Il mondo di Nicola Pezzoli (1/4)

Meno di due mesi fa è uscito il terzo romanzo di Nicola Pezzoli, dal bellissimo titolo Chiudi gli occhi e guarda, edito da Neo Edizioni con il quale era già uscito nel 2012 con Quattro soli a motore.

Questa di oggi è la prima puntata di un piccolo viaggio in quattro parti, una bella chiacchierata che ci porterà nel mondo di questo autore del quale ho avuto modo di parlare spesso, in questo blog, e sempre con parole molto positive. Ci saranno anche brani tratti dai suoi romanzi perché quando si parla di libri è doveroso “assaggiare”. Buona lettura!

Il mondo di Nicola Pezzoli – prima parte

#1
Qualche mese fa è stato aperto un gruppo, su Facebook, per l’abolizione della domanda “quanto c’è di autobiografico, in questo tuo libro?” alle presentazioni o nelle interviste. Anche se scherzosa, è un’iniziativa che trovo assolutamente giusta, e quindi non ti farò questa domanda. Iniziamo invece con questa: “quanto c’è di non autobiografico, in questo tuo libro?”. Rispetto a “Quattro soli a motore”, dove avevi trasfigurato il mondo della tua infanzia, costruendoci sopra una storia nella quale hai mescolato diversi ingredienti, in “Chiudi gli occhi e guarda” si sente un’urgenza diversa, come se tu ti fossi davvero messo a nudo, rinunciando ai sotterfugi di una trama inutilmente articolata. E’ così?

 Devo dire che non ho mai trovato particolarmente fastidiosa (semmai poco fantasiosa) nemmeno la prima domanda. Forse perché mi sento quel tipo di autore coraggioso (o vogliamo chiamarlo ingenuo? temerario? naif?) che ama mettersi a nudo, e non per esibizionismo, ma come modo più diretto per scandagliare l’essenza umana, per arrivare a dire qualcosa di nuovo e di vero sull’io più profondo dello scrittore, e quindi di riflesso su quello del lettore. (Questa è una cosa in cui credo molto: nella mia vita ho letto saggistica filosofica, letteraria, religiosa, scientifica, psicologica, antropologica, eppure nessuno mi ha mai parlato davvero, con ricchezza, esattezza e generosità, dell’essenza dell’Uomo quanto i grandi autori di Narrativa). C’è una parola attualmente assai di moda: “autofiction”. Come tutte le cose di moda, provoca in me una sorta di sospetto e repulsione automatica. Eppure, al tempo stesso, trovo sia perfetta per la mia scrittura, e per quella che amo trovarmi davanti come lettore. Sia nel mio ultimo romanzo che in Quattro soli parto da memorie di emozioni, suggestioni o esperienze realmente vissute, da luoghi frequentati, da personaggi incontrati o sfiorati, ma poi con questo materiale incandescente, con questa plastilina fusa che mi ribolle nell’anima vado a modellare storie in parte vere e in parte inventate, in parte spostate e riadattate nel tempo e nello spazio, con personaggi che a volte sono esistiti, a volte no, a volte sono dei cocktail-chimera di più ricordi reali. Sono sempre più convinto del fatto che le autobiografie pure (anche degli uomini più notevoli e delle vite più estreme) siano destinate a produrre noia e insignificanza (penso a quella di Salman Rushdie, interessantissima eppur sbadiglievole). E che, all’opposto, arrampicandosi sugli specchi della pura “fiction” (per paura di mettersi in gioco?) si sia destinati, nella quasi totalità delle volte, a servire pietanze insipide, artificiose, fasulle, infingarde, ma soprattutto puzzolenti di stereotipo, di dejà vu, quando non addirittura di plagio. Ritengo che “autofiction” sia una definizione applicabile, con diverse gradazioni, a tutti gli autori che preferisco: da Philip Roth a Paul Auster, da Nabokov a Bukowski, da Fante a Gary – ma penso anche a Céline, o a Dostoevskij – fino alle mie più recenti (e in qualche caso tardive) scoperte Hemon, Cameron, Heim, Hilsenrath, Meyer, Pollock, Selby jr.

#2
Torniamo per un attimo alla trama. Quando si invia un manoscritto a una casa editrice, è obbligatorio allegare una sinossi che spiega cosa succede nel romanzo, come se questo fosse il primo criterio con il quale valutare un libro. Confrontando “Quattro soli a motore”, il romanzo che racconta l’estate precedente, e “Chiudi gli occhi e guarda”, si nota un rarefarsi dell’intreccio. E’ davvero così importante la trama?

 Ho sempre sostenuto che dall’incontro fra trama e Scrittura (maiuscolo) possono nascere capolavori, ma che, quando questo non succede, la Scrittura senza trama può darmi godimento, divertimento e commozione, mentre la trama senza Scrittura non vale un solo millesimo di secondo del mio tempo di lettore (se devo sorbirmi una bella storia raccontata coi piedi, o col culo, piuttosto mi guardo un film, o faccio tutt’altro: leggere non è obbligatorio, e non è un atto nobile “a prescindere”, ma proprio per nulla – se poi pensiamo che sempre più spesso ci vogliono rifilare delle brutte storie scritte coi piedi…) Dove ovviamente per “Scrittura” non si intendono virtuosismi, colte pacchianerie e orpelli erudibondi: si intende la capacità di regalare Emozioni attraverso uno stile il più possibile nuovo, leggero, originale, incisivo, colorito, frizzante, dal quale si capisca che la persona dall’altra parte della pagina è sì dotata di naturale talento cristallino (che è imprescindibile: altrimenti che diavolo scrivi a fare? per fare il mitomane o il sabotatore? o lo stronzo paraculato?) ma ne è appunto talmente dotata da non aver nessun bisogno di dimostrarcelo con inutili effetti speciali o arzigogolati equilibrismi da raffinato pagliaccio spara-metafore.

Che poi, Scrittura senza trama è un modo di dire, perché ogni storia, ogni racconto, ha comunque una sua trama, non necessariamente piena di intrecci criminosi o misteriosi o di nodi da sciogliere con gran sorpresa (quasi sempre assai relativa) nelle ultime pagine. Spesso la trama è la maschera, il camuffamento convenzionale di chi non ha talento per lo scrivere. E forse gli editori che guardano solo a quella non hanno talento per leggere…

Il mondo di Quattro soli a motore
Il mondo di Quattro soli a motore

Certi ripetenti avevano spiegato le cose del sesso ma le avevano spiegate male, e così tutti noi di quinta B, o almeno una gran fetta, eravamo convinti che “metterglielo dentro” fosse un atto, scabroso per alcuni, allettantissimo per altri, che conduceva infallibilmente alla gravidanza. Così funzionava: col fallo, e senza fallo. Sicché, noi che si andava dai figli unici a quelli con un massimo di due fratelli, s’era sicuri che i nostri padri l’avessero messo dentro alle rispettive mogli da una a tre volte in vita e stop. Ma com’era possibile resistere e mantenersi così casti, se si amava davvero una donna? I nostri padri erano uomini giudiziosi ma non erano certo degli amanti focosi. Io da grande volevo diventare focoso. Non sarei stato un Sangiuseppe Suocastissimosposo, io. Non sarei certo morto vergine come lo zio Clemente Zancopè. Anche se lui bisognava capirlo: chi gliel’avrebbe mai voluto metter dentro, a quel ròito di zia Trude?

Per certi versi rude e mascolina – proprio questo era il lato ammaliante della Cri: i dieci anni con la forza dei venti e la maturità dei trenta – sapeva essere carina nonostante i lavori umili, i vestiti rattoppati e la parlata dialettale. A differenza delle altre bambine della sua età, lei non era un fiore pretenzioso e banale. La mia Cristina era un frutto.

La decisione era presa: l’avrei sposata, e gliel’avrei messo dentro diciannove volte, e le sarei marcito addosso febbricitante di passione prima di decidermi a tirarlo fuori, e saremmo morti di febbre e di fame noi e i nostri diciannove figli come nei film con gli irlandesi conigli. Ma lei si divertiva a tenermi sulle spine con la tortura della gelosia. Mi raccontava che sul Veneto aveva un fidanzato che la stava aspettando e che si chiamava Alberto, e per farmi impazzire aveva chiamato un pulcino Cristinalbert e io per la rabbia una sera che non mi vedeva nessuno tranne il Cane Nero lo avevo preso a calci sotto il portico e il pulcino era diventato tutto strano e s’era messo a pedalare con le zampette verso l’alto e le orbite come albumi, e io m’ero sentito in colpa e avevo invocato aiuto, “Venite a vedere, il Cristinalbert fa degli strani movimenti”, e il Cane Nero abbaiava così forte che avrebbe potuto ammazzarmi di paura e soprattutto denunciarmi, ma siccome abbaiava sempre così nessuno si accorse della differenza. E poi, per fortuna, il povero pulcinetto che non c’entrava niente e mica lo sapeva di chiamarsi Cristinalbert non era morto e, anche se ci aveva impiegato un po’ di giorni di convalescenza dentro uno scatolone con la paglia, alla fine si era ripreso – che sollievo! – altrimenti sarei diventato non solo un assassino ma un assassino stronzo e vigliacco, che è pure un pochettino peggio. Come un cattivo di Tex che aveva sparato a un pulcino in un ranch per fare il gradasso e dopo Tex quando lo rincontrava lo disprezzava e gli diceva: “Toh, chi si rivede, il giustiziere di pulcini”.

(Quattro soli a motore, pagg 34-35)

#3
Ma forse non hai ancora risposto alla mia domanda: nel nuovo romanzo ti metti più a nudo?

 Credo di sì (anche se pure nel precedente non scherzavo: per esempio rivivere le proprie sofferenze al cospetto dei bulli è un’esperienza MOLTO dolorosa) per il semplice fatto che l’arrivo della pubertà obbliga Corradino a confrontarsi con nuovi sconvolgimenti interiori al confine tra il vulcanico e il tellurico, e consente a me di affrontare temi che sento molto urgenti, e che nel precedente romanzo erano solo accennati attraverso il termine “femmimaschio” che faceva timidamente capolino qua e là: la molteplicità delle nostre pulsioni sentimentali e sessuali (quando siamo abbastanza attenti, onesti, liberi e mentalmente aperti nel prestarvi ascolto), l’androginia, l’indifferenziazione sessuale, la facilità dell’innamorarsi di maschi E di femmine quando a farci innamorare sono i visi e le pupille e le anime e non gli organi urinario-riproduttivi o dispensatori di latte – o gli imperativi conformisti. Non a caso il romanzo è dedicato “ai differenti e ai confusi”. Io mi considero molto differente e moltissimo confuso, ma confuso in maniera voluta e piacevole. Naturalmente qui si rischia di cadere nel temibile campo delle opinioni, ma ho cercato di tenermene lontanissimo, di lasciar parlare Corradino, il suo cuore e i suoi turbamenti. E se ogni tanto emerge il mio modo di vedere le cose (il mio rifiuto dei rosa e degli azzurri, delle rigide definizioni ruolistiche, dei compartimenti stagni, della pura e semplice esistenza di cose “da femmina” e “da maschio” – perché una bambina può sfoggiare un bell’ombrellino multicolore mentre quello del bambino dev’essere in tinta unita, preferibilmente verdastro o marrone, o al massimo avere i colori di una squadra di calcio?) come nell’episodio in cui Corradino, infastidito dall’acre e pungente odoraccio del dopobarba dello zio Dilvo, si chiede come mai i maschi non usino profumi fruttati o floreali, e aggiunge “È come se ci fosse qualcosa di stupido, nel dover essere maschio”, faccio sempre in modo che ciò traspaia come frammento spontaneo, estemporaneo e casuale, e non sotto forma di manifesto urlato o di predicozzo ideologizzato. (Fin dalla tenera età, questa stupidità del dover essere maschio emerge con prepotenza nel campo relazionale e affettivo: a tutti, ai tempi della scuola, è capitato di vedere coppie di ragazzine in atteggiamenti apertamente dolci e saffici, più o meno scherzosi – mentre se osassero lo stesso due maschi sarebbe per loro l’inizio della fine…)

Diventò la mia ossessione. Ah, poter restare indifferente alle tue iridi, alle tue sopracciglia, ai tuoi zigomi, come aveva detto quel giorno lo zio cieco! Ma io ci vedevo, e cieco, semmai, secondo le credenze dei bigotti, avrei potuto diventare a forza di menarmelo pensando di averti, di mettertelo dentro mentre ti baciavo e poi baciavo e poi baciavo ancora. I primi giorni mi ero detto che a Marina non me lo sarei mai nemmeno sfiorato, il pìrulo. Non tanto per il terrore di quel guastamaroni di Dio, quanto per l’impossibilità di non venire scoperto. Sconsigliabile farlo a letto di notte, visto che dormivo a pochi centimetri dalla mamma. E pericoloso farlo nel gabinetto, visto che l’olfatto centuplicato dello zio cieco mi avrebbe smascherato senza scampo. Ma da quando rimanemmo soli io e la mamma, quel lavandino ingoiò più sperma di dodicenne che dentifricio sputato. Solo la prima volta, mi bloccai. Nella specchiera c’era l’effigie dolce di Daniela che mi voleva e mi baciava e mi accoglieva tra le cosce urlanti e stringicazzo e gridava “Ancora! Ancora! Ancora! Amore! Amore! Sììììììììì!” e un attimo dopo al suo posto si materializzavano le orbite vuote dello zio cieco e soprattutto il naso dello zio cieco che mi annusava il pìrulo peccaminoso. Se n’era andato da troppo poco, e la specchiera portava ancora impresse, come la pellicola ipersensibile di una macchina fotografica, le immagini di lui che si faceva la barba a memoria col suo rasoio elettrico. Anche l’odoraccio acre e pungente di dopobarba, aleggiava ancora lì. Perché i maschi non usino profumi fruttati o floreali non lo capirò mai. È come se ci fosse qualcosa di stupido, nel dover essere maschio. Ma poi pensai a Daniela più forte e lo feci sparire, lo zio, lo sfrattai con tutto il suo apparato da barba da casa sua e dal gabinetto di casa sua con la vasca da bagno per vecchi, e adesso la storia era una storia di carni giovani, solamente immaginate, d’accordo, ma immaginate così bene che certi miei schizzi di panna sborata mi preoccupavano, mi davano l’impressione di poter spaccare il rubinetto, sfondare lo specchio, perforare le piastrelle e abbattere il muro. Fare danni pensando alla Dani. La immaginavo così forte che lei era lì, presente, più che se ci fosse stata davvero. Solo per quel miliardesimo di secondo, naturalmente. Poi scivolava via e spariva, insieme alla mia anima liquefatta giù per lo scarico del lavandino. Ma Daniela, Daniela, come faceva a non sentire tutto ciò sulla pelle? Dov’era finito il sesto senso delle femmine?

E forse i bigotti non erano poi così fuori strada: immaginavo il tutto così intensamente, che nel momento dell’orgasmo sentivo qualcosa cortocircuitare all’interno dei bulbi oculari, come se la luminosità della proiezione interna rischiasse di provocare l’autocombustione della pellicola, lesioni al nervo ottico, il distacco della retina.

 

(Chiudi gli occhi e guarda, pagg 95-96)

Seconda parte: lunedì 11 maggio!

18 commenti Aggiungi il tuo

  1. Renato ha detto:

    Fino a lunedì prossimo ci tocca aspettare? 🙂

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    1. Zio Scriba ha detto:

      Dài che manca poco… 🙂

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  2. amanda ha detto:

    eh già Corradino è cresciuto

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    1. Zio Scriba ha detto:

      Non troppo, però 🙂

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  3. marielladani ha detto:

    Corradino e il suo autore. Voglio loro molto bene. Mi è piaciuta molto la prima parte dell’intervista. Siete due autori che stimo e rispetto. Leggerò molto volentieri le altre parti. A presto.

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    1. Zio Scriba ha detto:

      Grazie!

      (Questa è bella: il signor WordPress mi dice “Stai scrivendo troppi commenti in fretta: rallenta”!!!! 🙂 E non contento me se magna ilo commento! Okkeccè, l’autovelox? 🙂 Quindi non si offendano quelli sotto, ma tornerò qui a rispondervi facendo passare più tempo fra una risposta e l’altra…)

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  4. cristiana ha detto:

    Un’intervista coi fiocchi.
    Un dialogo tra chi ha ben chiaro cosa sia la letteratura.
    Cristiana

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  5. Loredana Bicego ha detto:

    quando si scrive mischiando fantasia ad esperienze vissute si scrive quasi col sangue come dice di fare nietzche

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  6. L' Alligatore ha detto:

    Grande questo dialogo tra i miei due scrittori italiani preferiti 😉

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    1. Zio Scriba ha detto:

      Gracias!

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  7. franco battaglia ha detto:

    E bello Paolo che per buttar giù sinossi dei suoi scritti, invece.. deve inventarsi un altro romanzo… Corradino è un libro già aperto, per questo scuote, affascina, intenerisce e intriga.. come il suo “papà”..

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  8. Subhaga Gaetano Failla ha detto:

    Bella l’intervista e bella la foto con, tra gli altri, una copertina di quel geniaccio di Saki. Mi trovo in particolare sintonia col discorso su trama e scrittura (e viceversa).
    Hai citato, Nicola, tra foto e intervista, diversi tuoi autori preferiti, e nella foto c’è anche Tex. Altri tuoi fumetti preferiti? Alan Ford?

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    1. Zio Scriba ha detto:

      In realtà il mio viaggio nel (bellissimo) mondo dei fumetti non è stato ricco e variegato come quello nella Narrativa: mi sono limitato ai Topolini e ai Tex.

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  9. remigio ha detto:

    “la Scrittura senza trama può darmi godimento, divertimento e commozione, mentre la trama senza Scrittura non vale un solo millesimo di secondo del mio tempo di lettore”. Condivido pienamente.

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    1. Zio Scriba ha detto:

      Credo che i Lettori Buongustai la pensino tutti così… Vai a farlo capire a certi editor… 🙂

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