Un libro sopravvalutato

Credo che più o meno tutti, ogni tanto, si divertano a stilare classifiche in cui raccogliere i film più sopravvalutati, le donne più sottovalutate, le città inspiegabilmente più famose, e via dicendo. E’ un piccolo gioco in cui ci si diverte a provocare colpendo quelli che per molti sono i mostri sacri. Io, talvolta, lo faccio con i libri. Mi piace, ad esempio, ribadire in ogni occasione che “Norwegian wood” di Murakami è un romanzo inutile – potrebbe ridursi a dieci pagine o contenerne mille, e non cambierebbe nulla; oppure sottolineare che Don De Lillo, che pure avrebbe tutti i requisti per essere amato da un lettore come me, è un autore privo di un vero talento o che, quanto meno, gli manca completamente la dimensione dell’ironia, colonna portante del romanzo occidentale. Non me la prendo mai con gli autori poco noti che non mi hanno convinto, perché attaccare uno sconosciuto è una cattiveria gratuita: scelgo obiettivi giganteschi sui quali le onde del mio sarcasmo si abbattono senza lasciare traccia.

b644113a28c86e598139182235053c4b-294x300Ma se dovessi indicare il numero uno tra i libri inspiegabilmente considerati dei capolavori, se dovessi scegliere il romanzo per il quale la distanza tra il suo valore letterario e la considerazione che ha tra i lettori, non avrei alcun dubbio: “La fattoria degli animali” di George Orwell. Su Wikipedia si legge che è un romanzo satirico scritto nel 1945 e pubblicato due anni dopo, nel 1947, prima, dunque, di “1984”. E’ la storia di una fattoria dove alcuni animali compiono una rivoluzione che va a finire male. Sempre su Wikipedia trovo uno schema che spiega la corrispondenza tra gli animali e le corrispondenti figure umane: il vecchio maiale, ad esempio, detto il Vecchio Maggiore, è il leader della rivoluzione. Ecco un dettaglio su di lui:

Il discorso da lui pronunciato introduce le teoria dell’Animalismo secondo la quale il lavoro di un animale produce più valore di quello necessario al suo mantenimento, e il surplus viene rubato dall’uomo parassita.

C’è poi Napoleone:

Napoleone è un opportunista e un despota la cui crudele determinazione e capacità di persuadere gli animali meno intelligenti con l’eloquenza compensa una certa mancanza di intelligenza.

A quale figura storica si sarà mai ispirato, Orwell, per il personaggio di Napoleone? Wikipedia ci rivela la soluzione, facendo un clamoroso spoiler: a Napoleone Bonaparte! C’è poi Clarinetto, tradotto anche come Piffero, un altro maiale che è il propagandista di Napoleone. Parla per mezze verità, omissioni e vere e proprie bugie. Egli fornisce le illusioni che aiutano i lavoratori a sopportare la dura esistenza e lo sfruttamento da parte dei maiali. 

maxresdefaultCome nelle favole di Esopo, Orwell usa gli animali per raccontare una qualche verità sugli uomini; come Walt Disney, però, dimentica subito il punto di partenza e si sposta immediatamente in un mondo che di animalesco non ha più nulla. Il lupo che nelle favole di Esopo accusa la pecora di rubargli l’acqua, nonostante lui stia bevendo a monte, è un lupo fino in fondo; e nel suo essere lupo, rivela qualcosa sulla nostra natura. Ma in che modo Piffero è un animale? Prendiamo Minimus, il poeta che canta le gesta di Napoleone, e che rappresenta l’intellettuale asservito al potere dittatoriale disposto a mettere la sua cultura al servizio della propaganda: è un maiale tanto quanto Topolino è un topo, nonna Papera una papera o la povera Clarabella una vacca.

La metafora rientra tra gli strumenti con la quale la mente umana rappresenta la realtà. Ci sono studi piuttosto interessanti, in merito  – e seppure in modo non sempre sistematico, “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” di Julian Jaynes affronta la questione con grandisismo acume. Noi continuiamo a ricondurre il mondo che ci circonda a una narrazione fatta di oggetti concreti, con una sistematicità della quale non siamo coscienti. Quando diciamo “oggi sono su”, oppure “non sono mai caduto così in basso”, o “mi sembra di volare” o al contrario “mi sento sprofondare”, stiamo parlando del nostro stato d’animo usando le idee che abbiamo sullo spazio; e non ci accorgiamo più che le frasi “afferrare un’occasione”, “siamo stati messi in un angolo”, “hai avuto un’idea brillante”, “vediamo una buona opportunità” usano espressioni concrete per parlare di situazioni astratte. Senza le metafore, la comunicazione sarebbe quasi impossibile; e non è un caso che l’insegnamento iniziale si basi su metafore, similitudini e fiabe.
Bijection.svgIl punto, però, è che “La fattoria degli animali” dovrebbe essere un romanzo, non un manuale di storia per bambini dell’asilo o per adulti ritardati. L’uso della metafora che fa Orwell si limita a sostituire gli uomini con degli animali; scivola quasi subito nell’allegoria, che però è del tutto meccanica. Esiste una relazione biunivoca tra ogni personaggio della fattoria e il suo corrispondente “tipo umano” e tale relazione è sempre la più ovvia: le pecore sono la massa timorosa che si lascia manipolare, i cani la polizia serva del potere, le galline sono le operaie sfruttate. A cosa serve tutta questa costruzione? Non ci rivela nulla che non sapevamo già; non aggiunge niente e, cosa a questo punto ancora più grave, non riesce neppure a fornire un’utile semplificazione. Secondo le intenzioni di Orwell, cosa dovrebbe fare il lettore? Divertirsi a risolvere questo ingenuo indovinello? Scoprire il volto crudele del potere leggendo il volto crudele del potere esercitato da un manipolo di maiali, che instaura una dittatura di stampo sovietico in una fattoria inglese? Stupirsi per un esercizio così futile, pedissequo, sterile?

Kafka1906Per capire la pochezza di questo libro, la sua povertà dal punto di vista artistico, può essere utile fare riferimento a un altro romanzo scritto qualche decina di anni prima, e pubblicato postumo: “Il processo” di Franz Kafka. Unico tra i romanzi di Kafka a presentare un finale nel senso tecnico del termine, “Il processo” (credo lo sappiano tutti) racconta la storia di un uomo che viene trascinato in tribunale per un’accusa che non gli é dato di conoscere. Di cosa parla, questo libro? La prima volta che l’ho letto, nell’estate del 1983, avevo intravisto l’oscura minaccia del potere che ingoia nelle sue pastoie il cittadino comune; ai primi anni novanta, alla prima rilettura, avevo improvvisamente capito che stava parlando della tubercolosi che aveva colpito Kafka; poi, il 15 agosto del 1999, mentre lo leggevo ai bordi della piscina Columbus di Abano, con il cuore pieno di disperazione per una storia d’amore che stava finendo dopo un sacco di anni, mi sono convinto che quella di Joseph K. fosse la rappresentazione di un uomo che era stato lasciato dalla donna amata e che non poteva in nessun modo opporsi al suo destino; e solo di recente ho pensato che forse “Il processo” parla semplicemente della vita, della colpa di essere nati che prima o poi finiremo per scontare.
Nessuna di queste interpretazioni è, tuttavia, quella giusta, perché a differenza de “La fattoria degli animali”, questo romanzo non è un’allegoria; potrebbe essere una metafora, ma l’oggetto “metaforizzato”, se si può usare questo termine, non è espressamente dichiarato, e non è noto. “Il processo” rimanda, probabilmente, a qualcosa che si muove dentro di noi da sempre e alla quale non siamo mai riusciti a dare un nome ben preciso, un archetipo che probabilmente ha a che fare con l’ineluttabilità della morte o con l’impossibilità di esercitare un controllo sul mondo, o sui sistemi di potere che inevitabilmente tendono a schiacciare l’individuo. Ed è proprio su questo punto che “Il processo” batte “La fattoria” per cento a zero: l’orrore di cui parla Kafka è assoluto e fuori dal tempo, e si può applicare tanto all’impero romano, con le folli e arbitrarie sentenze di Tiberio, quanto alla dittatura di Stalin che, quando Kafka scriveva il suo romanzo, doveva ancora iniziare; quello raccontato di Orwell, invece, è la versione ridicola di un periodo storico ben preciso, e, con la sua inutile e ragionieristica precisione tassonomica, finisce per parlare solo di quello. C’è una differenza sostanziale, e gigantesca, tra questi due romanzi: “Il processo” parla di qualcosa di trascendente, “La fattoria” no. Ecco; la trascendenza. Sarà che è tutta l’estate che leggo Bellow, ma improvvisamente mi sono reso conto che è questo l’aspetto che caratterizza tutti i grandi romanzi, e che manca a quelli verso i quali non provo alcun interesse. Ma di questo, però, ne parlo nel prossimo post. 🙂

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  1. Andrea Siviero ha detto:

    Altri due punti di vista su Kafka e “Il processo”:

    “Lei ha letto il processo, mi disse Tardewski. Kafka seppe vedere fin nei particolari più minuti come si accumulava l’orrore. Quel romanzo presente in maniera allucinante il modello classico dello Stato trasformato in uno strumento del terrore. Descrive il meccanismo anonimo di un mondo in cui tutti possono essere accusati e colpevoli, la sinistra insicurezza che il totalitarismo insinua nella vita degli uomini, la noia senza volto degli assassini, il sadismo furtivo. Da quando Kafka ha scritto quel libro la scampanellata notturna è risuonata a innumerevoli porte, e il nome di coloro che sono stati trascinati a morire come un cane, come Josep K, è legione.” Ricardo Piglia, Respirazione Artificiale.

    “Il processo?, domandai, dev’essere Il processo. Sì, certo, disse lui, è il libro più coraggioso del nostro secolo, ha il coraggio di affermare che tutti siamo colpevoli. Colpevoli di che?, domandai. Come di che?, disse lui, di essere nati, forse, e delle cose che sono successe in seguito, siamo tutti colpevoli.” Antonio Tabucchi, Requiem.

    Credo che la grandezza di un libro si misuri anche da questo, da quante possibili interpretazioni (tutte plausibili) riesca a generare. “La fattoria degli animali”, in effetti, si risolve in un’allegoria fin troppo facile e schematica e, aggiungo, troppo facilmente strumentalizzabile. “Il processo” no. Dipende da chi sei quando lo leggi, dipende dall’ambiente in cui vivi quando lo leggi.
    Piglia, scrittore argentino, ha pubblicato il suo libro nel 1980, in clima di dittatura militare. Il libro di Kafka diventa strumento per dare una risposta alla situazione dell’Argentina a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Tabucchi ha scritto Requiem all’inizio degli anni Novanta. Si tratta di un libro più “personale” che “collettivo” per cui l’interpretazione riflette questa attitudine.

    Insomma, anche secondo me “Il processo” è un libro trasversale, che parla a tanti, che parla a contesti differenti e che mette in moto interrogativi, forse perché in fondo fornisce poche o nessuna autentica risposta. “Il processo”, a tratti, forse rispecchia davvero la vita.

    Per quel che riguarda Orwell, per spezzare una lancia in suo favore, l’ho preferito in 1984 e nei suoi scritti sulla guerra civile spagnola.

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  2. Alessandra ha detto:

    Una grande voglia, a questo punto, di leggere Il processo (che ancora mi manca) e anche di approcciare Bellow… curiosa di leggerti, se ne scriverai.

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  3. gaberricci ha detto:

    Non mi piacciono né DeLillo né Murakami, ma su La fattoria degli animali non sono d’accordo. Non ha la grandezza di 1984 e, hai indubbiamente ragione, ha poco della fiaba… ma io credo che l’intento di Orwell fosse quello di stigmatizzare e, ancor di più, far conoscere l’evoluzione liberticida e totalitaria di una rivoluzione in cui credeva (molti, erroneamente, pensano che Orwell fosse un conservatore…). Nel 1945, non era così scontato sapere delle purghe staliniste, ed Orwell stesso racconta le difficoltà incontrate nel far pubblicare il libro in un momento in cui, almeno formalmente, i sovietici erano degli alleati. Ad ogni modo, io ritengo che Orwell (che, ricordiamolo, era anzitutto un cronista) abbia superato il suo intento iniziale e raccontato i pericoli che incontra QUALUNQUE rivoluzione, quando si trasforma in istituzione.

    Ad ogni modo, l’articolo mi è piaciuto molto, anche se non sono d’accordo sul contenuto:-). Non avevo mai pensato alle interpretazioni del Processo che tu proponi, ad esempio!

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  4. Andrea Taglio ha detto:

    Bellissima recensione: ho iniziato a leggerla con scetticismo, perché per me ‘la fattoria degli animali’ ha comunque la stessa aura di ‘1984’, ma l’articolo mi ha fatto cambiare idea: è vero, ‘la fattoria degli animali’ è effettivamente un romanzo più povero, e guadagna poco dalla trasposizione favolistica.

    Vorrei mettere l’attenzione sulla distinzione tra allegoria e metafora: non ho mai trovato delle formalizzazioni così forti della differenza tra questi due termini, ma credo che ci sia un elemento fuorviante nell’analisi.
    La corrispondenza tra significante e significato, sia nella metafora che nell’allegoria, è sempre arbitrario e inesatto.

    A conclusione proporrei una distinzione diversa tra metafora e allegoria (forse più ortodossa, se Perelman mi sostiene).
    La prima dovrebbe essere una figura retorica autoconclusiva all’interno di una frase (come le metafore citate) o di un periodo.
    La seconda, l’allegoria, dovrebbe invece estendere lo schema della metafora a una intera opera (e sarebbe quindi applicabile sia alla fattoria degli animali che al Processo – ma anche a qualsiasi opera di fantascienza o di fantasia).

    Aggiungerei che il fatto che nel libro in questione ci sia una corrispondenza esatta con un periodo storico e con una situazione politica reale è forse un caso. Forse sarà possibile (magari con molta droga e molto tempo) trovare altre corrispondenze, esattamente come è avvenuto per ‘Il processo’.

    In ogni caso è interessante notare che non sono l’unico a pensare che la vaghezza e la mancanza di corrispondenze precise allarga il ventaglio dei significati possibili – e più sono le interpretazioni possibili, maggiore è il numero di corde che un’opera può toccare negli animi dei lettori: ecco perché le interpretazioni letterali dei testi andrebbero bandite, e perché la letteratura arriva dove nessuna cronaca potrebbe mai sperare di arrivare per raccontare la realtà umana.

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  5. Andrea Taglio ha detto:

    E aggiungo che, con il permesso dell’autore, ribloggerei questo ottimo articolo nel mio blogghino.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Sarebbe un onore, grazie! ps e grazie per il commento molto dettagliato sulla differenza tra metafora e allegoria – in effetti nel post sono stato molto impreciso, al riguardo….

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  6. Andrea Taglio ha detto:

    L’ha ribloggato su AndreaTaglioe ha commentato:
    In attesa di pensare a cose impossibili ho riscoperto questo blog, e in particolare questo articolo.
    Io sono un testardaccio, e se Paolo Zardi (l’autore, ovviamente) è riuscito a farmi cambiare idea su “La fattoria degli animali” così, nello spazio di un articolo, beh, ho trovato un’altra voce che merita finalmente tutta la mia attenzione.
    Seguitelo: secondo me si merita anche la vostra (e quella dei vostri amici, familiari, parenti… fate condurre un palinsesto televisivo a quest’uomo!)

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  7. paolalorenzini ha detto:

    Non posso che concordare sull’inutilità di Norwegian Wood.

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  8. Marco C. ha detto:

    Non sono per niente d’accordo con il rispettabile parere dell’autore del post, e dirò brevemente perché. A un’opera letteraria si dovrebbe chiedere di condurci in un altrove stimolando la nostra fantasia ma anche dandoci una sensazione di piacere nella lettura. Secondo me questo accade con “La fattoria degli animali”, pur inferiore a quell’autentico capolavoro che è “1984”. Kafka è un autore che si dilunga in infinite e minute descrizioni, lasciando che forze centrifughe (digressioni e dialoghi interminabili) allontanino il lettore dal nucleo del racconto, che praticamente non esiste (vale per tutti i suoi libri, secondo me, compreso “Il processo”). Non capisco proprio come possa essere considerato un grande romanziere. Può essere ritenuto uno scrittore geniale, ma l’incompiutezza e l’inconcludenza delle sue opere mi paiono evidenti. L’incubo totalitario di Orwell ha, soprattutto in “1984”, un’ energia visionaria e tangibile allo stesso tempo che fa impallidire, a mio parere, tutta l’opera di Kafka.

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