La Madonna dell’ascensore

mazziniUna delle conseguenze del passare del tempo è che a quarantasei anni mi ritrovo con quattro paia di occhiali, ciascuno con una diversa gradazione, da usare in base alle condizioni climatiche, all’ora del giorno, alle dimensioni dei caratteri che devo leggere (e comunque, la qualità della mia vista non è più quella di un tempo: nonostante tutte queste estensioni, vedo peggio di quanto vorrei). Due o tre mesi fa mi sono seduto su quelli più potenti, quelli da due diottrie, e una delle due stanghette si è rotta. Potenza della fisica applicata ai corpi. E alle stanghette. Sono diventati sbilenchi, i miei occhiali; qualche volta li ho usati comunque, nelle emergenze. Ieri mattina mi sono deciso finalmente ad andare dall’ottico a sistemarli. Mi sono fatto accompagnare da Matija, mio figlio, dieci anni.
Abbiamo parcheggiato in Piazza Mazzini, a mezzo chilometro dalla casa dove ho vissuto i miei primi diciannove anni. Insieme, abbiamo cercato il punto in cui Alessio, il mio migliore amico dell’infanzia, aveva infilato la testa nell’inferriata a protezione della statua di Mazzini, a tre anni (quindi nel 1973), sotto gli occhi increduli di suo nonno – era stato necessario l’intervento dei pompieri, o forse del vicino fruttivendolo, che avevano piegato la sbarra fino a farlo uscire. “Trattieni il pensiero”, gli avevano detto mentre lo sfilavano. Surrealismo padovano.

carmineDall’ottico tutto bene. Occhiali sistemati in cinque minuti. Siamo usciti. Davanti a noi, dall’altra parte della strada, l’imponenza della chiesa del Carmine. “Ti porto a vederla dentro, ok?”. Matija non aveva voglia ma ho insistito un po’. “Quando ero ragazzino, là facevo il chierichetto”. Mi ha guardato perplesso: “Cos’è un chirichetto?” “Sono quei bambini che aiutano il prete a fare la messa”. Per un attimo ho pensato che mi avrebbe chiesto cos’è un prete o cos’è una messa. Gli manca l’esperienza religiosa. (Oggi ho cercato su wikipedia una definizione più precisa di chierichetto: Giovinetto con l’abito talare per il servizio delle sacre funzioni. Sì, più o meno è così. Io suonavo la campanella mentre il prete sollevava il bicchiere d’oro con le particole dentro. Ero troppo piccolo per partecipare alla messa della domenica, quella in pompa magna: mi accontentavo di certe messe che padre Pio – non quel padre Pio: lui era un parroco sull’ottantina, un po’ intontito dall’età, con una dentiera troppo grande per la sua bocca, i gesti lenti – celebrava alle cinque del pomeriggio nei giorni feriali, quando un gruppetto di vecchiette si radunava nelle prime file, tutte con l’immancabile rosario in mano, a cercare una qualche forma di salvezza. Erano messe al rallentatore, senza omelia, di servizio se così si può dire. Ricordo il freddo cane che c’era in chiesa. Non passavamo neppure a raccogliere le offerte, che la domenica venivano infilate in un sacco di pelle marrone e poi versate in una specie di forziere all’entrata della sacrestia, facendo attenzione a non far sentire lo scroscio tintinnante delle monete che si riversavano dentro. Ma a maggio era bello, durante il mese dei fioretti: arrivavamo in chiesa con la maglietta e i pantaloncini corti, il pomeriggio, e andavamo nella saletta dove c’erano le tuniche che indossate erano freddissime e poi entravamo nell’altare da una porta di servizio – eravamo in tantissimi e lottavamo per avere quelle meno rotte; ed era bello anche nelle messe delle grandi occasioni, quando il nostro colore era il porpora).

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Nei cento metri che ci separavano dalla Chiesa, Matija mi ha chiesto se io andavo a messa, da bambino.
“Certo, tutte le domeniche”.
“Ma erano i nonni che ti obbligavano a essere cattolico?”
“Sì”.
“La nonna Irma [nonna materna] è sempre arrabbiata con i preti e le suore, però mamma andava a messa. Come mai?”
“Una volta era diverso. Se uno non veniva battezzato, se non andava in chiesa, era un po’ un problema. Ora è diverso”.I miei figli non sono battezzati e quindi, ovviamente, non hanno fatto tutti i sacramenti successivi. Io sono ateo (lo dico serenamente, senza alcuna presunzione di essere più furbo per questo) e Dunja, mia moglie, crede in qualcosa di diverso – meno definito, e sicuramente distante dal Dio cristiano. In queste condizioni, ci sembrava assurdo dare un’educazione cattolica ai nostri bambini – l’idea di partecipare alla cerimonia del battesimo fingendo qualcosa che non eravamo sarebbe stato offensivo per tutti, credenti inclusi. Ma non abbiamo preso una posizione netta, sull’argomento. Jurij, il figlio più grande, ha scoperto solo due anni fa, e con grandissima sorpresa, che io non credevo: la sua confessione di essere ateo, quindi, è stata sofferta, un coming out pieno di imbarazzo. Matija, invece, è su posizioni più moderate. Qualche giorno fa mi ha chiesto: “Papà, cosa significa la parola scettico?”. “Significa che una persona non è convinta che certe cose siano vere” – eravamo a tavola, a cena. “Be’, allora io in religione sono uno scettico“.

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Navata del Carmine, Padova

Siamo entrati in chiesa, io e il mio piccolo scettico. Ci siamo fatti il segno della croce (“quando entriamo a casa di qualcuno, dobbiamo salutare”), lui che mi spiava con la coda dell’occhio per timore di sbagliare la sequenza.
“La domenica mattina, alla messa delle dieci, la chiesa era così piena che noi, da ragazzi, ci mettavamo qui, alla fine, nelle ultime file. A quindici anni, rimanevamo addirittura in piedi” (ma onestamente non ricordo se era per la troppa gente o per iniziare a mettere un po’ di distanza tra noi e quei riti – un piede vicino alla porta d’uscita). Abbiamo dato un’occhiata alle diverse cappelle che si aprono ai lati dell’unica, ampia navata. C’era anche una Madonna tutta illuminata davanti alla quale ci siamo fatti fotografare io, mio fratello Fausto, mio nonno e mio zio Renato il giorno della nostra Cresima (credo fosse l’autunno del 1983), un momento al quale associo ricordi piuttosto crepuscolari: tempo orrendo, io che ormai mi ero convinto di essere una specie di impostore, la sensazione che la metà dei presenti stesse recitando per motivi che mi sfuggivano…
“Qui, invece” – nel frattempo eravamo arrivati alle prime file  – “ci sedevamo quando eravamo bambini. Sempre sul lato destro”.
“Questi, a cosa servono?”. Mi ha indicato i cuscini imbottiti che si possono far scendere in corrispondenza del poggiapiedi.
“Per inginocchiarsi”.
Matija ne ha tirato giù uno, si è inginocchiato e ha iniziato a imitare un adoratore di qualcosa, le braccia in avanti, su e giù. L’ho fermato. Per lui – e me ne rendo conto solo ora – non c’è alcuna differenza tra una religione e l’altra: l’impressione che dà è che per lui siano tutte caratterizzate da pratiche un po’ ridicole, e forse senza senso. Com’è crescere privi di un senso religioso?

vergine-barbutaSi fa sempre fatica a capire cosa resterà del tempo in cui si vive. Gli anni ottanta esistono ora, nel 2016, ma mentre li vivevamo non avevano alcun significato particolare: la musica era semplicemente la musica di quel tempo, e ce n’era molta di più, e molto più varia, di quanto crediamo ora. E si parlava di ottimismo reaganiano, me lo ricordo, ma come un tormentone, un modo di dire: io, ad esempio, ero triste per la tormentata storia d’amore con una mia compagna di classe, e non mi sono accorto di tutta quell’allegria (che invece ora, a posteriori, riesco a riconoscere). Di questo ventunesimo secolo appena iniziato, cosa si può dire? Che Internet ci ha cambiato la vita? Che gli smartphone hanno trasformato totalmente le nostre abitudini? Guardo i miei figli, e percepisco nettamente un salto generazionale enorme, un cambio di paradigma che forse non ha precedenti nella storia del mondo; ma ancora non mi è chiaro cosa rimarrà davvero, di questi anni. Forse, lo sto pensando ora, il fatto che per la prima volta nella storia del mondo esista una generazione che può crescere senza ricevere alcun tipo di educazione religiosa. Mio padre, che pure è ateo (seppure con qualche riserva), mi ha mandato a catechismo per otto anni, e a messa tutte le domeniche. Il suo obiettivo dichiarato era quello di evitare che guardassimo alla religione con lo sguardo romantico che si riserva alle cose poco conosciute: studiate cosa dicono i preti, diceva, così non avrete mai la tentazione di cadere tra le bracccia della Chiesa. (A catechismo, oltre ai principi fondanti della teologia, si raccontavano anche storie educative sul tipo di questa: Santa Paola, detta la barbuta, fin da bambina aveva deciso di consacrarsi a Dio. All’età in cui le fanciulle pensano all’amore, lei dedicava il suo tempo all’unico amato, il suo Signore. Ma era bella. Un giorno, un giovane spasimante la inseguì, pazzo di desiderio. Paola si rifugiò in una cappella, abbracciò fortemente il crocefisso e supplicò il soccorso. Immediatamente sul suo bel viso le spuntarono barba e baffi, cosa che fece desistere l’inseguitore). Ora, non esiste neppure questo timore – mio padre, se fosse padre di bambini piccoli in questi anni, dormirebbe tranquillo. La sensazione è che la Chiesa non possieda più alcun tipo di appeal – e il fatto che il problema possa essere presentato in questi termini, che abbia senso parlare di religione e di appeal senza avvertire l’orrore di un simile accostamento, potrebbe essere una di quelle qualità, di quelle caratteristiche, che, tra venti o trent’anni, riconosceremo come peculiari di questi anni.

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Il mio asilo

Ci siamo seduti. Lui, sempre impaziente, mi chiedeva quando saremmo tornati a casa. Io, invece, ho alzato lo sguardo, nell’esatta posizione in cui mi sono trovato per anni, e ho incrociato gli affreschi che si estendono sulle due pareti laterali. Li ho visti a ogni età: a tre o quattro anni, quando le suore dell’asilo accanto ci portavano a fare qualcosa tipo pregare, là dentro – ricordo il sonno post prandiale, la luce del sole pomeridiano, e soprattutto l’idea che avevo del tempo: vaga, imprecisa, e straordinariamente intima; a otto anni, durante i preparativi alla comunione; a undici, a settembre, ogni mattina prima di iniziare le competizioni delle Olimpiadi del Carmine, l’evento sportivo che aspettavo con ansia per tutto l’anno; e poi da ragazzo, ormai disincantato. Gli anni hanno consumato il senso dello stupore, che forse è l’essenza stessa della religione. L’affresco nel quale Gesù con l’aureola d’oro in testa, affacciato a una terrazza che da bambino ero convinto fosse quella della casa della mia maestra, indica qualcosa, in fondo, a sinistra, a una schiera di angeli che galleggiano su una montagna di nuvole rosa… dove stavano andando? Cosa avevano visto? A distanza di trenta o quarant’anni, mi sono sorpreso a riconoscere ogni singolo viso. Probabilmente c’è stato un tempo in cui ero convinto che avessero un nome, e forse avevo provato a dargliene uno. Mi sfuggiva il significato di quella rappresentazione, e questo era esattamente il nocciolo del mio senso religioso. Non sono mai stato un vero credente – prima ero troppo piccolo per pormi seriamente il problema, poi, quando sono stato in grado di pormi la domanda, la risposta era stata quasi subito un rispettoso no – ma per molti anni ho avvertito la trascendenza di ciò che vedevo con la forza della mia ingenuità. Non ero stupido, a tre anni: così come il tempo scorreva secondo regole interiori, anche il mio mondo era organizzato sulla base di una visione del tutto personale, ancora in grado di scorgere il soprannaturale, di acccettarlo senza imbarazzo, confondendolo con tutte le altre forme che esso assumeva: la rifrazione della luce nel cubo di vetro che pendeva dal filo delle tende del salotto, i buchini dei tarli sul parquet della camera di mio fratello, le storie di miracoli che ci raccontavamo tra bambini, il Gesù che, crocefisso all’entrata della chiesa, ci guardava imperturbabile. Perfino l’odore delle vesti bianche delle suore aveva qualcosa di metafisico: perfino il moccio che colava dal naso quando si piangeva per le loro sberle.

Poco dopo Matija mi ha detto che davvero non ne poteva più: per lui quel posto non aveva alcun significato. Ancora dieci secondi, gli ho detto. Cercavo qualcosa della quale ricordavo la sensazione, ma non il contenuto. Ho guardato ancora in alto e finalmente ho trovato. “Guarda, Matija, guarda là”.
Eccola: una donna con una veste grigia che sta passando attraverso una porta dalle geometrie rigide; dietro di lei, il buio. Il mio mistero più bello, il più antico: la Madonna che esce da un ascensore. Credo quia absurdum est!
“Avevi mai visto una cosa simile?”
Matija mi guarda sospettoso.
“Quella è la Madonna dell’ascensore. E’ un quadro famoso, l’unico di questo tipo”.
Lui ha sorriso, indeciso se credermi o no. Gli ho sorriso anch’io. Poi ho messo una mano sulla spalla di mio figlio, ci siamo alzati; all’uscita ci siamo girati verso l’altare e abbiamo salutato con il segno della croce e insieme ce ne siamo tornati a casa.

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Credo quia absurdum est (Tertulliano)

10 commenti Aggiungi il tuo

  1. Amanda ha detto:

    La madonna dell’ascensore 🙂

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  2. ili6 ha detto:

    “… il senso dello stupore, che forse è l’essenza stessa della religione.” Oggi i bambini crescono con sempre minor stupore e incanto, e non solo di tipo religioso. Non è un bene. L’essere umano ha bisogno anche di questo, assurdo compreso.I percorsi e le scelte, poi, saranno più completi.
    Sinceramente non so dirti, ma ciò che ha caratterizzato e sta caratterizzando questi giovani degli anni novanta e di oggi tanto sbandati, tutti alcol e droghe, è la disgregazione delle famiglie e l’allontanamento dalle chiese, dalle parrocchie e dai loro assurdi e surreali, ma in fondo puliti e sani, centri di aggregazione. Io, come te, li ho frequentati, ora non più e sono cresciuta senza tanti scossoni.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Non sono sicuro che i bambini abbiamo perso del tutto il senso dello stupore – semplicemente, non si applica al soprannaturale, al divino.
      Sulla disgregazione delle famiglie sono d’accordo; e anche se penso che gli obiettivi delle parrocchie non fossero del tutto scevri da seconde intenzioni, dispiace anche a me che si siano svuotate (anche se non del tutto: a Padova rimangono ancora i più importanti centri di aggregazione). Non credo che le parrocchie facciano male, ecco. Ed è meglio che ci siano piuttosto che tutto sia governato dalle leggi di mercato…. ma sto andando un po’ fuori tema. Conosco diverse persone che hanno frequentato le parrocchie e che poi sono cresciute con tanti scossoni. Forse la formula per crescere bene non la sa nessuno…
      ps d’accordo con te su Alcesti! 😉

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      1. ili6 ha detto:

        No, certo, non del tutto per fortuna, ma nei bambini il senso dello stupore verso le piccole e grandi cose che ci circondano si è assottigliato alquanto per ingrassarsi fortemente verso tutto ciò che sa di digitale, tecnologico e spettacolare. Ho accompagnato sei generazioni di bambini e se penso a come erano i primi, i secondi e come sono questi ultimi dell’età di Matija…la differenza è netta. Non è la religione il discorso, non solo, è tutto il contesto familiare e sociale che è mutato. Questi ultimi sono intelligentissimi, capaci, carichi di mille informazioni che però gli sfuggono e non sanno indirizzare, impazienti, pensierosi e spesso annoiati. Forse siamo noi adulti a dover cambiare il modo e il contenuto della relazione, anche scolasticamente, ma credimi quando ti dico che spesso, da maestra, mi manca la loro ingenuità, la curiosità per la semplicità e quello stupore che apre naturalmente e serenamente alla crescita.

        Che tuo figlio ti abbia accompagnato in una chiesa alla ricerca di tuoi antichi ricordi e sensazioni e ti abbia seguito senza estraniarsi in un angolo con il suo telefonino è già una gran cosa.

        Ps: grazie 🙂

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  3. Zio Scriba ha detto:

    Un pezzo davvero bello, ricco di spunti, toccante e divertente, come sempre quando ci sono di mezzo i bambini e/o i nostri ricordi d’infanzia (in questo caso si sovrappongono, in modo molto tenero). E io che credevo di averla inventata da ragazzino, la battuta dell’ascensore al posto dell’Ascensione… 🙂
    Mi piacciono tutte le tue parole, anche se non concordo con un passo: quello del segno della croce come adeguato saluto in quel certo luogo. Io lo troverei (se fatto da me) un aderire e un sottomettersi a una gestualità obbligatoria, che ci è stata inculcata da piccoli e dalla quale magari ci siamo “liberati” a fatica e a caro prezzo. In genere detesto tutte queste gestualità rituali, legate sia alle religioni che alle ideologie. Se entro in una chiesa (o in un cimitero) sono tenuto al Rispetto e a un adeguato contegno (così come in qualsiasi altro luogo, edificio e casa che non mi appartenga) ma non a comportarmi come se ne facessi parte col cuore e con l’anima. Anche perché potrebbe essere considerata erroneamente come dichiarazione d’appartenenza, come fuorviante e malintesa testimonianza (o peggio ancora come conformismo). Se ho un amico comunista ma non sono comunista, rispetto le sue idee, ma quando lo incontro non mostro il pugno chiuso, gli dico ciao e gli stringo la mano. Altrimenti non penserebbero che lo sto “rispettando”, ma che mi sto dichiarando comunista anch’io. Una volta due vecchie bigotte dalla faccia cattiva hanno scosso ostentatamente il capo al mio indirizzo vedendo che ero entrato al cimitero senza fermarmi a fare quel segno: il loro comportamento mi ha fatto capire che la mia era stata una giusta testimonianza di non adesione, una presa di distanza da loro. Un’altra volta mi sono trovato a tavola con un missionario che ha voluto “benedire” il pasto prima di cominciare. Per rispetto mi sono alzato in piedi anch’io. Ma quel segno, da parte mia, MAI. [Questo non significa che mi permetta di disapprovarti, ci mancherebbe: era solo per esprimere il mio pensiero sulla faccenda]
    Un abbraccio, e a presto!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Caro Nicola, capisco il tuo punto di vista sul segno della croce. Io, ad esempio (a differenza di quanto facevo una volta), se mi trovo coinvolto in una messa – matrimonio o funerale che sia – evito di pregare, di fare il “mea culpa”, ecc ecc: non avrebbe senso.
      Sul segno della croce all’entrata, credo di percepirlo in modo diverso dal tuo: non come un atto di fede, ma come un gesto di buona educazione. Sto entrando in un luogo di culto. Se entrassi in una moschea, mi toglierei le scarpe; in Chiesa, saluto secondo la forma prevista da questo luogo. Non intingo la mano nell’acqua santa, che per me è solo acqua. Nella sostanza, credo che siamo d’accordo.
      Un abbraccio, ci vediamo tra poco! 🙂

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  4. Renato ha detto:

    Me lo sono proprio goduto, questo post. Naturalmente conosco ogni dettaglio di quelli da te raccontati (a parte il fatto che Alessio fosse rimasto incastrato nell’inferriata di Mazzini 🙂 ).
    Certo che descritta da te, Paolo, ogni cosa assume un colore speciale.
    La madonna dell’ascensore era tra le mie figure preferite, perché mi dava il senso familiare della modernità in mezzo a cose per me antiche, ma tutte mi facevano una gran compagnia durante le prediche.
    Aggiungo solo che, fortunatamente, la mia educazione religiosa non ha contemplato Sante Paole barbute ma aspetti più interessanti (l’amore, per esempio).

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      🙂 l’amore c’era anche nella mia educazione cattolica! ma la santa barbuta era la mia preferita…
      Una curiosità: quali libri di catechismo vengono utilizzati, adesso? Io ricordo quelli quadrati, con due colori diversi – un primo volume per i primi due anni, un altro per gli ultimi tre. I disegni non erano in uno stile infantile – a mio parere giustamente. Ora come sono? La mia speranza è che non si siano adeguati al gusto contemporaneo…

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      1. Renato ha detto:

        Sui testi del catechismo non sono ben informato, sicuramente ora sono meno importanti, si cerca di utilizzare giochi ed attività. Prometto di essere più preciso in seguito. Magari ne porterò uno da Corradino 🙂

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  5. Fabio Piero Fracasso ha detto:

    Sento mio quanto dici sul segno della croce: Anzi, direi di più: l’intima consonanza con un passato di gesti rituali, senza che, tuttavia, ciò si trasformi in una più marcata adesione formale (quale, ad esempio, sarebbe il mea culpa).
    Trovo le tue descrizioni di una soffusa tenerezza e penso a mia figlia, la cui levità trasforma gesti e riti in una personale ed intima adesione all’atmosfera che vive (penso alla comunione dell’anno scorso). io ero un disastro, con arie da eretico e sufficienza dell’età. Brano molto bello. Grazie

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