Da circa un anno i miei figli, che piano piano si stanno avvicinando all’adolescenza, mi fanno ascoltare la loro musica, quella che trovano nei siti che visistano – spesso sono colonne sonore di giochi, o canzoni segnalate da qualche youtuber. Nella maggior parte dei casi, è roba che non mi dice niente ma so bene come ogni generazione ami disprezzare i gusti di quelle successive – succede nella musica, nei vestiti, nelle pettinature, nel modo di intendere il sesso, o la famiglia, o lo stare insieme. Quindi mi sforzo di starci dietro, continuando a ricordare come i miei genitori reagivano alla musica che ascoltavo quando io avevo l’età dei miei figli, e soprattutto a quella, dirompente, ribelle, e talvolta disturbante, che ascoltava mio fratello più grande. Credo ci sia da imparare, aprendo le orecchie. Non credo che i “giovani” siamo meglio dei “vecchi”, ma voglio evitare di ancorarmi all’idea che tutto il buono del mondo sia già stato fatto: possibile che tutti i gruppi in gamba suonassero quando io avevo quindici anni?
Ma tra il Paolo di allora e il Paolo di adesso esiste una sostanziale differenza – in trent’anni ho avuto modo di riflettere, di formulare teorie, di stancarmi delle cose sentite mille volte, e di provare a ragionare su ciò che ascolto, valutandone la qualità da un punto di vista un po’ più ampio. E’ grazie a questa visione divera, forse più matura, che mi sono trovato ad apprezzare una canzone che dal punto di vista prettamente tecnico – composizione, arrangiamento, voce – presenta diverse lacune, ma che contiene una carica di novità per certi versi elettrizzante. La prima volta che l’ho sentita ho pensato che probabimente la musica che ascolteremo tra dieci o quindici anni in Italia assomiglierà parecchio a questo pezzo.
Stiamo sperimentando l’immigrazione dai primi anni novanta, con i primi clamorosi sbarchi di albanesi a Bari. Da questo punto di vista (credo solo da questo), siamo una nazione giovane perché rispetto ad altri paesi, iniziamo solo ora a mescolare la nostra cultura e le nostre tradizioni (ammesso esista ancora qualcosa di realmente italiano) con quella di popoli stranieri. Le “seconde generazioni” degli immigrati si stanno affacciano in tutti i campi – nel lavoro, nella musica, nello sport – portando uno sguardo diverso, nuovo e per certi versi necesssario.
Sono sempre stato convinto, e credo di averlo detto parecchie volte, che il romanzo sia intimamente legato all’essere stranieri, in senso stretto o in senso lato. Gli esempi sono numerosi: Kafka, tedesco tra i cechi, ed ebreo tra i tedeschi; Nabokov, che scrive in russo a Berlino, e in inglese in America, un paese che osserva con gli occhi di uno studioso di entomologia, e che poi passa l’ultima parte della sua vita a ricostruire, da lontano, la Russia persa a diciassette anni; Philip Roth, che guarda gli ebrei di Newark come un americano e gli americani con lo sguardo dei figli di migranti europei. Oppure Céline, che descrive i suoi viaggi nel cuore dell’Africa equatoriale, la desolazione delle fabbriche di automobili di Detroit, l’orrore di una guerra che sembra combattuta sulla luna… O anche Fabio Viola quando racconta Osaka con gli occhi straniti di un italiano, in Sparire. L’ironia, che è l’ingrediente fondamentale del romanzo occidentale, il suo elemento costitutivo, richiede, prima di tutto, una certa distanza (emotiva, culturale, affettiva) dall’oggetto rappresentato; da questo punto di vista, la condizione di straniero pone un autore nella posizione migliore per raccontare il mondo da una prospettiva diversa, capace di svelarne i meccanismi che gli abitanti di quel mondo non sono più in grado di vedere.
E l’immigrato – non turista che attraversa paesi lontani senza mai sporcarsi le mani, ma essere umano sradicato dalla propria terra, portatore di diversità (quindi potenziale minaccia), diviso tra due realtà che viaggiano parallele, quella pubblica del paese che lo ospita, e quella più nascosta della propria famiglia, delle periferie, dei ghetti – possiede, dal punto di vista letterario, una miniera d’oro. Ne ho avuto la prova qualche mese fa, leggendo un racconto di Elvis Malaj, autore nato in Albania nel 1990 e immigrato in Italia, uscito nel quarto numero della rivista “effe”, curata da 42linee per Flanerì – un progetto tra i più interessanti in Italia, che propone autori emergenti accompagnati da scrittori un po’ più noti, di cui si può leggere bene qui. Ho assistito anche a una presentazione della rivista (credo fosse la prima volta per Malaj) alla libreria Limerick di Padova, in aprile, durante la quale l’autore ha letto ad alta voce il suo racconto con un accento leggermente straniero. Inizia così:
Il televisore
di Elvis Malaj
Il lavoro era finito senza che l’avessero neanche cominciato. Lo zio di Bashkim non era riuscito a capire dal capo se avrebbero lavorato o meno; era in Italia da un sacco di anni e ancora non sapeva bene l’italiano. Davanti al cantiere vuoto e ai cancelli chiusi, Bashkim si era sentito un coglione, anche se dopo essersi svegliato alle sei rincoglionito lo era già. Lo zio aveva risposto con un’alzata di spalle e avevano fatto dietrofront.

In una delle vie di cui Bashkim non ricordava mai il nome, videro due ragazzi dalle braccia esili che trasportavano un televisore. Era enorme, ma dalle facce dei due non traspariva niente.
«Guarda cos’hanno trovato quei rumeni», disse lo zio.
«Che ne sai che sono rumeni?», rispose Bashkim.
«Si vede».
I due ragazzi fecero un altro centinaio di metri e scaricarono il televisore accanto a un cassonetto. Lo zio andò a dare un’occhiata.
«L’hanno buttato. Guarda».
«…»
«Che dici?»
«Dico che l’hanno buttato».
«No, voglio dire che sembra buono».
Bashkim si avvicinò; era un modello vecchio, di quelli con lo schermo bombato, senza telecomando e con le manopole al posto dei tasti.
«Ma se l’hanno buttato come fa a essere buono?», disse Bashkim.
«Non è detto che è rotto, può essere che l’hanno buttato perché ne hanno comprato un altro. Fanno così gli italiani, non sono come noi che prima telefoniamo a tutti i parenti, ai conoscenti, ai conoscenti dei parenti, per vedere se qualcuno lo vuole. Gli italiani lo buttano e basta».
«Ma non hai detto che erano rumeni?»
«Ma che ne so! Per me è buono. Ti ricordi la tv che avevamo prima? L’ho trovata dentro a un cassonetto, l’abbiamo guardata per tre anni… funzionava che era una meraviglia».
Per quanto ci si possa sforzare, nessun italiano potrà mai scrivere questa storia. Non solo: nessun albanese che non sia vissuto in Italia potrebbe riuscirci. In questo racconto, la voce è quella di uno straniero che guarda altri stranieri come lui, e per la prima volta li vede come da dietro un vetro: li riconosce, sa di condividere con loro quasi tutto, ma ora sa anche che in qualche modo sono diversi, diversi da lui e dalla maggior parte delle persone con cui vive ogni giorno. Non c’è sarcasmo e nessuno viene sbeffeggiato; non c’è folklore e non c’è impegno sociale – non si parla del problema dell’immigrazione ai giorni nostri: i personaggi non sono ridicoli, ma simpaticamente buffi, e veri.
Dopo una lunga discussione, i due decidono di portare il televisore in casa, dove scoprono che non funziona. Decidono così di riportarlo giù:

«Cazzo, non voglio più saperne di questo affare», disse Bashkim.
«Buttiamolo lì, vicino al cassonetto». Lo zio si avvicinò alla finestra indicando con la mano. «Lì. Basta che mi aiuti a fare le scale».
«Non possiamo buttarlo lì. È vietato».
«Non ci vede nessuno, tranquillo. E poi pure i rumeni l’hanno fatto».
Sollevarono di nuovo il televisore e, gradino dopo gradino, scesero i tre piani, raggiunsero il cassonetto, diedero un’occhiata in giro e lo lasciarono lì.
«Dovremmo metterci un cartello che dice che è rotto», disse Bashkim una volta risaliti. «Se no qualche altra testa di cazzo come noi si spacca la schiena per portarselo a casa». Chiese al cugino carta e penna, e scrisse Non funziona. Poi prese un rotolo di scotch e scese in strada.
Lo zio si avvicinò alla finestra e vide due marocchini vicino al cassonetto che si caricavano il televisore e se lo portavano via. Quando lo zio vide Bashkim uscire dal portico, con un sorriso da ebete in faccia gli chiese: «Bashkim, dov’è il televisore?»
«Dov’è?», rispose lui perplesso.
«L’hanno preso dei marocchini», rispose lo zio.
Ma non si parla solo del televisore, nel racconto. Lo zio ha una figlia di diciotto anni che non vuole lasciare andare in giro per paura che rimanga incinta; la figlia, ovviamente, che sta diventando in qualche modo italiana, insiste, facendo notare l’ingiusta differenza di trattamento tra maschi e femmine.
Il figlio di quindici anni, ovviamente, usciva come e quando voleva, solo che lui era un tipo un po’ più introverso e, tornato da scuola, stava tutto il giorno chiuso in casa. Una volta gli aveva detto: «Ehi, papà, ho fatto sesso». E lo zio era balzato in piedi e gli si era parato davanti: «Hai solo quindici anni e hai già fatto sesso?! Ma vieni qui, il playboy di papà!», aveva detto pieno di entusiasmo, rifilandogli un paio di pacche sulle spalle. «Bashkim, hai sentito? Ha fatto sesso! Lui è un tipo così, zitto zitto, se ne sta in disparte, ma alla fine se le fa tutte. Eh, come crescono in fretta i figli. Ieri era un bambino e oggi è già grande».
«Ma papà, e i dolori al culo quando smettono?»
In un primo momento lo zio non aveva capito la domanda, poi si era irrigidito, non riusciva più a parlare, aveva lo sguardo di una bestia al macello. A quel punto Bashkim e il cugino erano scoppiati a ridere.
«Pezzo di merda! Sei tu che insegni a mio figlio queste cose», aveva detto rivolto a Bashkim. «Io non ci rimango in questo paese, finisco di pagare il mutuo e me ne torno in Albania. L’Italia mi sta facendo diventare la figlia puttana e il figlio frocio!»
Leggendo questo racconto, che come ho scritto si trova nella numero 4 della rivista “Effe”, consigliata vivamente, mi è venuta voglia di leggere altro, di Elvis Malaj. Non c’è molto, a dire il vero: è giovane e si sta affacciando ora sulla scena editoriale. So che ha scritto un romanzo, ancora inedito, dal titolo Il mare è rotondo. Se assomiglia a questo racconto, fortunato chi lo pubblicherà.
Si può disquisire sulla qualità letteraria di questo racconto – se i dialoghi sono perfettamente calibrati, se la trama evolve nel modo giusto (secondo me sì, ma è un punto di vista) – ma è impossibile non vedere che qui c’è un mondo nuovo, qualcosa che fino a una decina di anni fa non esisteva e che solo adesso qualcuno sta iniziando a raccontare. Leggendolo, ho improvvisamente avvertito la distanza tra quanto viene scritto e pubblicato dagli “italiani da sempre” e questo racconto – e ho provato a immaginare come sarà la letteratura italiana tra venti o trent’anni, e poi ho provato a domandarmi come vorrei che fosse, e ho iniziato a sperare che le opere di Malaj non siano un caso isolato, che esista, o che inizi a formarsi, una letteratura nuova, piena di contaminazioni, dove non è diversa la lingua, o l’intenzione, o la struttura, ma la materia stessa di cui si compone.
Per maggiori informazioni su Elvis Malaj (che per inciso è rappresentato da Oblique), consiglio questa bella intervista uscita su Stream un po’ di tempo fa.
possibile che tutti i gruppi in gamba suonassero quando io avevo quindici anni?
Sì
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Ah ah! Allora formulo meglio: possibile che tutti i gruppi in gamba suonassero quando ciascuno di noi aveva quindici anni, indipendentemente da quando siamo nati? 😉
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Confermo.
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Preciso anch’io allora.
Tu hai circa dieci anni meno di me ma i tuoi 15 restano all’interno del trentennio magico (60-70-80…. Con qualche propaggine negli anni ’90 poi il vuoto). I nostri genitori almeno potevano contare su Sinatra e gli anni 50, i nostri figli invece temo che potranno dire poco a meno che la musica peggiori ancora, cosa che sembra tecnicamente quasi impossibile!
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Può essere che ci sia un declino – tutte le cose belle finiscono, prima o poi. Ma il dubbio che ho è che i nostri genitori e i nostri nonni consideravano come un declino anche la musica dei Beatles, dei Led Zeppelin, dei Cure e dei Joy Division… Temo che sia inevitabile non trovare nella musica “nuova” quello che abbiamo trovato nella “nostra” – ma tutto il mondo è cambiato, e la musica con lui.
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Forse non è la musica a cambiare. Semplicemente, cambiamo noi. Io sono un tantino più giovane, credo, quel tanto che basta per essermi innamorata di Vasco e detestare tutti i cantanti usciti dai vari talent (tutti, incredibile!).. ma poi mi chiedo “Non sarà perché quel Vasco, in particolare quello di vent’anni fa o un po’ di più, mi ricorda quello che e che provavo negli anni più belli e disperati che poi appartengono a ognuno di noi?” Forse, la verità è che non smettiamo mai di voler essere quei ragazzi che eravamo, anche se magari le nostre vite ora sono fantastiche e realizzate. Ma quello che eravamo, beh, quello.. forse non si dovrebbe crescer mai.
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Ho letto un libro molto interessante sul cervello degli adolescenti – come funziona, quali obiettivi ha… Nel libro si diceva che l’evoluzione che interessa gli umani tra i 10 e i 20 anni é paragonabile a quella da 0 a 3 – un salto gigantesco. A cosa serve, l’adolescenza, da un punto di vista evolutivo? A fare esperienze per quelle che saranno le attività della vita adulta, come la caccia, la lotta, la sopravvivenza. Per garantire che l’adolescente faccia esperienza, che la cerchi, il cervello produce una quantità di sostanze che rendono eccitante ogni avventura, compresa quella della musica. Tutto viene moltiplicato per mille – la disperazione e la gioia. Poi, la vita si mette quieta. Prevalgono i grigi, dopo una certa età… Ma rimane il ricordo di quegli anni ruggenti, per tutta la vita!
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Esatto. E ci sembra poco! 😉
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Ciao Paolo, potresti suggerirmi il titolo del libro? (Così inizio a prepararmi)
Grazie 😊.
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Cara Barbara, è questo: http://www.lescienze.it/edicola/2015/09/01/news/il_cervello_adolescente-2727731/
un abbraccio
Paolo
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Grazie mille!
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