Assestamenti

Credo che ognuno abbia un’idea di quale sia, da un punto di vista soggettivo, la cosa più triste del mondo – non sto parlando della più dolorosa né della più tragica: la tristezza può accompagnare eventi  minori, quasi minimi, ed essere gigantesca. La mia idea della cosa più triste del mondo si è formata in seconda media, si è cristallizzata in una forma astratta, e mi si ripropone, come immagine, in mille occasioni. Festa delle medie – avevo l’età che ha mio figlio più grande adesso, e devo dire che la cosa mi sembra abbastanza inverosimile. Seconda media, per essere preciso. L’anno di mezzo. Gli ormoni incasinati (anche se io a questa storia degli ormoni non ci ho mai creduto: possibile che tutto quel rivoltamento dipendesse solo dai testicoli che andavano ingrossandosi?). Il passaggio dall’innamoramento etereo, fiabesco, cenerentolesco (anche se si tratta di una semplificazione grossolana: c’erano tracce di sesso già nel mio desiderio seienne), a quello più carnale, fatto di quelle limonate e di quelle palpate di cui qualcuno già iniziava a parlare. Io, al momento, ne ero ancora escluso ma avevo la certezza – cioè più di una semplice speranza – che era solo questione di tempo: di poco tempo. paradiseLa festa delle medie era stata organizzata dal basso, senza l’appoggio dei genitori, nel garage di Tommaso, con lo stereo di mio fratello che un tempo era stato di mio padre, le luci stroboscopiche (!) di mio fratello, sempre  lo stesso, che aveva iniziato ad esistere, nel senso ontologico del termine, nel 1978 con l’uscita al cinema de “La febbre del sabato sera” (a me mi aveva fottuto “Il tempo delle mele”, e questo spiega, ahimè, molte cose), i tramezzini fatti da noi, la cassetta con i lenti… Cosa c’era dentro quella cassetta? Sicuramente “Reality” di Richard Sanderson. Forse “Old and wise” degli Alan Parson Project, una mia scoperta personale. “Paradise”, colonna sonora dell’omonimo film con Phoebe Cates, che non era proprio un lento ma ricordava quel film che nella primavera dell’anno precedente avevo visto al cinema con un’amica e due amici – che senso aveva avuto quel pomeriggio? Cosa avevo sperato, allora? Comunque, avevo riposto grandi speranze su quella festa. Non speranze concrete – non avevo alcuna strategia – ma avevo il sentore che sarebbe successo qualcosa con qualcuna – non una a caso, ma una compagna di classe della quale non ero innamorato, ma che, in un modo ingenuo e informe, desideravo.

Quel giorno sbagliai tutto, e i miei errori non furono casuali ma il frutto di un’idea distorta del mondo. Scelsi una camicia azzurra, un maglioncino blu e (dodici anni, lo voglio ricordare) la cravatta. E profumo di mia mamma, perché a casa non ce n’erano altri. Iniziò la festa, si formarono le prime copie e come in quel gioco delle sedie in cui tutti girano e poi ci si siede e uno rimane in piedi, ecco, quello rimasto in piedi ero io. brufoliA dire il vero, mi trovato in buona compagnia – diciamo che il 90% dei miei compagni era nella mia stessa situazione. Avevano più o meno tutti qualche problema di brufoli, di nasi cresciuti troppo in fretta, di voci stridule e soprattutto di nessuna esperienza sentimentale. Ma io, fino a poche ore prima ero convinto di far parte di quel 10% che, dopo un lento, poteva ritirarsi nel piccolo sgabuzzino del garage per limonare un po’.
Fu una rivelazione mostruosa: io ero uno sfigato! Fino ad allora non me ne ero reso conto. Ora lo sapevo. Ed ecco la mia idea di tristezza: vestirsi con la convinzione che le cose andranno bene, e poi trovarsi con gli stessi vestiti in una specie di incubo nella quale quei vestiti non c’entrano nulla. E’ come si sentivnao i tizi in smoking nelle scialuppe di salvataggio del Titanic appena colato a picco; è come un paio di mutandine molto sexy indossate per un ragazzo che non si è fatto nemmeno vedere: come deve essere, togliersele, la sera? Come si sopporta l’enorme sproporzione tra speranza e realtà? Io lo so: la si sopporta molto male. Piangendo, a dodici anni. Girare per le vie del mio quartiere, con il maglione e la cravatta, in febbraio, sentendo in lontananza il rumore della festa, e sapere di non farne parte per me è la definizione più precisa di “tristezza”.

testosteroneLa sera, stavo già meglio. Le delusioni di quegli anni si assorbono in fretta, forse per la convinzione tutta adolescenziale che ci sia un sacco di tempo davanti. E comunque c’era sempre il calcio, a riempire la mia vita. Però lo capii bene, chiaramente, e per certi versi irreversibilmente, in quale parte del diagramma degli amori facili mi trovavo: quadrante in basso a sinistra. Ho dovuto rivedere la mia folle idea di mondo secondo la quale le ragazze cercavano ragazzi bravi a scuola e molto responsabili. Servivano doti che non avevo – e che non avrei mai avuto.
Poi sono passati i mesi. Le compagne di classe si trasformavano da Biancaneve a Jennifer Beals, protagonista di Flashdance, nel giro di una settimana. Era come se fossimo stati abbandonati in un’isola deserta a dieci anni, e insieme scoprissimo che non eravamo più bambini. Non successe nulla – erano gli anni ottanta, il sesso era ancora una cosa da quindicenni – ma cambiammo. E nella primavera del 1984, quindi un anno dopo, e dopo qualche mese di invernale depressione – la mia prima – mi ritovai in una situazione curiosa. I ragazzi che piacevano alle ragazze, nella mia classe, erano due o tre – troppo pochi per soddisfare tutte. L’anno prima ero stato respinto; l’anno dopo diverse compagne di classe stavano sperimentando quello stesso dispiacere. E le cose cambiarono: non tutte erano disposte a rimanere sole e io, ai primi posti tra le seconde scelte, improvvisamente iniziai ad avere un’esistenza agli occhi di qualcuno. Ce n’erano due, in particolare, che sembravano interessate a me: una secchiona con i voti in picchiata, e una simpatica zuccona sempre allegra e un po’ svampita. mano-sul-culoAlle feste delle medie, i balli con loro si erano fatti più stretti, più intimi, seppure ancora del tutto innocenti. Era la mia prima occasione. Ricordo ancora un istante preciso della mia vita: la location era sempre il garage di Tommaso, che pochi mesi dopo si sarebbe trasferito a Roma, ma era estate e la porta basculante era aperta. Io ballavo con la zuccona. Due amici, molto più svegli di me, mi facevano segno di metterle una mano sul culo, come dire: è pronta, non lo vedi?

Ma non successe nulla. La zuccona e la secchiona erano simpatiche, ma improvvisamente capii qual era il motivo che le spingeva da me: si stavano accontendando. Ho sempre pensato che l’orgoglio sia ampiamente sopravvalutato; e infatti non fu per orgoglio che mi tirari indietro. All’assestamento dell’anno precedente, ne stava succedendo un altro, forse più sorprendente. Stavo capendo che nella frase “avere qualcuno accanto”, la parola “qualcuno” indicava una persona specifica. A quattordici anni non ancora compiuti, avevo colto una piccola verità che di solito nelle fiabe arriva un po’ dopo: l’amore non era cieco. Con mia stessa sorpresa, scoprii che ero disposto a rimanere senza “la morosa”, come si diceva dalle mie parti, piuttosto che avere quella sbagliata. Successe più o meno lo stesso l’anno dopo, in quarta ginnasio. Ci furono dei quid pro quo con una compagna di classe, una sequenza talmente lunga di cose riferite per errore che mi trovai a una festa (questa volta non più di Tommaso), all’aperto, sempre in febbraio, di fronte a una dichiarazione d’amore (la prima! ricordo che c’era la luna piena e io avevo freddo). Anche allora preferii rimanere per conto mio. Non pensavo di meritare di più, o che lei non fosse alla mia altezza. Non pensai proprio nulla, a dire il vero. Sapevo che non volevo, e questo era più che sufficiente.

bungy-jumping-tirol.jpgPoi ci sono stati tanti altri assestamenti. Se dovessi fare un bilancio dell’amore nei miei primi trent’anni di vita, non saprei bene che dire: lo si può davvero separare dal dolore, a quell’età? Fu più romantico di quanto avrei voluto – e quando parlo di romanticismo, intendo cose tipo Romeo e Giulietta, o Abelardo ed Eloisa, non i biglietti che si trovano nei baci Perugina. Da ragazzi si è come dei tir senza freni – lo siamo tutti, comprese le persone che si sceglie di amare. Ci furono disastri terrificanti, e cicatrici che non mi fa per niente piacere rivedere. E poi si cresce. Si impara a convivere con le passioni, a gestirle: detta così, sembra un po’ una sconfitta, ma è come domare un cavallo, o imparare a guidare la macchina. Si perde qualcosa, e se ne guadagna un’altra. Si adeguano le aspettative alla realtà, più che cercare di fare il contrario; e questo, bisogna ammetterlo, è molto saggio. Nella narrazione della propria vita, si cerca anche di mettere le cose a posto – la memoria agisce retroattivamente, modificando i fatti a posteriori secondo le nostre esigenze di oggi. Ma se ci penso bene, quel ragazzino di dodici anni con la cravatta che si era scontrato contro il mondo, e si era fatto male, non se ne è mai voluto andare.

flashdance-hero

6 commenti Aggiungi il tuo

  1. Eleonora Ingrassia ha detto:

    Piaciuto tanto tanto. Ti leggo sempre e non commento mai. Pero’ ecco io voglio chiederti perche’ le foto! Sono brutte brutte. Consiglio cc search, per cercare su flickr foto libere da diritti che puoi inserire nei tuoi articoli linkando l’originale. Hai foto più belle e fai pubblicità a giovani fotografi/e! 😉

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Ah ah! Mi piace un sacco la tua schiettezza! 🙂
      Perché le foto brutte? Per due motivi. Il primo, più banale: non ho alcun talento estetico. Vedo blog con una coerenza stilistica pazzesca, e che a me piacciono un sacco. Io non saprei dare uno stile “visivo” al mio blog, una connotazione estetica coerente….
      Il secondo, più ideologico: quando ho iniziato ad avere un blog, più di dieci anni fa, mi guardavo intorno e vedevo cosa mi piaceva e cosa no. In particolare c’erano due blog di due autrici, entrambe molto brave (credo), che riempivano i loro post con delle foto stupende. Il risultato era davvero notevole. Poi una volta ho preso uno di questi post, ho fatto copia e incolla del testo, l’ho messo su notepad e l’ho letto: non stava in piedi. Mi sono detto che i miei post dovevano stare in piedi da soli, senza l’aiuto di foto bellissime… Le parole si dovevano bastare.
      Io quindi procedo così: scrivo il post, poi cerco di piazzare qualche foto qua e là, una volta a destra, una volta a sinistra, semplicemente per “nascondere” la reale lunghezza del post (generalmente sempre troppo lunghi per gli standard di lettura su Internet). Penso a una parola chiave (in questo post: “paradise film”, “testosterone”, “brufoli”, “mano sul culo”, “flashdance”), la cerco su Google, prendo uno dei primi cinque o sei risultati (solitamente il più brutto), e piazzo la foto nel testo. Mi rendo conto che il risultato è sgradevole, ma c’è un po’ di consapevolezza in questo: niente trucchetti. 😉
      Comunque alla fine mi hai convinto, ho trovato CcSearch, vedo se dal prossimo riesco a fare un po’ meglio! 😉
      Grazie ancora per il commento!

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      1. Eleonora Ingrassia ha detto:

        Io ti leggo su smartphone, quindi né destra né sinistra! Ma non avevo mai notato foto… e ieri sono state tipo un pugno agli occhi. Non avevo dubbi ci fosse consapevolezza, ma erano talmente banali rispetto a un contenuto ben diverso che mi sono chiesta se avessero un intento ironico! In pratica “spezzavano” il testo, si, ma per trasportarmi altrove (tipo in quegli articoli 10 rimedi contro xy, le 20 cose che le donne odiano di più ecc)… che poi per alcuni esempi andava bene (brufolo) mentre su altri ero proprio interdetta 🙂

        Comunque se il problema è la lunghezza anche corsivo e grassetto possono funzionare!

        Scusa ancora eh, solo che mi hanno colpito veramente tanto! 😀

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  2. viccavdo ha detto:

    Bell’articolo. Anche la scelta delle foto.

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  3. szandri ha detto:

    Avevo un scritto un commento articolato, ma alla fine ho cancellato tutto. In realtà l’unica cosa che mi importava dire é che ho letto il post tre volte e che lo trovò molto, molto bello. Contiene delle piccole verità universali e mentre leggevo vedevo i fotogrammi scorrere, come in un film.

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  4. S tím potvrzením z pracáku jsem poprvé musela osobně, po druhé a se změnou trvalé adresy by jim prý stačil ofocený doklad poslaný mejlem, ale nemám, jak to ofotit.

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