Ancora sull’Aleph

Per quanto il pensiero possa non sempre far piacere (pare sminuire il contributo che ciascuno porta alla propria vita, e l’unicità che tutti si attribuiscono), ciascuno di noi è per larga parte il frutto dell’ambiente da cui proviene – dal punto di vista del carattere, dei gusti, della cultura. (Poco tempo fa ho visto il video di un ragazzino di sei o sette anni che tifava Roma con una veeemenza del tutto incomprensibile: al di là della squadra specifica, non ho potuto non pensare che assomigliava a un animale ben ammaestrato… ho pensato anche che certi sentimenti, come la competizione e il desiderio di appartenere a un gruppo sono innati (qualcosa di simile alle categorie a priori di Kant) e che aspettano solo qualcosa che li indirizzi).

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Ahlmanns Alle 15, Copenaghen, casa dell’estate del 1983

Nel mio caso, devo riconoscere che la passione per certi argomenti, come quello da cui era partito il post precedente sulla relazione tra le mappe di Google e l’Aleph, è ereditata da mio padre, che da bambino si perdeva sfogliando gli atlanti geografici (esattamente come faceva Marlow in “Cuore di tenebra”: lo nota giustamente Andrea Siviero in un comnento al post precedente), e che adulto leggeva Borges e, in qualche modo, più o meno coatto, lo faceva leggere a me. (Sulla coazione alla lettura: fino a 15 anni leggevo tutto quello che trovavo (o mi veniva fatto trovare) in casa, poi mi sono ribellato, abbastanza previdibilmente, diventanto un adolescente tardivo, e rifiutando i consigli paterni). In particolare, durante una bellissima, e per me importantissima, vacanza a Copenaghen, dove mio padre per un mese lavorò all’Istituto di Fisica “Niels Bohr”, e io e il resto della famiglia giravamo per la città in lungo e in largo, ho letto davvero tanto (anche in autobus), e tante cose importanti: tra le altre, “Tutti i racconti” di Kafka, in una bellissima edizione curata da Pocar, “Delitto e castigo” di Dostojevskij, “Lo sraniero” di Camus (che allora capii poco o punto) e “L’Aleph” che mio padre aveva portato con sé. Allora il racconto mi era sembrato molto bello, ma non potevo immaginare che il tipo di problemi, diciamo così, filosofici che affrontava, che proponeva, avrebbero caratterizzato molte delle mie riflessioni future, e, ora lo so, molte delle riflessioni future di mio padre.

Io e mio padre abbiamo un approccio molto differente alla filosofia: lui è rigoroso, serio, e molto preparato; io sono superficiale, incuriosito più dall’eccezione che dalla norma – mi piace rimanere ai margini della verità, ammesso che ne esista una, e usare queste conoscenze approssimative per fantasticare liberamente. Per quanto entrambi potremmo essere considerati dei sognatori, io appartengo alla categoria dei sognatori romantici, che difendono la propria ignoranza spacciandola per la leopardiana vaghezza (ottimo modo di difendere la mia pigrizia!). Senza presunzione, ho un approccio da romanziere.
Sull’Aleph, ad esempio, ho qualche ricordo che mi permette di rendere un po’ più nobile, e sicuramente più divertente, il mio oziare su Street View. Mio padre, invece, sa esattemente di cosa sta parlando Borges – sa qual è il problema molto più ampio che ci sta dietro. Questa mattina mi ha mandato una mail sull’argomento, in punta di piedi, per timore di offendermi; io, invece, quando ricevo queste cose, penso di essere fortunato ad avere qualcuno che, dopo tanto tempo da quando sono venuto al mondo, ha ancora a cuore la mia formazione. Nella mail, mi ha scritto esattamente le cose che mi interessano – per lui è facile farlo, avendomi inoculato certe curiosità quando ero ancora malleabile – e che riporto qui. Il brano fa parte di un qualcosa (un saggio? un’enciclopedia? una lunga trattazione sulle scienze cognitive?) al quale sta lavorando da diversi anni.

L’Aleph, e gli aspetti speculari dell’infinito

di Francesco Zardi

Le tecniche di tipo yoga. Tramite queste tecniche, basate sulla ipo-attività mentale, si tende al progressivo svuotamento della mente che, liberata da tutti i legami con questo mondo ed i suoi condizionamenti, raggiunge la conoscenza del tutto o del nulla, che sono forse i due aspetti speculari dell’infinito. Questo stato viene chiamato, a seconda delle culture, illuminazione o samadhi, satori, zazen, o in altri modi. Queste tradizioni hanno come fondamento l’idea che il pensiero cosciente può solo irretirci nelle cose di questo mondo; è questo coinvolgimento che è la causa di tutte le nostre sofferenze.

zazenSul versante opposto si colloca il rapimento mistico, più facilmente associabile alle religioni monoteiste. Questo consiste in uno stato di iper-attività psichica, che può essere raggiunto tramite una suprema esaltazione, che vorrebbe far penetrare il meditante nei misteri fondamentali della fede e dell’universo. Tale stato viene raggiunto tramite la concentrazione su pensieri via via più profondi, riguardanti i problemi fondamentali della metafisica (Dio, eternità ed infinità del mondo, o il loro contrario), o misteri connessi ai dogmi (Dio Uno e Trino; la transubstanziazione, le pene e le delizie post-mortem).

Si possono riportare qui le parole di Edgar Morin, un sociologo della conoscenza, che compaiono nel suo libro “La conoscenza della conoscenza”, a proposito delle due esperienze descritte sopra:

Le due vie si escludono tra loro e conducono a due estasi differenti, l’una di esaltazione infinita, l’altra di infinita pace, ma queste due estasi si congiungono non soltanto nella pienezza che entrambe procurano ma anche nel superamento o nell’annientamento di tutte le strutture cognitive “normali”: esse fanno saltare le categorie distintive del nostro universo fenomenico (oggetto, soggetto, tempo, spazio), cancellano le separazioni, associano le contraddizioni, mescolano il logico e il non-logico, operano la fusione del sé e del mondo, del pensiero e dell’essere, trovando l’unità inafferrabile dietro le apparenze, l’assoluto dietro il contingente, l’Eternità dietro il tempo.

alephIn un fascinoso modo poetico lo scrittore argentino Borges immagina nel suo racconto “L’Aleph” una simile esperienza. Introduciamo per sommi capi il contesto in cui tale esperienza si è verificata. Nel racconto, scritto in prima persona, Borges comincia con il dire che una sua cugina gli aveva chiesto il parere su alcuni scritti che un suo conoscente andava componendo da qualche tempo. Si trattava di melense descrizioni, prive di un qualunque afflato emotivo, di una piazza in un paesino dell’Australia con relative pompe di benzina, o di un chilometro di una strada senza uscita in un sobborgo di Buenos Aires con rivendite di pane e di concime per le piante, elencando vari particolari senza alcuna relazione fra loro. Si viene a scoprire che lo scribacchino, per motivi fortuiti, era venuto in contatto con l’Aleph, un mitico oggetto della tradizione mistica ebraica, in cui è riflesso l’intero universo. Quando Borges finalmente ne viene a conoscenza, se ne avvale per scrutarlo. La descrizione di quello che vede, è preceduta da alcune righe di preambolo, in stile dantesco, in cui proclama la sua assoluta inadeguatezza a descrivere quanto visto. Ci limiteremo a richiamare questo preambolo:

Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli, il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? … … D’altronde il problema centrale è insolubile: l’enumerazione, sia pure parziale, d’un insieme infinito. In quell’istante gigantesco, ho visto milioni di atti di bontà o di crudeltà; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza. Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò è in successione, perché tale è il linguaggio.

Il racconto di Borges da molti è stato visto come una prefigurazione del mondo di Internet:  dal guardone allo studioso di archeologia tibetana, ognuno potrà trovare qualcosa di interessante. Le menti più fragili (gli Internet-dipendenti), talvolta precipitano in uno stato confusionale, che  interpretano volentieri come una esperienza mistica.

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2 commenti Aggiungi il tuo

  1. asiviero86 ha detto:

    Grazie per la citazione. Ciò che ha scritto tuo padre è molto interessante, ha fatto bene a mandartelo, e tu hai fatto bene a postarlo qui. L’ho letto con piacere.

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  2. Zio Scriba ha detto:

    Devo dire che, sia come lettore che come scrittore, il mio approccio è più simile a quello di Paolo. Sarà pigrizia, sarà istintiva diffidenza verso tutto ciò che è troppo serio e troppo meditato, ma io mi ritrovo a procedere più per squarci intuitivi, per folgorazioni emozionali. Nel primo racconto della raccolta “l’Aleph” (L’immortale), Borges butta lì, quasi fosse un condimento, una distratta facezia o un aneddoto di contorno, la portentosa, sconvolgente, intelligentissima frase: “Ricordai che è fama tra gli etiopi che le scimmie non parlino di proposito, per non essere obbligate a lavorare”. Ecco, di tutta quella lettura (fatta parecchi anni fa), a me è rimasta SOPRATTUTTO questa frase contenuta in questo primo racconto. (Ma adesso, per “colpa” vostra, potrebbe pure venirmi voglia di cercare il libro fra gli scaffali per rileggere almeno quel racconto che dà il titolo all’opera.)
    Azzeccato, comunque, il parallelo con internet che leggo in questa interessante riflessione: un mondo dove puoi trovare tutto e il contrario di tutto, cosa pericolosissima se si è fragili, o frettolosi, o superficiali, o inesperti, o suggestionabili ecc.
    Giorni fa la mia nipotina aveva un dubbio sul verbo “secernere”, ed è andata a guardare sul web. Per fortuna il dubbio non riguardava il participio passato (sapeva benissimo che è “secreto”) perché incredibilmente (ho verificato anch’io) digitando su google “verbo secernere” il primo sito che saltava fuori, il più indicizzato (e quindi quello che tanti sprovveduti potrebbero considerare più attendibile) presentava una tabella in cui il participio passato era “secernuto”!!!!
    Un abbraccio grande a entrambi gli Zardi! 🙂

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