Risiko!

La grandezza di uno scrittore si vede nelle piccole cose, quando riesce a rendere interessanti dettagli quotidiani, o trascurabili. Mailand, l’ultimo romanzo di Nicola Pezzoli, del quale ho parlato poco tempo fa, contiene mirabili esempi di fragrante leggerezza. Uno, in particolare, mi fa impazzire, ed è quello che riguarda una lunghissima partita di Risiko giocata da Corradino, voce narrante e protagonista del romanzo, e dai suoi due compagni di appartamento. La partita è suddivisa tra due dversi capitoli, ma qui la propongo in un’unica soluzione, come un racconto che, pur parlando di niente, riesce ad appassionare. Un esercizio di stile che andrebbe proposto nelle scuole di scrittura….

Risiko!
di Nicola Pezzoli
(da Mailand, Neo edizioni, 2016)

12439472_1716965331918126_5402004872137960721_nLa partita a Risiko era sempre lì che aspettava, insieme al bottiglione di Coca, alle lattine di birra, alle rimanenze di focaccine dolci con crema e uva passa del panettiere all’angolo, alle sigarette che Marco mal sopportava.

Quei due bastardi s’erano di nuovo coalizzati. Come sempre negandolo, rivendicando la casualità della cosa. Ciò da una parte mi lusingava (era un’ammissione della mia superiorità strategica) ma dall’altra mi centrifugava i maroni.
Sulla sinistra del planisfero, entrambe le Americhe stavano sotto il dominio delle mie armate. Dai Territori del Nord Ovest all’Argentina non scorgevi altro che i miei carrarmatini gialli. L’Alaska, praticamente inespugnabile, grazie al saldo avamposto asiatico in Kamchatka. Lo stesso dicasi per la Groenlandia, con truppe attestate a protezione in Islanda. Il Brasile non godeva di nessuno scudo africano, ma in compenso era difeso da un numero spropositato di armate: una quarantina – venti carrarmatini e due bandiere. Non solo, ma in caso di débacle sudamericana, in seguito a un temerario attacco via mare, i  più importanti possedimenti nord americani sarebbero stati imprendibili grazie alla strozzatura del Centro America, in cui avevo lasciato ammassate per ogni evenienza altre otto armate, che a ogni giro aumentavano. La situazione mondiale era completata dai viola di Marco, attestati nell’Europa continentale, in Gran Bretagna e nella zona mediorientale, nonché padroni assoluti dell’Africa, e dai blu di Beniamino, signore di tutta la rimanente Asia e dell’intero continente oceanico.

Mi credevo in vantaggio e destinato alla vittoria, grazie alla rendita di sette armate a giro contro le tre spettanti a Marco per l’Africa e le misere due di Beniamino per l’Oceania. Ma, c’era un “ma”. L’altra fonte di rinforzi in quel maledetto gioco, discontinua, aleatoria ma più decisiva, era costituita dalle combinazioni di carte. E il diritto a pescare una carta alla fine di un turno l’avevi solo se conquistavi un territorio. Questa eventualità, a me, era preclusa da tempo. I miei avamposti erano assediati, e tentare una sortita mi avrebbe esposto al rischio di contrattacchi devastanti. Quindi, carte nisba. Rimanevo con un jolly e un cannone, una tristissima coppia che non avrei mai trasformato in un tris. Loro, invece, continuavano a usare l’Afghanistan per il giochetto “della puttana”: a ogni turno uno di loro lo conquistava e poi ci lasciava una sola armata alla mercé della riconquista dell’altro. In questo modo, la carta era assicurata per entrambi.

 Quella sera fu interlocutoria. Loro andarono avanti per due ore a puttaneggiare, mentre io puntellavo la mia situazione di stallo difensivo: a ogni giro avevo diritto a dodici armate di rinforzo e ne piazzavo tre in Brasile, due in Kamchatka, una in Centro America, una in Alaska, due in Groenlandia e tre in Islanda, dopodiché passavo la mano a Marco senza colpo ferire. L’Islanda stava per affondare sotto il peso del mio esercito, ed era chiaro che prima o poi sarebbe stato da lì che avrei sferrato il mio attacco. Chissà quando, però. Magari fra una settimana o un mese. Comunque, nemmeno loro si scoprivano: si limitavano a tenermi sotto assedio, senza mai rischiare di perdere una sola armata in assalti scriteriati. Ammassavano truppe che premevano ai miei confini: Marco in Africa del Nord, Gran Bretagna e Scandinavia; Beniamino in Jacuzia, Čita, Mongolia e Giappone. I dadi giravano solo per i fugaci blitz della vergognosa prostituzione afghana.
I loro mazzetti s’erano fatti talmente massicci che avrebbero potuto giocarci a briscola. Rimanevo il più forte, ma se uno di loro avesse fatto breccia nel mio Impero Americano sarebbe stata una catastrofe da cui non mi sarei ripreso. Né, a meno di miracoli, avevo modo di forzare la vittoria: il mio obiettivo diceva: “Europa, Oceania più un terzo continente a tua scelta”.

 Come nelle guerre vere, alternavamo fasi diplomatiche, volte al confronto e alla trattativa:
«Puttane afghane!»
«Cazzinculo!»
«Troie».
«Cossiga».

***

12936495_1719471255000867_6320143544723233523_n
Per gli amanti del Risiko, ecco una ricostruzione della partita come si presenta all’inizio del romanzo. [Gialli: Konrad Viola: Marco Blu: Beniamino]

La partita a Risiko più lunga della storia ebbe improvvisamente fine nel corso della sessione successiva. Dopo aver conquistato l’Afghanistan ‒ e prima di cedere la mano a Beniamino che, manco a dirlo, l’avrebbe riconquistato ‒ Sirenetto Belculetto aveva preso una lunga ciucciata di Coca Cola dal bottiglione di plastica, poi aveva effettuato uno strano spostamento delle truppe viola di stanza in Gran Bretagna: le aveva ammassate insieme alle altre sue in Scandinavia, facendole salire a un totale di oltre quaranta, lasciandone sull’isola soltanto otto. In apparenza, era una mossa senza senso, dal momento che entrambi quei territori confinavano col mio avamposto islandese: avesse voluto attaccarmi, dividere o unire le sue truppe sarebbe stato ininfluente, mentre dal punto di vista difensivo sguarniva la Gran Bretagna. Doveva essere un tranello. Un modo per attirarmi allo scoperto. Ci pensai a lungo, poi, al mio turno, decisi di attaccare, scatenando la furia del mio esercito da troppo tempo congelato lassù.
Mi feci prima passare il bottiglione e ci piantai dentro una bella ciucciata. (Ero sempre stato schizzinoso, ma ciucciare dove aveva appena ciucciato Sirenetto Belculetto – bollicine insalivate di Marco-Cola imperlavano a centinaia il coca-collo del contenitore – era una pornocomunione bausciosa e blasfema: non come mettergli la lingua in bocca ma quasi.) Poi presi i dadi rossi e attaccai.
Attaccai per impazienza, per rabbia e per noia, ma l’attacco aveva una logica. Se fossi riuscito a dilagare nel resto dell’Europa, e a spingermi giù fino in Africa avrei potuto dare a Marco una spallata decisiva. A quel punto, coi viola così deboli, perfino i blu avrebbero rotto indugi e alleanze a li avrebbero attaccati, per eliminarli e conquistare le loro carte, dopodiché l’avrei risolta uno contro uno con Beniamino.

 Manco a dirlo, fu un attacco rovinoso. La fortuna coi dadi mi abbandonò. O meglio, io non smettevo affatto di averne, ma Sirenetto Belculetto ne aveva di più. Al culmine della furiosa battaglia arrivai a sfoderare un imbattibile 6 6 6, ma lui rispose con un pazzesco 6 6 4! In Gran Bretagna dovevano esserci le truppe d’élite più addestrate del pianeta, poiché le mie forze, per quanto soverchianti, andarono incontro a  una carneficina. Non solo avevo fallito l’azione di sfondamento in Europa meridionale e Africa, ma non avevo conquistato neppure la Gran Bretagna, dove la lenta erosione delle difese non aveva fatto che ridurre i suoi carri armati da otto a tre. Non guadagnai neppure la carta per la combinazione. Mi fermai appena in tempo. Delle mie quarantadue armate in Islanda ne restavano sette, che unite alle dodici di stanza in Groenlandia mi facevano ancora sentire al sicuro.
Ma eccoti Marco sfoderare la bellezza di quattro combinazioni, prendersi oltre cinquanta armate di rinforzo, piazzare tutto in Scandinavia, e con quell’orda di Unni, Ostrogoti e Visigoti lanciarsi al saccheggio del Nord America. Mi spazzò via facilmente dall’Islanda, con più fatica dalla Groenlandia, per poi irrompere nel continente e mettere a ferro e fuoco i  Territori del Nord Ovest, e poi l’Alberta, l’Ontario, il Quebec, gli Stati Uniti Orientali e quelli Occidentali, dando una botta all’Alaska, che non conquistò ma mise in ginocchio, e fermandosi soltanto per la strenua resistenza delle mie truppe centroamericane. Truppe che, quando si spense il rimbombo dei cannoni, erano ridotte a due misere armate.
Mi restava ancora l’intero Sudamerica, mi restavano decine di armate in Brasile e Kamchatka con cui tentare una rapida riconquista (nel devastarmi, Marco si era lasciato alle spalle tanti Stati indifesi). Ma i tempi non erano dalla mia. Avrei dovuto interporre almeno un turno di soli spostamenti (dalla Kamchatka all’Alaska, mentre ancora più lenta sarebbe stata la risalita dal Brasile al Venezuela al Centro America).
E soprattutto prima di me toccava a Beniamino, che sfoderò a sua volta una sessantina di armate di rinforzo, le mise tutte negli Urali, e iniziò una veloce opera di rastrellamento: Ucraina, Scandinavia, Islanda, l’intero Nord America. La stessa folata di Marco ma con potenza maggiore, come uno che ricalca a pennarello un disegno fatto a matita. Durò neanche cinque minuti. Dopodiché scoprì il suo obiettivo: Nord America e Oceania. Tutti a nanna.
Rivolsi a Marco il gesto dell’ombrello.
«L’importante è che non abbia vinto tu, Konrad» sorrise di rimando lo stronzetto.
L’avrei ammazzato.
E va bene, siamo sinceri: me lo sarei inculato.

Un commento Aggiungi il tuo

  1. Grilloz ha detto:

    “La stessa folata di Marco ma con potenza maggiore, come uno che ricalca a pennarello un disegno fatto a matita.”
    Niente da fare, Nicola è proprio bravo 😉

    "Mi piace"

Se vuoi dire la tua...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.