita è come se fosse sospesa, in attesa di ricomporre il quadro di una famiglia spezzata, di rimettere insieme i frammenti di quel che conosce di sua moglie con quelli che non conosce, ma soprattutto di ritrovare se stesso e ridare un senso ad una vita che nel frattempo è confinata nel limbo dei “senza nome”.

    PS spero di avere vinto la cassetta di liquore giallo di cui sopra!
    🙂

    PPS spero che la risposta di Paolo non sia: cazzo! In realtà mi sono dimenticato di dargli un nome!!!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Confermo, non ha nome perchè di fatto non esiste fino alla fine… nel penultimo capitolo, però, lui sente pronunciare il suo nome (tre sillabe, piccolo aiutino), ed è il momento in cui rinasce… ma così sto dando troppi indizi sul libro! 😉

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  4. Nicola Losito ha detto:

    Ahimè, non ho capito il senso di questo post. Vorrei capire…
    Nicola

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  5. aliceelospecchio ha detto:

    Allora i ripensamenti, le virate drastiche, le false partenze non capitano solo a me!
    È dura riuscire ad esprimere esattamente il senso di quello che si vuole dire, dare una forma compiuta alle storie che vorremmo scrivere…

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