La responsabilità

Post scriptum: due giorni dopo aver scritto questo post, ho avuto la fortuna di poter scambiare due parole direttamente con Covacich, a margine di un incontro al Castello di Serravalle a Vittorio Veneto, dove per inciso si è parlato anche di responsabilità dello scrittore, e devo chiedergli scusa per aver barbaramente semplificato, e perfino travisato, il suo punto di vista. Prossimamente cerco di porre rimedio provando a descrivere, nei limiti del possibile, il suo reale punto di vista, che, per inciso, sento mio.

Intorno a metà maggio, nell’ambito delle attività legate al premio Strega, io e gli altri undici finalisti siamo stati invitati a Modena per incontrare una rappresentanza di ragazzi delle scuole superiori di tutta Italia, selezionati come giuria del “Premio Strega Giovani” (l’aggettivo non si riferisce agli autori, che erano gli stessi del premio “maggiore”, ma ai giurati). Dopo aver dedicato quasi due ore alle nostre auto presentazioni, i ragazzi ci hanno rivolto alcune domande che nella maggior parte dei casi si sono dimostrate decisamente acute. Il tempo, però, stava stringendo – era già ora di pranzo, c’erano treni in partenza – e quindi siamo dovuti andare veloci: la conduttrice, una Maria Concetta Mattei in splendida forma, ci indicava gentilmente l’orologio. E ci stavamo quasi alzando, convinti di aver finito, quando una ragazza ha chiesto di poter rivolgere un’ultima domanda a tutti noi. “Quando vi leggiamo, cerchiamo risposte ai nostri dubbi più profondi. Sentite una qualche forma di responsabilità verso noi lettori?”

Covacich
Covacich

Ovviamente non potevamo rispondere tutti: si è offerto Covacich di farlo per noi. Covacich è un autore che, oltre a scrivere dei libri davvero notevoli (“Prima di sparire”, ad esempio, mi ha lasciato a bocca aperta), ha una forte consapevolezza del suo essere scrittore – una consapevolezza che emerge anche dai suoi romanzi. Mi è dispiaciuto, quindi, aver perso gran parte della sua risposta (avevo iniziato una conversazione di maniera con il professor Santagata, mio vicino di posto) e non sono neppure convinto di aver capito veramente cosa intendeva dire… Può essere quindi che non sia vero che lui abbia detto che uno scrittore ha una grande responsabilità verso le parole che scrive, ma mi piace pensare che abbia detto proprio questo. Se non avessimo avuto la pressione del pranzo, mi sarebbe piaciuto proporre un punto di vista diverso dal suo – non per spirito di contraddizione, ma per amore della dialettica. Avevo letto da poco, infatti, un’interessante intervista a quel grande provocatore che è Michel Houellebecq, che lui aveva rilasciato a poca distanza da quel 7 gennaio in cui i redattori di Charlie Hendo erano stati barbaramente uccisi da due tizi con poco senso dell’umorismo. Non so se Houellebecq, mentre rispondeva alle domande del giornalista del Corriere della Sera, stesse cercando di alleggerire un po’ la propria posizione nei confronti dei fondamentalisti islamici, verso i quali non era mai stato particolarmente tenero… Chiunque abbia letto “Sottomissione” sa bene che l’Islam non avrebbe motivo di sentirsi offeso da questo romanzo; ma in passato Houellebecq aveva espresso pareri abbastanza tranchant sull’argomento. Ricordo personalmente la prima volta che ho conosciuto questo autore: era ospite di “Otto e mezzo” poco dopo l’11 settembre, e lo intervistava Giuliano Ferrara. A quei tempi non avevo letto nulla di suo, ma ero stato colpito dalla sua intelligenza. Sui terroristi di Al Qaeda aveva detto che si trattava di un fenomeno destinato ad esaurirsi, come la moda punk in Inghilterra negli anni settanta (una previsione infelicemente smentita); poco dopo il 2010, disse di aver letto il Corano e di esserne uscito prostrato.

E cosa dice Houllebecq nell’intervista di quest’ultimo gennaio?

Michel Houellebecq, lei ha paura?

«Sì, anche se è difficile rendersi conto completamente della situazione. Cabu per esempio, uno dei disegnatori uccisi, non era del tutto cosciente del rischio, c’era in lui l’anima sessantottina mescolata con una vecchia tradizione di mangiapreti, e in Francia essere un mangiapreti espone a un processo in tribunale che in genere si vince.»

Lei aveva paura anche mentre scriveva il suo romanzo?

Houellebecq
Houellebecq

No, per niente. Quando si scrive non si pensa affatto a come verranno accolte le proprie parole. Scrittura e pubblicazione sono due fasi separate. È adesso che uno capisce i rischi. […] Quando c’è stato l’incendio della redazione, il primo attentato a «Charlie Hebdo» nel 2011, non pochi dei colleghi giornalisti e dei politici dissero sì, la libertà va bene, ma bisogna essere un po’ responsabili. Responsabili. Questa era la parola fondamentale.»

Anche a lei, di recente, è stato chiesto se non sente di avere una responsabilità in quanto grande scrittore. La trova appropriata questa domanda?

«No, io mi sento sempre irresponsabile e lo rivendico, altrimenti non potrei continuare a scrivere. Il mio ruolo non è aiutare la coesione sociale, o l’unità nazionale. Non sono né strumentalizzabile, né responsabile.»

Siamo agli antipodi del punto di vista espresso (credo) da Covacich. Nessuna responsabilità verso il mondo che sta fuori. In “Inganno”, uno dei romanzi più originali di Philip Roth, il personaggio principale, che si chiama Philip ed è uno scrittore, viene accusato dalla moglie di avere un’amante. L’elemento scatenante è il ritrovamento di alcuni brani di un romanzo in cui un uomo intrattiene una relazione extraconiugale con una donna. Nel libro il personaggio maschile si difende piuttosto strenuamente, affermando (vado a memoria) che non c’è nessuna relazione tra la vita reale e la fiction che si scrive. La moglie gli dice che dovrebbe evitare di scrivere certe cose, ma lui risponde (vado sempre a memoria) che un autore non può essere il poliziotto di se stesso. E credo che questo sia esattamente il punto di vista di Philip Roth: cioè uno scrittore non può (cioè non deve) considerare le conseguenze morali, politiche, personali, di ciò che scrive.

Alex_Arancia_MeccanicaChi ha ragione? Il film “Arancia meccanica” di Stanley Kubrik era stato accusato di incoraggiare un certo tipo di violenza: era un’accusa sensata? Il video di “Jeremy” dei Pearl Jam era stato messo in relazione con una strage avvenuta in una scuola (ed è il motivo per cui i Pearl Jam, indignati da questa accusa, non hanno più realizzato alcun video). Per “Madame Bovary” era stato chiesto il ritiro di tutte le copie perché il suo contenuto avrebbe finito per intaccare la morale delle donne che lo avrebbero letto. Flaubert era consapevole delle conseguenze che avrebbe potuto avere il suo libro? Pensava che le accuse non fossero fondate, o che non fosse un problema che l’autore si deve porre prima della pubblicazione? A ben vedere, anche le posizioni di Roth e Houellebecq sono diverse… Nell’ultimo grande romanzo di Roth, che è “La macchia umana”, l’alter ego Nathan Zuckermann decide di raccontare la storia di un uomo che ha ucciso l’ex moglie e il nuovo compagno sapendo che, una volta fatto, sarebbe stato costretto a sparire. Roth, a differenza di Houllebecq, non pensa che un autore debba essere un uomo irresponsabile ma, piuttosto, qualcuno che conosce le conseguenze di ciò che scrive e decide di accettarle. Anche passando sopra le vite delle persone vicine, come si evince dalle biografie pubblicate da ex mogli ed ex amici. Houellebecq, invece, sembra rimpiangere i tempi in cui gli scrittori non erano costretti a pagare le conseguenze delle proprie scelte, come se esistesse una sorta di lasciapassare concesso agli artisti, e che l’integralismo islamico mette in discussione.

Mentre Joyce scriveva i pensieri notturni di Molly, immaginava che questo avrebbe innescato un processo per oscenità? E se lo avesse saputo, e avesse voluto comunque continuare a scrivere, quali erano gli obiettivi di questa scelta? In nome di quale bene superiore uno scrittore decide di non curarsi delle conseguenze di quello che sta scrivendo? Il processo all’Ulisse si è concluso con un’assoluzione perché il giudice, con una storica sentenza, aveva riconosciuto un alto valore artistico al libro; e questo alto valore artistico giustificava la necessità dell’oscenità. Ma Joyce poteva valutare il valore artistico della propria opera mentre la scriveva? Poteva, insomma, assolversi da solo?

Alla fine, non sono arrivato a nessuna conclusione. Quando si scrive un libro, si procede come se il mondo non esistesse, e allo stesso tempo con l’aspirazione di rivolgersi a tutta l’umanità, presente e futura: secondo le categorie di Kundera, leggerezza (insostenibile) contro la pesantezza dell’eterno ritorno. In un’intervista un po’ sconsolata di qualche anno fa, Covacich diceva di essere rimasto sconvolto quando aveva saputo che la prima edizione di un suo libro pubblicato con Mondadori non arrivava a seimila copie – un numero inferiore perfino alle librerie in Italia. Era convinto di scrivere per un pubblico molto più ampio: è per questo che si sente responsabile verso le proprie parole? Houellebecq dice che la scrittura e la pubblicazione sono attività completamente separate; Covacich sembra dire di no; Roth le considera legate (un autore che vende milioni di libri in tutto il mondo sarebbe uno sciocco se la pensasse diversamente) ma crede che lo scrittore non debba avere paura delle conseguenze: scrivere, insomma, è una missione. E quindi? Dobbiamo credere che i libri scritti non costituiscano una minaccia per nessuno, oppure dobbiamo essere convinti che i “pericoli” contenuti nei libri servano a far evolvere il mondo, oppure che prima di scrivere qualcosa sarebbe bene pensare alle conseguenze?

falò

4 commenti Aggiungi il tuo

  1. Eleonora Ingrassia ha detto:

    Interessante e … nemmeno io ho risposte (ma penserò più approfonditamente alle domande)

    Ne aggiungo una, perché la parola “artisti” nel testo ha attivato in me un interruttore: perché attribuismo a chi scrive (alle parole) più ‘responsabilità’ che a chi dipinge/fotografa/scolpisce/insomma produce immagini? (Nonostante il grande uso che faccismo del senso della vist dal primo momento in cui siamo svegli fino all’ultimo prima di dormire, persone cieche a parte) Chiediamo agli/le artist* visual* se sentono responsabilità? Ho solo io l’impressione che ci faremmo meno problemi di fronte alla rappresentazione visiva del sangue che non leggendo l’accurata descrizione di un omicidio? (Caso dei Pearl Jam a parte, anche perché vorrei concentrarmi più sull’arte visuale “dei musei” senza aprire dibattiti tipo “i video musicali sono considerabili arte”…)

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  2. Eleonora Ingrassia ha detto:

    (Mi si scusino le inversioni di S e di A 🙂 e spero di esser stata chiara

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  3. Branoalcollo ha detto:

    ci sono delle storie che ti superano, indipendentemente dalle intenzioni iniziali..non ci si può ritenere responsabili delle intenzioni altrui.

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  4. Simone Bachechi ha detto:

    Articolo molto bello, interessantissimo e ricco di spunti di riflessione.Non è per fare una sintesi, una prolissi, una sintassi, ma in relazione al tema della libertà nella scrittura mi è venuta in mente la canzone “Libertà” di Giorgio Gaber del quale fra l’altro ha inizio proprio domani 05 luglio la terza edizione del festival Gaber itinerante nella zona di Camaiore (a me vicina), nato due anni fa in occasione dell’anniversario dei dieci anni dalla sua scomparsa.
    Trovo nel testo della canzone interessante il suo dato “politico” che consciamente o meno si può applicare anche alla scrittura come ad ogni atto creativo (secondo me naturalmente):

    “La libertà non è star sopra un albero
    non è neanche avere un’opinione
    la libertà non è uno spazio libero
    libertà è partecipazione.
    la Libertà non è star sopra un albero
    non è neanche il volo di un moscone
    la libertà non è uno spazio libero
    libertà è partecipazione.”

    Oppure

    “Non illudetevi di cambiare la vita delle persone, rinunciando allo scambio umano, emotivo”.

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