Il lamento di un uomo

Qualche giorno fa, al lavoro, continuavo a ripetere ai miei colleghi – tre persone con le quali mi trovo davvero molto bene – che ero nervoso. L’ho detto così tante volte, e con così tanta enfasi, che dopo un po’ è stato chiaro che stavo scherzando; ma a dire il vero, io ero realmente nervoso. Perché? Non volevo lavorare. Cioè, non è che quel giorno non volevo lavorare, o che non volevo lavorare quel giorno. Io quel giorno non volevo lavorare mai più. Quella mattina, credo fosse giovedì, mi sono svegliato pensando che sono più di vent’anni che la mia principale occupazione, quella che si mangia la parte buona del mio tempo quotidiano, è l’informatica. Chi non è in questo settore, parlando di quelli con me me dice “programmatore”, “quello che lavora con i computer”, “il tecnico delle stampanti”. Può essere che ci sia qualcuno che nel mio settore faccia una di queste tre cose – programmare, lavorare con i computer o sistemare le stampanti; ma non è il mio caso. Mi occupo di una tecnologia un po’ esotica, di nicchia, che coinvolge un numero di persone limitate in Italia e, credo, anche nel mondo. In questo ambito specifico, seguo progetti per grandi aziende. Questo significa avere un budget da non sforare, un calendario con le scadenze segnate, ottocento mail al giorno, telefonate, problemi incomprensibili e inaspettati, continui scambi di messaggi con gli indiani (bravissimi) che erogano il servizio di supporto, casini da risolvere, risorse (leggi: persone) che raramente arrivano nel momento giusto, e che spesso sono da formare, o da convincere, e clienti talvolta arroganti (non sempre: le mie ultime esperienze sono molto positive), e clienti che qualche volta arrivano alle minacce (vedi anni 2015/16…). Ecco, giovedì mattina mi sono svegliato pensando che sono più di vent’anni che faccio questa cosa: che tutti i giorni, dalle nove di mattina alle sei di sera, sono impegnato a risolvere, affrontare, gestire, questo genere di problemi. Il giorno prima ero uscito di casa alle sette meno un guardo ed ero andato a Udine, centocinquanta chilometri da qui; sono tornato a casa alle otto e mezza di sera, ho cenato e subito dopo, mentre guardavo “Dance dance dance” con Dunja (ok, lo ammetto, a me i talent show piacciono, che si occupino di ballo, musica o cucina), ho cercato di risolvere un problema di un cliente – ho finito alle dieci e mezza, senza tra l’altro arrivare a una conclusione. E poi il giorno dopo, giovedì, mi sono svegliato pensando alla giornata che avevo davanti, al fatto che la sera avrei avuto un’assemblea condominiale, e che da tre giorni mi stava arrivando una mail all’ora che mi segnalava un errore su un’applicazione che carica le bollette per non so quale azienda del gas tra l’Emilia Romagna e la Liguria (i contorni di certe cose mi sfuggono), e che avevo sviluppato sei anni fa: sarei dovuto intervenire dopo l’assemblea, condominiale, che iniziava alle nove di sera… E ho pensato un pensiero che avevo già fatto qualche anno fa: ma io, quando esisto?
La giornata è andata come me l’aspettavo, anche se: sul lavoro ho avuto qualche problema in più; l’assemblea condominiale, solitamente tranquilla, assomigliava alla scena della mega rissa in chiesa di “Kingsman”; a casa, mentre con Dunja guardavo “Master Chef Celebrity” (vedi sopra), ho provato a risolvere il problema irrisolto della sera prima, senza riuscirci, e poi mi sono messo a risolvere quello della mail che arrivava ogni ora, con il nuovo pc dove mi mancava tutto – la VPN, Sql Server Management Studio, i sorgenti dell’applicazione. Ho finito, questa volta con successo, a mezzanotte e trequarti; e mentre, poco dopo, cercavo di addormentarmi, pensavo che dopo sei ore mi sarei svegliato, e avrei avuto davanti un’altra giornata così; e che lunedì avrei ripreso per un’altra settimana, per altre settimane, per altri mesi, per tanti anni. Sono a meno di metà, e già adeso potrei sedermi sui miei testicoli. Se va bene, nel 2040 mi sveglierò una mattina e penserò: ecco, ho settant’anni e questo è il mio ultimo giorno di lavoro. Questa è la mia prospettiva. Questo è il motivo per il quale sono nervoso.

Lamentarsi non fa bene, a meno che non sia un modo per imparare a ridere di se stessi. Ci provo, e un po’ ci riesco; e se ci riesco, allora devo estendere questo lamento fino ad arrivare al nocciolo della questione, e cioè la scrittura e il suo rapporto con l’editoria, che magari mi risolve anche quel problema. Alla fine degli anni zero, non sapevo neppure cosa fosse il Premio Strega, che più o meno tutti conoscono – la punta dell’iceberg dell’editoria. Conoscevo poche case editrici: Einaudi, Adelphi, Feltrinelli, Mondadori… Sapevo che c’erano la Rizzoli e la Bompiani, ma curiosamente non ho mai preso un libro pubblicato da loro. Su tutto il resto, zero assoluto. Ma scrivevo. Pubblicavo le mie cose su un blog – non questo, un altro. Leggevo un sacco di libri che mi piacevano e che mi trasformavano: Philip Roth, David Foster Wallace, Vladimir Nabokov… Mi ricordo (ricordo me) una sera in un albergo, dove mi trovato per lavoro, tutto preso dalla lettura di un racconto di Flannery O’Connor, che avevo in una vecchia edizione Einaudi comprata da mio padre un sacco di anni prima…. Era la storia di un ragazzo che si era ammalato ed era convinto che sarebbe morto a breve – che non sarebbe arrivato a Natale – e che quindi passava il tempo a commiserarsi per i risultati che si era prefissato e che non avrebbe mai raggiunto… poi si scopriva che si era preso qualcosa bevendo del latte non pastorizzato e che quindi non sarebbe morto (non in tempi brevi: ora, facendo due calcoli, dovrebbe avere quasi 100 anni e statisticamente…) – e questo per lui era un problema, perchè la mancata morte non gli avrebbe più fornito un alibi per i suoi fallimenti… In quale albergo ero? Ricordo che era inverno, che la stanza era più lunga che larga, che i lettini erano due e separati, e che io mi domandavo quale fosse il segreto della bellezza di quel racconto… Un’altra volta, sempre in un albergo sconosciuto, in chissà quale città (oscillo, come ipotesi, tra Crema ed Empoli), la sera, a letto, leggevo “Patrimonio” di Philip Roth; la mattina dopo avevo mandato un messaggio a mia mamma, per mio papà, una cosa affettuosa. E poi scrivevo, provavo la mia voce, imitavo, e non c’era nessuno dall’altra parte, e non c’era nessuno dalla mia: non c’erano editori e non c’era alcuno scrittore che io conoscessi di persona – solo i miei amici morti, come Nabokov e Flaubert, quelli che presto ci avrebbero lasciato, come Wallace, e quello che teneva ancora duro, il più bravo di tutti, quel Philip Roth di cui, un libro alla volta, stavo leggendo tutto. Scrivere, allora, era osare; leggere, era l’esperienza di vita più importante. Una volta, in Croazia, nel 2007, con Matija che non aveva ancora un anno e Jurij che da poco ne aveva compiuti tre, in maggio, avevo scoperto “Considera l’aragosta” – io allora non conoscevo Wallace – ed era stato come iniziare una nuova vita. In quei giorni, mentre camminavo con Jurij, ho sentito una signora gridare: era in mare, non lontana dalla riva , e trascinava un signore con i capelli bianchi che, a occhio, era morto. A fatica, è riuscito a tirarlo fuori, trascinandolo sugli scogli. Non era morto perchè vomitava una schiuma bianca che assomigliava a birra – senza sforzo, però: gli usciva dalla bocca così, come da una bottiglia di cocacola che per sbaglio abbiamo agitato troppo. Nel frattempo sono riuscito ad avvicinarmi. Due tizi gli stavano facendo un massaggio cardiaco mentre la donna, la figlia, o una giovane moglie, piangeva e gridava. L’uomo dopo un po’ si è rianimato e anche se aveva tutta l’aria di essere stremato, sorrideva faticosamente come, probabilmente aveva fatto Lazzaro un duemila anni prima. Ebbene, tutta questa scena, questo evento, io lo ricordo come se fosse una storia di Wallace, che in quel momento mi stava fornendo gli strumenti per guardare al mondo con occhi diversi. Questo, per me, significa leggere: ricevere un paio di occhiali nuovi.
Poi c’è stata la prima pubblicazione. Ho scoperto il Salone del Libro di Torino, i piccoli editori, gli altri scrittori, le copertine, le recensioni, le presentazioni, Facebook e Twitter, le interviste e quindi le domande su quello che ho scritto – perché, come mai, come sono arrivato a, cosa intendevo, come nasce, ecc – e tutto questo è bello, è gratificante, ti fa capire che stai facendo una cosa che ha un valore che va al di là dei tuoi semplici gusti. Ho conosciuto, e continuo a conoscere, persone veramente straordinarie; ancora adesso, aspetto il Salone del Libro con vivissima trepidazione, come avrebbe detto il nostro vecchio Presidente della Repubblica, Re Giorgio Napolitano; e se ci penso, le relazioni di amicizia più importanti che vivo sono quelle legate al mondo dei libro. La mia vita è fatta di centri concentrici: io, la mia famiglia, la scrittura, il lavoro; dal punto di vista del tempo speso, invece, al primo posto lavoro, poi famiglia, poi io e infine la scrittura. Il punto (prima o poi ci sarei arrivato) è che tutto quello che riguarda i libri, letti o scritti, raccontati o condivisi, ha cambiato forma, consistenza, significato. Per quanto io abbia cercato di opporre resistenza, ora il baricentro della mia attività per così dire “culturale” è sbilanciato verso l’editoria, dentro al mondo di chi i libri li produce, li recensisce, e ne parla sui blog, sui giornali – non quello in cui la gente legge perchè gli piace, e scrive per i cavoli suoi. Non c’è niente di male, in questo; e sarei un ipocrita se dicessi che questo non mi piace. Però, mi lamento, mi lamento comunque, perchè ho buoni motivi per farlo. Mi lamento del fatto che il mio orizzonte si è pericolosamente ristretto: ora leggo praticamente solo italiani, contemporanei, e che conosco di persona. Sono tutti bravissimi, e io sono felice di questo, ma avverto segnali di autoreferenzialità, in questa bolla in cui vivo. Poichè, che mi piaccia o no, anch’io faccio parte di questo giro, inizia a emergere quel retro pensiero che mi invita a considerare la produzione di quest’anno dei miei “colleghi” per capire cosa è già stato scritto e cosa, invece, potrebbe rappresentare una novità. Continuo a ripetere a tutti quelli che scrivono che pubblicare non è importante, che non è quello il motivo per cui si scrive; eppure sento chiaramente con quanta trepidazione (ancora lei) sto aspettando l’uscita del mio prossimo romanzo – il conto alla rovescia, l’emozione per la copertina, la rottura di dover fare una foto al mio faccione, che di libro in libro invecchia – e con quanta ansia mi domando se quello che sto finendo di scrivere troverà qualcuno interessato a pubblicarlo… Esiste un modo per tirarsi fuori da tutto questo? Forse sì – si staccano i collegamenti, si spegne Facebook, si cambia mail, ecc ecc – ma non lo vorrei perchè tutto questo è comunque eccitante, in un modo che mi piace. Non mi costringe nessuno, e se finisse sarei dispiaciuto, anche se non ho fatto della scrittura il centro della mia vita. I pro sono decisamente superiorei ai contro. Però, allo stesso tempo, vedo, vivo, misuro, tutto quello che sto perdendo giorno dopo giorno, in termini di spontaneità, piacere, libertà. Anni fa – era il dicembre del 2012 ed eravamo appena usciti da una presentazione della raccolta “ESC – Quando tutto finisce” curata da Maraschi e Astremo, edita da Hacca, che si era tenuta alla libreria di minimum fax a Roma – chiacchieravo con Corrado Melluso, che allora aveva un’agenzia letteraria, la Vicolo Cannery, e mi raccontava di tutti i libri che per il suo lavoro doveva leggere, una montagna di manoscritti che non si abbassava mai, e mi diceva che a volte gli succedeva di essere a casa, e gli venisse voglia di prendere un libro che piacesse solo a lui, e di leggerlo per il semplice gusto di farlo – e ridendo avevamo detto, non so chi per primo, che la sua vita assomigliava a quella di un attore porno che ogni tanto faceva l’amore con sua moglie, a luci spente, nell’intimità della sua camera da letto. Ora io, fortunatamente, non ho un’agenzia letteraria, non mi occupo di editoria, non leggo libri per professione, e scrivo più o meno quello che voglio – non sono un attore porno, tornando alla metafora di prima… ma (è questo il nucleo del mio lamento) non è più la stessa cosa. La promozione e l’autopromozione. Il condividere le recensioni su Facebook. E’ un contorno insospettabilmente pesante – o almeno lo è per me. Ci teniamo tutti a ottenere un po’ di attenzione, un briciolo di visibilità, una pacca su una spalla di qualcuno che ti dica che sei bravo; ma a volte ho come l’impressione di essere finito dentro un acquario insieme ad altri due o trecento pesci. Ogni tanto passa qualcuno che getta dentro un pezzo di pane e tutti corriamo verso la superficie e ci spingiamo per una pallina di mollica. Ci teniamo, è vero, ma ci teniamo un po’ troppo. In queste ultime settimane sono usciti un sacco di libri bellissimi – penso a quelli di Ernesto Aloia, a quello di Luca Rici, a quello di Paolo Pecere e quello di Funetta – e ne stanno uscendo altri (un amico ha già annunciato che tra sei mesi uscirà un suo nuovo romanzo). Tra questi, ci sarà anche il mio. Che evento importante, nella mia vita! Eppure, che evento del tutto irrilevante nella storia del mondo… Allora, perché tanto affannarsi? Perchè vivere in un frastuono così invasivo, che finisce per minare alla base i motivi stessi per cui si è qui dentro? E’ come per i gruppi punk degli anni settanta: aspiravano al successo, ma una volta raggiunto non potevano più essere punk. Un paradosso che non aveva soluzione. Scrivere è un percorso solitario che prima o poi finisce per essere condiviso; e, una volta che ciò che stai facendo raggiunge una dimensione pubblica, non ci sono più i presupposti per continuare. Pubblicare assomiglia a farsi un’autopsia per capire se avevi il cuore: ora so di averlo ma ho come il sospetto che non batta più.

18 commenti Aggiungi il tuo

  1. Amanda ha detto:

    Ops, se il lavoro è un caterpillar che ti divora il tempo, in modo così totalizzante, da quello che racconti qui sopra, e se perfino la valvola di sfogo della lettura/scrittura diventa una gabbia o la ruota del criceto, cosa salverà Paolo , cosa lo farà sorridere e respirare?

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      eh… sai che non lo so? pensavo a qualcosa tipo Superenalotto – non dover più pensare alle questioni pratiche…

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      1. Amanda ha detto:

        Superenalotto , andiamo sul classico 😀. Mi aspettavo un maggior esercizio di fantasia da parte tua.

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        1. Paolo Zardi ha detto:

          Pensavo che da quello che scrivo si capisse che sono un uomo all’antica

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          1. Amanda ha detto:

            un uomo all’antica, dici? Non in tutto quello che scrivi

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  2. firdis ha detto:

    Ehhh caro paolo. Ci vorrebbe un poco di sana stupidità per.vivere meglio. Abbraccio.

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  3. Matilda Colarossi ha detto:

    “Often the burden of life I have met […] no other way was there, if not the wonder that bears divine indifference…” Like all else, Paolo, it will pass. ❤ Take care.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      cara Matilde, io non sono triste: sono nervoso! 🙂 e il punto è che non passerà: il lavoro andrà avanti per almeno altri vent’anni… la vera sfida dovrebbe essere quella di vivere meglio il mio rapporto con i libri, di trovare il modo di dare loro il giusto tempo

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  4. Silvano Spaziani ha detto:

    Potremmo fondare una nuova casa editrice (l’ennesima): piccola, appassionata e coi contro… fiocchi. Che ne dite?

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Eh eh… sarebbe bello, era tra i miei sogni, ma ora so che è un’impresa impossibile, che richiede un sacco di sforzo

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      1. Silvano Spaziani ha detto:

        Lo so anch’io che rasenta l’utopia, che risucchierebbe un vortice di energie senza peraltro garantire nulla… ma pensa a quanto nuovo entusiasmo entrerebbe nella tua vita!

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  5. gaberricci ha detto:

    Correggimi se sbaglio (e scusa se gioco allo psicanalista da due soldi): io credo che il tuo problema sia che la tua scrittura (e la tua lettura) sia divenuta, ormai, uno strumento che, invece che allargare le tue prospettive, le comprime e le riduce; un po’ come il tuo lavoro, di cui altrimenti, ritengo, non avresti parlato prima di spiegarci cosa ti sta succedendo. È qualcosa che, a causa di tutti i suoi “contorni”, ti sta alienando, invece di “farti uscire” dal bozzolo del quotidiano e della “banalità” (scusa ancora se parlo così).

    Che il lavoro sia ormai una mietitrebbia che divora la vita degli uomini è, purtroppo, verità cognita a chiunque, e non so, purtroppo, come si possa fare a scardinare questo paradigma. C’è, poi, che in tempi in cui l’editoria getta fuori migliaia di libri l’anno, non basta più essere bravi a scrivere (cosa che sicuramente tu sei), ma si deve essere disposti ad andare in giro a vendersi. Non c’è più spazio per i Thomas Pynchon (ahimè…).

    Quando ho iniziato a scrivere un blog, il mio sogno era pubblicare un libro; più leggo quello che capita a chi ce l’ha fatta, più sono felice di non esserci riuscito. Se si scrive, è perché ci si vuole far leggere; ma io, ora come ora, sono felice dell’orticello che ho qui, dei miei venticinque lettori e dei commenti positivi con cui accolgono le cose che scrivo. È accontentarso? Certo che lo è; ma se io scrivo, è perché voglio che al centro dell’attenzione ci sia quel che penso, non io stesso (e, anzi, questa è una cosa che odio).

    Ciò detto, la cosa buona è che la tua scrittura non sta affatto risentendo della tua situazione “affettiva”; questo post è molto bello, ad esempio (sono belli tutti quelli che scrivi e sono dell’idea che da te ci sia molto da imparare). Non so se e quanto questo ti consoli… ma spero almeno un po’.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Be’, intanto grazie per le belle parole!
      Credo proprio che tu abbia colto il segno, vedendo oltre a quello che io stesso sono riuscito a dire e a capire. E’ esattamente come dici tu. Il lavoro e tutto quello che ruota intorno ai libri non mi fanno uscire dal quotidiano, dalla routine, da ciò che ho già visto. Il periodo delle lucette che brillano è finito; è finita la poesia, sia nel lavoro che nella scrittura. Ricordo che da giovane impazzivo per il lavoro. Era lo stesso entusiasmo che avevo quando avevo iniziato a scrivere il blog. Poi queste forze, queste spinte, vengono incanalate, regolamentate, organizzate. E ora che mi ci fai pensare, è soprattutto qui nel blog che sento di poter scrivere senza sentire il peso di ciò che verrà dopo… Il punto è che tutto ciò che sta intorno alla pubblicazione sollecita una parte meno nobile, ma assai sensibile, di me. quella più insicura, che cerca conferme. Spesso mi trovo a dire che se finisse tutto qui, se non trovassi più nessun editore interessato a pubblicarmi, io sarei comunque contento così; e con una grande fetta di cervello e cuore lo penso davvero – ho avuto molto più di quello a cui aspiravo (cioè sostanzialmente a niente: ho iniziato a pensare ai libri tardissimo, e prima di allora non avevo mai immaginato un qualche tipo di “carriera” in questo mondo). Però… cos’è? vanità? è un po’ come le sigarette: ci si danna per questo vizio, e però non lo si molla.
      Il blog, invece, è la parte bella della scrittura. E forse è quella la fase che rimpiango: la condivisione diretta, la mancanza di mediazione, l’assenza di aspettative, la sperimentazione.
      Grazie ancora di cuore per questo commento, e per tutti gli altri – sei molto generoso a passare di qua!
      Un abbraccio
      Paolo

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      1. gaberricci ha detto:

        “Bisogna sempre essere cauti ad esprimere desideri, perché qualche volta si avverranno”.

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      2. gaberricci ha detto:

        Avverano, non avverranno.

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  6. Avendo qualche anno in meno di te, non so esattamente cosa si provi nella tua specifica situazione. Dico questo perché sono convinto che ogni fase della vita – declinata nella particolare singolarità dell’individuo – ci porti a obiettivi e idiosincrasie diversi.
    Fino a cinque, sei anni fa, non avrei mai pensato di spendere i miei soldi per comprare dei cuscini – di quelli 60×60, giganteschi – da piazzare sul letto, così da avere un bel supporto per leggere quando ho un momento di relax. Era impensabile, davvero. Né li avrei spesi per comprare dei vestiti – diamine, no!
    Eppure io, in questi ultimi anni, ho comprato due bei cuscinoni a cui mi appoggio per leggere, e ho comprato diversi vestiti. Prima, i vestiti, me li compravano i miei, e a me andava bene. Poi mi sono accorto che la mia stanza, il mio guardaroba, tutto era mio senza che fosse stato deciso da me, non so se rendo l’idea. Non c’era il mio tocco. Allora eccomi nella fase della personalizzazione. Eccomi con la volontà di rendere più “mia” la mia vita, fosse anche nello scegliere cosa indossare, nel piazzare dei cuscini o delle foto alle pareti.

    E adesso, ancora in questa fase, io ho molto tempo libero, troppo tempo libero. Perché il lavoro è poco, e sono uno stakanovista. E vorrei impiegare gran parte di quel tempo libero per lavorare ancora, per poter avere – prosaicamente – soldi da poter investire in me stesso, per potermi permettere senza problemi un aperitivo, una cena fuori, un viaggetto a Padova per conoscere un tale Paolo Zardi, o che so io.

    Ti dico questo perché credo che una situazione come la tua possa essere davvero comprensibile, ma che si debba configurare per forza come una fase. Una fase opposta a quella in cui mi trovo io ora. E una fase che senza dubbio deve portarti a ragionare su ciò che fai, su come lo fai, e sul fatto che ci sono sempre possibilità di cambiamento. Se il problema è la routine, credo ci sia sempre la possibilità di cambiarla. Credo che – anche se detto da uno stakanovista vale poco – sia necessario ritagliarsi del tempo per sé, e fanculo l’ufficio e i clienti e le aziende: quado esci dall’ufficio, se non in casi particolari, bisogna lasciarci anche il lavoro. Perché altrimenti tu ‘sei’ quel lavoro, non sei più Paolo. Diventi le competenze che hai acquisito, e resterai quella versione parziale e quotidiana di te per altri vent’anni.

    Forse è retorica spicciola, forse non è applicabile nel tuo caso. Ma, ecco: dobbiamo ritagliarci lo spazio per esistere, nonostante tutto. E sono sicuro che al di là del tuo lavoro informatico, dei libri che hai scritto e che scrivi e che leggi, dei talent che guardi a casa, tu possa di certo trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che possa diventare – almeno temporaneamente – tuo. Fosse anche ritagliarti un angolo con due comodi cuscini giganti per staccare ogni tanto la spina.

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  7. Fabio Piero Fracasso ha detto:

    Eh no, Paolo, per fortuna non è così. C’è molto di vero in quel che scrivi, ma poi ti scappa la mano e sprofondi in un catastrofismo nel quale – per fortuna- non credi del tutto neanche tu.
    Proporrei un piccolo gioco: immagina se il tempo a disposizione aumentasse d’un tratto e vertiginosamente; se, per un prodigio alchemico, potessi dedicarti alla scrittura altra, in modo asetticamente professionale, avendo tuttavia tempo a disposizione per coltivare la tua; se, ancora, le incombenze d’ufficio cessassero, non dirò di esistere, ma di assillarti. Non servirebbe. Il fatto è che la nevrosi, la scissione tra quel che si deve e quel che si può fare, alimenta misteriosamente la scrittura, il suo respiro, la sua linea dritta o spezzata (vedi Kafka, c’è un bellissimo libriccino di un germanista, forse Michael Müller, che descrive la necessità cogente d’immergersi nelle sue tanto bistrattate carte d’ufficio che, forse, non gli erano tanto estranee ed insopportabili).
    Alle brevi: il tuo rovello, con annessi estraniamenti che provi, è il combustibile essenziale…

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      eh eh… c’è del vero in quello che dici, ma ti rispondo con un fatto incontrovertibile: l’anno scorso sono stato sul punto di cambiare lavoro, lasciando quello che ho seguito per 15 anni, in un’azienda dove ho molti amici, per approdare in una realtà del tutto diversa. Ora, tieni conto che in questi dieci anni di scrittura sono arrivato alla conclusione che l’unico luogo che mi consente di scrivere è il treno; bene, l’azienda nella quale stavo andando è a pochi chilometri da casa mia – ci posso arrivare a piedi. Avrei avuto orari più umani, il che mi avrebbe tolto la necessità di scrivere (perché è come dici tu: il mio rovello è il combustibile essenziale)… Aggiungiamo il fatto che questo cambiamento avrebbe scatenato una causa legale con tutti gli annessi e connessi… l’avrei vinta, ma avrei dovuto prendere un avvocato e iniziare mesi di rotture infinite. Quindi: cambio di lavoro, niente più treno, niente più rotture, niente più scrittura, causa legale. Ebbene, io avevo firmato! Ero disposto a perdere la scrittura e tutto quello che segue pur di trovare un po’ di serenità in più! Poi, il giorno dopo che ho firmato con la nuova azienda, la Storia mi è passata sopra la testa. Magari ci scriverò un libro sopra, se mai avrò il tempo di farlo… e così sono tornato all’azienda di prima. Tutto questo per dire che quando ho avuto la possibilità di scegliere tra lavoro pesante + scrittura, o lavoro normale senza scrittura, non ho avuto dubbi e ho scelto la seconda… mi piace sicuramente raccontare alcuni aspetti della mia vita in un modo che mescola dramma e autoironia – la mia situazione è tragica ma non seria, come diceva Flaiano parlando di quella dell’Italia del dopoguerra. Ma non c’è niente di inventato. Soffro – sorridendo, perché nessuno ha il diritto di soffrire seriamente per questioni che non sono di vita o di morte – ma soffro per davvero.

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