Le sette cose in mente

Tempo fa qualcuno (credo mio padre, è lui il mio principale fornitore di informazioni sulle scienze cognitive) mi diceva che il cervello è in grado di gestire, di pensare, sette “cose” contemporaneamente; questa regola si applica all’intero genere umano e le eventuali eccezioni, rare, sono comprese tra le cinque (mai meno) e le nove (mai di più). Con una metafora, fuorviante se presa alla lettera, si potrebbe dire che la mente ha un disco rigido, che è il cervello così come lo intendiamo, con la sua memoria che conserva quasi tutto, e una RAM, un’area di lavoro dove vengono caricate le idee sulle quali ragioniamo adesso. Se pensiamo ai nani di Biancaneve, serve un po’ di tempo per iniziare a recuperare l’elenco completo; una voltta che ce l’abbiamo in mente, però, diventa semplice “pensarlo” e passare da un nano all’altro senza fatica. Se fossero otto, però, ce ne sfuggirebbe sempre uno: per recuperare quello mancante ne dovremmo “scaricare” un altro, a meno che non si appartenga a quella piccola porzione del genere umano un po’ più dotata. Chissà se il fatto che sette siano i re di Roma, sette i vizi capitali e sette le virtù teologali sia legato a questa caratteristica del cervello… Magari i re di Roma erano dieci, ma gli ultimi tre nessuno riusciva mai a ricordarli.

Se le cose alle quali possiamo pensare contemporaneamente sono solo sette, è un peccato quando uno di questi slot è occupato da qualcosa che invece vorremmo tenere distante. Il mio primo pensiero è, purtroppo, il lavoro. I mesi più pesanti sono passati, ma è rimasto una sorta di strascico mentale. residui, tracce consistenti – un’angoscia sotterranea che riemerge più volte al giorno, talvolta nel cuore della notte (venerdì scorso alle tre e venti, ad esempio). L’altro giorno ero alla presentazione di una scrittrice che, nella mia ignoranza, non conoscevo: lei è Francesca Daino, il romanzo “La strega bianca”, la presentatrice la sempre ottima Laura Liberale e la location lo splendido giardino della Libreria Zabarella, nel cuore di Padova. La chiacchierata alla quale ho assisitto, accompagnata da canzoni popolari gallesi, inglese e indiane, è stata una bella sorpresa, che mi ha aperto nuove prospettive. Alla fine, mi sono messo a parlare con Heman Zed, uno degli autori padovani più originali, brillanti e indipendenti. C’era anche Dunja, mia moglie, e a un certo punto ha chiesto ad Heman: “si sta lamentando del suo lavoro, vero?”. E purtroppo era vero. E’ diventata un’abitudine. Il mio argomento di conversazione preferito: uno mi vede, mi chiede come va, e io inizio con la storia del mio lavoro troppo duro, dei miei viaggi a Roma, della presssione, del fatto che sono stufo… A forza di dirlo, faccio fatica a ricordare se davvero il mio lavoro è davvero così pesante, e se sì per quali motivi. Ok, sono stanco. Arrivo alla fine delle giornate senza la forza di fare nulla. Ma non è sempre stato così? E non è così per tutti? E quindi il mio secondo pensiero di questi giorni è che a forza di pensare a qualcosa in un certo modo, si finisce per creare una struttura rigida, mi viene quasi da dire fisica, all’interno del cervello. Forse è quello che succede quando un lutto si cristallizza e diventa depressione. Mi rendo conto che per me è diventato più facile, più comodo, raccontare sempre la stessa versione della mia vita che cercare di adattarla alla realtà che nel frattempo si è modificata. E’ un problema che, in grande, devono affrontare i reduci di guerra, che non riescono a liberarsi del passato. Cosa accomuna la mia esperienza con la loro? Forse l’intensità emotiva tende a modificare il cervello in modo permanente, o quasi. Credo ci siano tanti libri, su questo argomento, ma il mio terzo pensiero è che ho pochissimo tempo per seguire quello che mi piace. La mia mancanza di tempo è diventata cronica. Ho accumulato non so quanti libri da leggere – libri di amici ai quali vorrei dedicare del tempo – e non ci riesco. Servirebbero giornate da 34 ore. O io dovrei imparare a dire di no – cosa che non so fare e che non vorrei fare. Ma la situazione sta degenerando. Prometto cose che non posso più mantenere. So di aver ricevuto delle mail alle quali ho risposto, ma non riesco minimamente a ricordare chi me le ha scritte e di cosa parlassero: so che ho dimenticato qualcosa, ma non ricordo cosa. Vorrei parlare dei libri che mi sono piaciuti, con l’attenzione e la cura che serve per farlo nel modo giusto. Ma d’altra parte è probabile che se avessi un pochino di tempo in più, la priorità andrebbe allo scrivere, il mio quarto pensiero. Ho finito da poco un romanzo che mi ha richiesto quasi due anni, il primo dei quali dedicato a imboccare strade sbagliate. E’ stato un lungo, lunghissimo processo di definizione degli obiettivi, della lingua, del risultato che volevo ottenere. Mi sono posto un problema complicato da risolvere e ci ho messo un sacco di tempo per arrivare alla fine. In fondo, quessto è il motivo per cui si scrive: vincere una sfida che ci si è posti. Con il passare degli anni, si è aggiunto anche il desiderio di cambiare, di non ripetere le cose già fatte, già scritte, già dette. Ho indagato la vergogna e il senso di colpa, e mi sono accanito sull’introspezione; ho messo la malattia, e il cancro in particolare, al centro di un sacco di storie, e il desiderio, e il tradimento: ecco, per due anni, ho evitato sistematicamente tutto questo. E ho evitato anche la voce di XXI secolo, quella distopia dolente nella quale mi sentivo così a mio agio…. Ma qualche giorno fa, appena ho messo la parola fine a questo lavoro (che dal punto di vista editoriale, lo so, ha scarso appeal: è poco serio, e per niente impegnato), ho sentito il bisogno di cambiare ancora una volta tutto e così ho iniziato subito una cosa nuova, completamente diversa da me, da ogni punto di vista: stile, argomenti, struttura, voce narrante, personaggi. La cosa buffa è che scrivere così non mi costa alcuno sforzo (e questo in generale dovrebbe far preoccupare: potrebbe significare che si è abbassato il controllo su quello che si produce). In ogni caso, credo che di questo mio rapporto con la scrittura ciò che amo è il controllo totale che posso applicare. Tra le mie pagine, io sono il dittatore assoluto. E il fatto di essere riuscito a pubblicare qualcosa, e di aver raggiunto più soddisfazioni di quanto avrei mai potuto sperare, mi dà la serenità di dire che se anche dovessere finire qua, se anche tutto quello che scrivessi da qui in poi non trovasse un editore, andrebbe comunque bene. Mi peserebbe di più iniziare a scrivere cose che non piacciono a me.

Il quinto pensiero non c’entra nulla. Con mio figlio Jurij abbiamo comprato, in Slovenia, un cosino che assomiglia al telecomando di una macchina, ma che in realtà è un aggeggio che fa click-clack quando lo premi. Nella confezione c’era scritto che era indispensabile per addestrare i cani; non lo avrei mai comprato se non fosse costato solo un euro. In questo weekend, dunque, ci siamo messi a giocare con Zeus, il barboncino di mia suocera, per attivare i suoi riflessi pavloviani: a ogni click, gli abbiamo dato un pezzetto di carne. Non siamo convinti che l’addestramento abbia funzionato. Forse serve più tempo, e più coerenza. Tenerlo a digiuno per un giorno e poi costruire questa associazione tra rumore e cibo. Ma non siamo scienzati così rigorosi. Però i riflessi pavloviano esistono: proprio questa sera, mentre tagliavo con la forbice dell’arrosto pollo alcuni pomodori secchi per la mia insalatona (sono a dieta: il cibo diventerà il mio primo pensiero per i prossimi mesi), è accorso Silver, uno dei miei tre gatti, quello bianco con il naso rosa, che ricorda ancora di quando preparavo il pollo impanato per i miei figli e qualche pezzettino toccava pure a lui. Quanto tempo sarà passato dall’ultima volta? Credo almeno due anni, cioè metà della sua vita, eppure ci spera ancora. E’ ostinato come gli elettori, mi viene da dire. A Roma, è stata eletta la Raggi, con circa 700.000 voti, che sono più o meno quelli che aveva preso Ignazio Marino al giro prima, e meno di quelli di Alemanno nel 2008. Tutti si erano proposti come quelli che avrebbero risolto i problemi della città, a partire da quello delle buche nelle strade, che da quello che si legge sui telegiornali sembra essere centrale nelle vite dei romani; e tutti hanno fallito, perfino sulle buche! Il problema è che passa troppo tempo tra il voto e il disastro conseguente, tra causa ed effetto. Pavlov non riesce ad entrare in scena. Gli elettori della Raggi sono bene o male gli stessi che hanno scelto Marino e il PD, e prima Alemanno e AN. Ma un riflesso condizionato esiste ed è ben chiaro: è sufficiente che uno si candidi contro il sindaco precedente perché a tutti venga la voglia di votarlo. La Raggi fallirà e non solo per suoi demeriti (che immagino comunque essere tanti). Ma forse il problema sta a monte: siamo noi elettori che abbiamo qualcosa di sbagliato. La gente comune. Questo pomeriggio, mentre tornavo verso Padova, ci siamo fermati, io e mia moglie, in un outlet dalle parti di San Donà. Non ero mai entrato in uno di questi finti paesi di cartapesta dove si vendono prodotti di marca a prezzi scontati. Questo è così grande che hanno dovuto aprire dei parcheggi a qualche centinaio di metri dalle entrate, e poi fornire un servizio di navette che vanno avanti e indietro. Ho visto arrivare perfino un pullman di turisti in visita, ma non sono riuscito a capire di quale nazionalità. Noi, comunque, siamo andati in un negozio di intimo – mutande, costumi, reggiseni, magliette. Credo di aver raccolto materiale per due romanzi. La realtà è andata molto avanti, in questi anni, superando la mia immaginazione. C’erano delle mamme che aiutavano le loro figlie dodicenni a scegliersi le mutande e assomigliavano a quelle attrici porno un po’ mature che, per necessità, si sono specializzate nel genere “Mom and daughter”: una tardona con le tette finte e ben conservata insegna a una ventenne con le treccine e la faccia ingenua come si fanno i pompini e tutto il resto, prendendo come campione il fidanzato della giovinetta. La pornografia, intesa come “il come prevale sul cosa”, si è estesa a ogni settore della nostra vita. Le mutande, che all’inizio avevano uno scopo ben preciso – proteggere gonne e pantaloni dai nostri prodotti involontari – son diventati simbolo. Ho visto una donna la cui sensualità era paragonabile a quella del bradipo de L’era glaciale che, accompagnata dal sosia dell’assassino di Yara, riempiva un cestino di slip minuscoli e variegati: il leopardato, il dorato, quello con le paiettes, il microperizoma… Saranno stati una ventina. Gli uomini per lo più assistevano a quegli acquisti; taluni, però, partecipavano attivamente. Uno, con la maglietta Lacoste, i jeans Levis, le scarpe New Balance, un orologio enorme, dei braccialetti, il gel, l’abbronzatura, suggeriva alla moglie con jeans elasticizzati, una maglietta con la scritta “Faschion victim”, magra da palestra, e alla figlia, un topolino asessuato che stava prendendo lezioni di sensualità dalla madre, suggeriva loro delle mutande assurde. Ho preso appunti. Prima o poi dovrà succedere che qualcuno farà qualcosa di divertente, là dentro, in qualche storia. Un’ora dopo ero al supermercato, l’unico Interspar aperto la domenica pomeriggio, e l’umanità che si muoveva là dentro era infinitamente più dimessa, più sconfitta, più grassa. Non saprei dire chi avrei scelto. Sembravano due facce terribili della stessa medaglia. Il libero mercato produce outlet e parcheggi, e centri commerciali pieni di carrelli. Bisognerebbe trovare qualcuno che si mette a studiarli sul serio, questi posti; degli antropologi che si avvicinino a questi luoghi come se si trovassero di fronte a una tribù sconosciuta nel cuore della foresta amazzonica. Poi, mentre tornavo finalmente a casa, pensavo al mio settimo pensiero, ed era il più bello perché era solo mio.

5 commenti Aggiungi il tuo

  1. Simone ha detto:

    Ciao Paolo,
    sempre belle le tue analisi, vive, vissute, dolenti ed orgogliose. Sul fatto della modalità predefinita e del pavloviano m permetto di segnalarti un testo di D.F. Wallace che conosci sicuramente (Questa è l’acqua)

    Mi sono promesso di prendermi 26 minuti ogni giorno (chissà se riuscirò a mantenere la promessa) per ascoltarlo e riascoltarlo, per me è pura aria fresca e motore per l’anima, proprio per non cadere troppo nel pavloviano.
    Un caro saluto

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  2. Fabio Piero Fracasso ha detto:

    “Il settimo pensiero”: sarebbe un bellissimo titolo, no?

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    1. Simone ha detto:

      Perchè no?

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  3. Isa Thid ha detto:

    Ciao, volevo solo farti sapere che nei momenti di sconforto, quando penso che finito quest’anno di volontariato all’estero dovrò trovarmi un lavoro vero e scrivere sarà più difficile, mi dico: beh, Paolo Zardi lavora full time, no? E’ motivo di grande sollievo!
    Tanti auguri e complimenti! 🙂
    elisa

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Cara Elisa, è difficile ma si può! 🙂
      Grazie di cuore per gli auguri, e a presto!

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