Tutto l’Universo

Per anni, aveva sofferto di ipocondria. Già da bambino, ogni volta che sentiva pronunciare il nome di una malattia, correva in salotto a consultare uno dei volumi dell’enciclopedia in venti volumi che suo padre aveva comprato un fascicolo alla volta, in quattro interminabili anni; leggendo i sintomi, li riscontrava uno a uno sul proprio corpo, anche i più tremendi. Nel tempo, si era ammalato di leucemia, cancro al cervello, enfisema polmonare, psittacosi (una cosa terribile, e tutto sommato rara, trasmessa dai colombi), di alcune malattie veneree (a dieci anni, prima di qualsiasi rapporto sessuale) e perfino di peste bubbonica. Questa ossessione, pur tra alti e bassi, non si era mai acquietata e anzi, era diventata più invasiva con l’avvento di Internet, la cui mole di informazioni malamente assortite costituiva un terreno fecondo per le peggiori inclinazioni. Quando alla fine, stremato, si decideva di andare dal dottore, l’evidenza dei fatti – cioè la totale mancanza di corrispondenza tra lo stato del suo corpo e la malattia immaginata – sollevava un velo dai suoi occhi, umiliandolo. Nemmeno la regolarità con la quale si verificava quella catena di eventi – intercettazione casuale di una malattia, comparsa dei sintomi, settimane di angoscia e terrore, diagnosi, senso di ridicolaggine – riusciva a scalfire la sua incessante ricerca di nuove condanne. Negli intervalli tra una malattia e l’altra, diceva, scherzando, ad amici e parenti che sulla sua tomba avrebbe voluto che scrivessero: “Ve lo avevo detto che non stavo bene”. Sapeva di avere un problema; lo diceva, lo ammetteva; ma quando era solo, o durante la notte, la convinzione di essere mortalmente malato non gli dava tregua. Poi, di colpo, all’inizio della primavera in cui compì cinquant’anni, guarì. Non sapeva cosa avesse spazzato via l’unica malattia che presentava tutti i sintomi: forse, si era detto, era arrivata una qualche forma di saggezza legata all’età, o, forse, l’esperienza si era consolidata e ora lo aiutava a gestire quella paura; ma ai primi di aprile, gli esami del sangue che aveva programmato da tempo, e le successive indagini mediche, dicevano solo una cosa: seppure lentamente, stava morendo, e questa volta sul serio.

Non era mai esistito uno specifico allenamento contro la paura della morte. Nemmeno parlarne spesso, con ironia, mescolando umorismo nero e considerazioni di natura pseudofilosofica – ripetere a oltranza il ragionamento di Lucrezio secondo la quale se ci siamo noi non c’è la morte, e se c’è la morte non ci siamo noi – serviva a qualcosa. L’approssimarsi del baratro produceva un terrore puro, totale, incomprimibile, di natura organica, e tentare di opporgli la ragione non era di alcun aiuto: quell’invenzione umana così recente poco poteva contro la spinta verso la salvezza, una forza feroce e primordiale che poteva essere facilmente riscontrata anche in una tenia. Per lui, fu come precipitare nel buio. Si sentiva come Alfredino Rampi infilato nel pozzo artesiano, vicino al cuore della terra: guardando verso l’alto, e poi fissando il nero sotto di lui, sapeva che nessuno sarebbe venuto a salvarlo. A sua moglie preferì non dire nulla, non subito. Le voleva risparmiare qualche mese di dolore e apprensione. Era già preoccupata per i fatti i suoi: aveva investito una piccola eredità in un negozio di vestiti per bambini, che però non riusciva a decollare. Si chiamava “Zucca Stregata”; ricordava ancora i primi mesi, quando ogni cosa la entusiasmava – il nome che avevano scelto dopo lunghe serate trascorse attorno a un tavolo a considerare tutte le ipotesi, l’insegna realizzata da un falegname del posto, l’odore di nuovo che emanava… Ma entrava sempre troppa poca gente. La sera, a tavola, gli raccontava, con una voce stanca e triste, che vedeva passare le persone nel marciapiede davanti, le vedeva buttare un’occhiata alla vetrina, e poi le vedeva andarsene, distratti da una telefonata o da un cane che tirava verso una siepe che aveva adocchiato qualche metro più in là. Era sconfortata, e avrebbe avuto bisogno di un aiuto da parte sua, un sostegno morale, una nuova idea. Come poteva farle quella carognata di dirle che la stava abbandonando proprio in un periodo così difficile? Neanche in ufficio da lui aveva detto niente, anche se quelle giornate passate con i colleghi, seduto alla scrivania, gli diventarono insopportabili: tolta la prospettiva del tempo a venire, era chiaro che quello sforzo quotidiano, al quale si era applicato con pazienza negli ultimi venticinque anni, era sproporzionato, e quindi insopportabile. La fatica della formica richiedeva il premio di un inverno passato al calduccio, che per lui, però, non sarebbe mai arrivato. Comunque, tenne duro. Su tutto, prevalse la dignità. Era stato educato severamente.

Ma camminando per le strade della sua città, o girando in treno da una parte all’altra dell’Italia in cerca di nuovi clienti, guardando il mondo che lo circondava, si sentiva travolgere dalla disperazione. Il brulicare di persone, l’alternarsi delle stagioni, i pini marittimi che annunciavano Roma, le donne che portavano a spasso cani in miniatura, i ragazzi sugli scooter, i baracchini del gelato, avrebbero continuato a esistere pure in sua assenza. Nel cielo si sarebbero formate altre nuvole; e le onde avrebbero continuato a infrangersi sulle coste diseguali, senza sosta, per chissà quanti milioni di anni. Era come quando da bambino era costretto a lasciare una festa prima che questa fosse finita: tornando a casa in macchina, con la testa appoggiata al finestrino, guardava i lampioni delle strade che gli scorrevano accanto, e pensando a quello che facevano i suoi compagni di classe senza di lui gli veniva da piangere. Ora, com’era naturale nelle condizioni in cui si trovava, la sua anima era devastata dalla presenza della morte, dallo spaventoso nulla eterno che lo aspettava, dai miliardi di anni in cui lui non ci sarebbe stato, perfino dall’immagine della terra che lo avrebbe ricoperto e degli occhi velati di lacrime di quelli che, dall’alto, con le mani strette sul davanti, avrebbero visto la bara scendere verso il suo ultimo domicilio; ma c’erano anche cose più brutte, dentro di lui, sentimenti meschini di cui si vergognava, un risentimento vile, una cieca invidia, una rabbia sorda e capricciosa; la stupida convinzione di essere vittima di una qualche ingiustizia. Perché proprio lui? si domandava, con una retorica piuttosto prevedibile. E perché solo lui? La verità è che si viveva insieme, ma si moriva ciascuno per conto proprio; facevano eccezione solo i passeggeri di quegli aerei che, precipitando con i motori in fiamme, si trascinavano dietro famiglie, comitive e perfetti sconosciuti, uniti dal caso nella fastidiosa promiscuità dell’attimo fatale: che consolazione potevano trarre da quella compagnia? E cos’era peggio: essere traditi dalla meccanica di un’elica o dal delicato congegno del proprio corpo? Esistevano morti più accettabili, o quantomeno più comprensibili, di altre? Ogni tanto riprendeva in considerazione le molte malattie immaginate nei picchi della sua ipocondria, e che a questo punto non lo avrebbero mai colpito: così come i sogni infantili vengono sfrondati, bivio dopo bivio, fino a che la vita diventa una linea – l’unica possibile – allo stesso modo si poteva morire di una morte sola, quella che il destino ti aveva confezionato su misura; ce n’era una che alla fine vinceva su tutte le altre, quella necessaria. In un universo deterministico, esistevano catene di cause ed effetti; ogni stato dell’universo era il risultato di uno stato precedente e delle forze che vi agivano. La complessità dei sistemi non lineari rendeva quanto mai arduo questo cammino a ritroso, ma in teoria… E quindi, quando era maturata la sua fine? In che momento le cose avevano iniziato ad andare storte? Quando si era distratto, quando aveva sottovalutato qualcosa, e cosa, in particolare? La visione dell’occhio era nitida solo in un cono largo poco più di sessanta gradi, con il vertice piantato nella retina; intorno, c’erano immagini sgranate, confuse, in bianco e nero e solo la fantasiosa elaborazione del cervello integrava quelle informazioni approssimative. Ora sapeva che la malattia si era mossa per lungo tempo ai margini del suo campo visivo, così lontana da essere scambiata per un’ombra che non si riusciva a mettere a fuoco. Avrebbe dovuto spostare lo sguardo, intercettarne la presenza con un po’ di anticipo, porvi rimedio… Anche la sua ipocondria, l’incubo di una vita, non gli era servita a nulla: troppo ampio il fronte delle cose che aggredivano la vita, troppo vario. In ogni caso, il tempo aveva una sola direzione e da un certo punto in poi, c’era spazio solo per il rimpianto. E ogni tanto si meravigliava di quanto semplice fosse morire, una cosa così imponente lasciata alla portata di chiunque. Come venire al mondo, d’altra parte: ci erano riusciti tutti; e tutti, prima o poi, sarebbero riusciti a morire.

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Una domenica di luglio, dopo una notte in cui non aveva chiuso occhio (ne aveva approfittato per seguire l’imprevedibile evolversi del respiro di sua moglie, che alternava apnee, accelerazioni improvvise, ampi periodi di quiete), chiese ai suoi due figli di accompagnarlo a Venezia. Conosceva la loro resistenza a quel genere di viaggi. Preferivano rimanere a casa, durante i weekend, a giocare con la Play Station o a guardare video sul cellulare. Ma insistette, e alla fine li convinse. Dietro, si nascondeva il suo desiderio straziante di insegnare loro l’amore per Venezia, che nutriva da quando era piccolo, come se quel passaggio di consegne, quella sorta di eredità, potessero lenire, almeno in parte, la perdita di tutto. Ma come aveva avuto già modo di sperimentare in altre occasioni, l’amore per qualcosa non può essere trasmesso. E infatti i suoi figli si lamentarono durante il breve tragitto in treno, e poi a ogni ponte, su ogni singolo gradino; avevano fame, sete, ancora fame, e male ai piedi, caldo, erano sudati, i telefoni non prendevano; cercavano negozi di scarpe e vestiti, e di cellulari, e non vedevano i campielli che si aprivano inaspettati alla fine di una calle stretta, il reticolo irregolare dei canali, la luce che si rifrangeva su ogni cosa. Di fronte alla basilica di San Marco, il più piccolo disse che era solo una chiesa, e che dentro c’erano solo quadri come ne aveva visti in mille altri posti: che non gli interessava quella piazza, che ce n’erano tante di più belle – glielo diceva per vendicarsi per quel pomeriggio che avrebbe voluto passare in modo diverso, o forse solo per ricordargli che i figli hanno il dovere di scegliere una strada diversa, il sacrosanto diritto di imboccare quel particolare percorso che, attraverso la sistematica negazione delle passioni paterne, avrebbe definito la loro vita. Provò a ricordargli di quando erano saliti in cima al campanile, sei o sette anni prima, ma lui negò di esserci mai stato, o di aver trattenuto qualcosa di quella piccola gita. Avrebbe voluto dirgli che un giorno il ricordo di quelle ultime ore passate insieme lo avrebbe colpito alle spalle, come una frustata inaspettata, ma non avrebbe capito, neppure se gli avesse confessato che lui se ne stava andando: la morte, a quell’età, non esisteva neppure come ipotesi. Aveva sbagliato a insistere: si era lasciato andare a un capriccio ingenuo e un po’ sciocco.
Continuarono a camminare fino a quando trovarono un Footlocker. I ragazzi chiesero di entrare a cercare una maglietta: lui diede loro venti euro e aspettò fuori. Era in un campo di passaggio, all’incrocio tra i percorsi che portavano a San Marco, Rialto e l’Accademia. Si appoggiò al muro di una casa, esausto. Non sarebbe dovuto venire a Venezia. La nostalgia era un sentimento che non si poteva più permettere. Alzò gli occhi. Il sole delle cinque, la sua luce ancora forte ma già carica dei rossi del tramonto – quelle frequenze irresistibilmente struggenti – rendevano ogni cosa vivida e vibrante, come se per un attimo il mondo avesse deciso di offrirsi alla sua vista per la prima e ultima volta. Conosceva bene lo spazio racchiuso tra quelle case, ci era passato decine e decine di volte, per anni, ma ora ogni cosa sembrava trasfigurata.
Si guardò ancora attorno. Al posto di un negozio che ora vendeva vestiti in stile marinaresco, una volta c’era un bar, e in quel bar, proprio là, a pochi metri da lui, vent’anni prima era entrato con una ragazza della quale era follemente innamorato; avevano bevuto una birra, avevano riso e poco dopo, usciti da quel posto, si erano fermati su un ponte e si erano baciati per la prima volta, sotto una luna incredibilmente luminosa; nei mesi successivi si erano lasciati in malo modo ma l’ardore di quel giorno gli strinse il petto. Si avvicinò lentamente alla vetrina, e quei pochi passi improvvisamente gli ricordarono un giro che aveva fatto per le strade di Pompei alla fine degli anni novanta, tra i resti tangibili di un’epoca passata, in mezzo alle prove evidenti che qualcuno lì ci aveva vissuto, aveva amato e poi era morto. La fine portava via il futuro ma non poteva inghiottire anche ciò che era stato. Si girò verso l’entrata del negozio dove i suoi figli stavano cercando una maglietta. Due donne sordomute, in prossimità dell’ingresso, stavano discutendo animatamente tra loro, mulinando le mani nell’aria. Poco più in là una coppia di cinesi camminava sotto un ombrellino per ripararsi dal sole e un’altra, in stile russo – lei bionda e giovane, con le gambe in vista, e lui massiccio, elegante come un italiano degli anni ottanta –, si era fermata, con stupore, davanti a una pasticceria che esponeva torte gigantesche: l’uomo teneva con le mani sei o sette sacchetti griffati, pegno per quel weekend pieno di un romanticismo a buon mercato. Una comitiva di andini procedeva in fila indiana; i piccoli ridevano facendosi piccoli dispetti e uno di loro teneva in braccio un cagnolino, che scalpitava per scendere. Ma bastava aspettare pochi secondi perché la scena cambiasse completamente: i personaggi di quella commedia uscivano lasciando il posto ad altri esseri umani, con altre facce, altri pacchi per le mani, sorrisi diversi. Nell’arco di venti minuti passarono infinite coppie mano nella mano, e intere famiglie, accompagnate dallo scalpiccio dei bambini impegnati a saltellare.
Attaccati a uno degli stipiti della pasticceria c’erano anche degli avvisi funebri: una signora era morta tre giorni prima, il giovedì, dopo una lunga malattia; un altro, più vecchio, era improvvisamente mancato all’affetto dei suoi cari. Da quelle foto che li ritraevano sorridenti, si affacciavano su quel campiello anche da morti, partecipi, ancora per un breve tratto, al tumulto sommesso di quelle vite che scorrevano là davanti: il legame con il mondo ancora non si era ancora reciso, non del tutto. E in quel casuale intrecciarsi di storie, tutto sembrava obbedire a una legge più grande, che andava al di là del contingente. Sebbene le persone che vedeva passare stessero, tecnicamente, camminando verso la morte, seguendo ognuna la propria strada, la fine non poteva essere l’obiettivo ultimo di quel placido affannarsi; e neppure l’atto di vivere bastava a dare un senso a quelle mani che si stringevano: nessuno mangiava solo per poter mangiare ancora una volta, nell’indolente attesa che tutto finisse… C’era qualcosa di più profondo che si agitava sotto, un mistero che andava oltre le singole esistenze. Era l’amore? La volontà di essere felici? L’inestinguibile desiderio di non essere soli? Ma qualsiasi cosa fosse quella spinta, qualunque nome avesse quella forza, non si esauriva là, in quel luogo, in quel momento: ogni singolo istante conservava, dentro di sé, il riverbero dell’infinito.
E adesso, sotto un cielo che appariva sconfinato, sentiva che la paura di morire non sarebbe mai finita, ma che a questa, ora si accompagnavano una serenità luminosa, per quanto piccola, e una tenue consapevolezza. Il suo corpo, i suoi ricordi, perfino il bacio sul ponte e il giro sul campanile di San Marco, apparsi per pochi istanti sulla sottile pelle della Terra, erano destinati a esistere per sempre, come minuscole tessere del gigantesco mosaico dell’Universo. Intanto i suoi figli erano usciti dal negozio con un sacchetto in mano e un’aria un po’ smarrita. Erano innocenti, ancora intatti, e di una bellezza fiera che gli sembrò straordinaria. Le sordomute finirono di parlare e si allontanarono verso Rialto, finalmente riappacificate. Due adolescenti si baciarono davanti al negozio di vestiti che un tempo era stato un bar e poi si strinsero forte. Dalla pasticceria arrivava uno straordinario profumo di dolci. Appoggiò una mano sulle spalle dei suoi ragazzi.
Vi va?” disse loro con un sorriso, indicando con cenno della testa la vetrina.
Loro annuirono, e insieme entrarono a mangiarsi una fetta di torta.

6 commenti Aggiungi il tuo

  1. Lucy the Wombat ha detto:

    Bellissimo. Ho un problema con la lettura, ma leggerti mi ci riconcilia… Quindi grazie. L’inizio mi riporta direttamente a Proust e alla sua camera da letto. 🙂

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  2. Silvano Spaziani ha detto:

    Sì, davvero molto intenso e pieno di una malinconia profonda e matura.

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  3. ili6 ha detto:

    Tutto molto commovente.
    Bravissimo.

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  4. Tiziana ha detto:

    Un racconto carico di emozioni. Dal punto di vista emotivo, le descrizioni finali sono le più forti. Mi è piaciuto il nesso con il fondo, l’abisso legato alla tragedia di Alfredino Rampi. Il mulinare delle sordomute è la migliore descrizione, a mio parere, della gente intorno al protagonista. Un’altra chicca è il far sentire lo sbuffare, la non volontà dei figli di seguire il padre in gita. Insomma tante cose buone che non sto a elencare tutte, tutte.

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  5. ElenaRigon ha detto:

    bellissimo!

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