I bravi maestri

Si dice, spesso e a sproposito, che la scuola serve a poco – che le cose importanti si imparano fuori, nella vita di tutti i giorni. Io, ovviamente, non sono d’accordo. Se penso a me, direi un terzo scuola, un terzo famiglia, un terzo le cose che mi sono successe – gli amici che ho avuto, l’amore che ho conosciuto e quando, e con chi, e le cose casuali, come un incidente a calcio, un libro letto nel momento giusto (e uno letto nel momento sbagliato), l’epoca e la parte del mondo dove sono cresciuto. La famiglia da cui provengo, tanto quanto quella che ho costruito, nella quale intravedo la proiezione delle mie debolezze e dei miei punti di forza – forse meno felice di quello che avrei voluto, ma non più di quella che avrei potuto (se guardo le foto di me da ragazzo, vedo sempre un velo tra me e la capacità di essere felice fino fondo; una tara che ci portiamo dietro credo da generazioni, l’incapacità di sospendere un’eccessiva autoconsapevolezza, la forza dolce e devastante dell’ironia applicata a tutto, come se non fossi capace di considerare questa mia vita mia fino in fondo – di vederla più di quella cosa che mi è capitata per caso). E poi la scuola – più cose belle che cose brutte. Ho amato imparare. Lo farei ancora, se potessi. Adulti  che si prendono cura di te, e cercano di tirarti su nel modo migliore possibile – non alla perfezione, certo, le ricordo anch’io certe meschinerie…. Ma nel complesso, ho ricevuto tanto. E questa sera c’è una cosina che ogni tanto mi viene in mente, un insegnamento che allora mi sembrò folgorante e che ancora oggi considero uno spartiacque nella mia crescita. Fino a quel giorno (lo posiziono a posteriori: direi marzo 1988) mi era sempre stato insegnato che i libri – le storie, le poesie, i racconti, i romanzi – erano importanti per ciò che dicevano.  E io ci avevo sempre creduto. Le domande che ci ponevano le maestre, i professori, e forse perfino i nosri genitori quando ci aiutavano a studiare, le domande che dovevamo farci dopo aver letto qualcosa erano sempre le stesse: cosa voleva dire l’autore? Qual era il suo messaggio? Il messaggio. Mi avevano convinto che il modello della letteratura fossero le favole di Esopo: un modo simpatico per dire qualcosa di importante. Qual è la morale dei Promessi sposi? Qual è il contenuto del pessimismo di Leopardi? Nel marzo del 1988, giù di lì, il colpo di stato. La mia professoressa di Italiano, la signora Mariluccia Saggiotto, durante una sua lezione, rispondendo a una mia domanda (la quale era nel solco di tutto ciò che avevo imparato fino a quel momento),  mi ha risposto dicendo qualcosa tipo: conta solo il modo con il quale sono scritti, il libri. Lo diceva ridendo, come una verità sconcia che prima o poi qualcuno avrebbe dovuto dirmi. Con il senno di poi, credo che la sua affermazione fosse più articolata – era una donna realmente colta, e libera, e spumeggiante (lo è ancora, anche se la incrocio molto raramente). Ma ciò che conta è l’idea che ha travolto le mie certezze. E’ stato bellissimo, perché improvvisamente mi si è aperto un mondo. Non è importante il cosa. Conta il come. Il mondo è pieno di persone con ottime idee; ma i veri scrittori si contano sulle dita di una mano.

Tutto questo preambolo per arrivare a una conclusione piccola e banale: l’ispirazione per qualcosa che si scrive non arriva dal mondo delle idee ma da quello dell’arte. Succede solo a me di voler scrivere come un balletto che si è visto, o come un quadro che si è ammirato? Da quando ho una smart tv, regalo di Babbo Natale, guardo youtube in salotto. Oggi è partito un video vecchio quasi quanto me, che avevo adorato da ragazzo. Quelli che hanno la mia età lo conosco di sicuro: è Such a shame, dei Talk Talk, una delle promesse mancate della musica degli anni ottanta, forse la più dolorosa, perché di talento ne avevano un sacco. Il video è molto semplice: il cantante, ripreso in primo piano, “fa delle facce strane”. Sbaglia, volontariamente, l’interpretazione. Il risultato ha qualcosa di prepotentemente ridicolo e liberatorio – e ora che cerco di descriverlo, mi rendo conto che il suo nucleo non è raccontabile. Non c’è un messsaggio, o una morale. Perché ride dicendo cose serie? Perché improvvisamente diventa serio, malinconico, romantico, felice, spaventato? Perché quest’uomo sembra così disposto a mostrarsi brutto?

Per cui ora sono in salotto con il pc sulle gambe e penso a cosa potrebbe voler dire cercare di scrivere un racconto così – non un racconto che parli di un uomo ridicolo, ma che abbia la stessa intenzione di questo video, nel modo in cui procede – nella voce, nello stile, nella libertà, nello straniamento. Con questo piccolo grande coraggio. Chi scrive è un essere umano che si esplora le viscere con una sonda, facendo del proprio corpo, della propria intimità, l’oggetto della scrittura. Scarnificarsi non rende bene l’idea: c’è qualcosa di eroico, nel farlo, di celebratorio, e inutilmente masochistico – mi vengono in mente certi San Sebastiani… Scrivere è molto peggio, perché non può e non deve prescindere dalla ridicolaggine. Significa mettersi nudi su un palco e parlare di cuò che siamo come se fossimo i nostri migliori amici e i nostri peggior nemici. Mostrare il proprio buco del culo come se fosse quello di un altro, e rivelarne i segreti che ci umiiano. Il novecento ha prodotto grandissimi romanzi; tra i primi cinque, metto sempre Il teatro di Sabbath di Roth. So che l’ha scritto in un momento di grande felicità, ed è il suo libro più disperato e vero. Ridete di me è l’invito che ogni autore dovrebbe avere il coraggio di rivolgere a chi legge, perché io sono come voi: Anni fa ho letto un libro bello: Prima di sparire di Covacich. Un romanzo ben costruito, dolorosamente autobiografico, e che ho apprezzato, ma alla fine Covacich commette un terribile errore che io non gli ho perdonato: l’autore salva se stesso. Si mortifica, si cosparge il capo di cenere, ma alla fine non arriva fino in fondo. Ha la forza di mostrarsi cattivo, perfino crudele, e stronzo – molto stronzo! – ma c’è una cosa che evita accuratamente: non si mostra mai ridicolo e quindi brutto.  Per essere un grande, serve un coraggio che Covacich in quel libro non ha avuto. Il cantante dei Talk Talk l’aveva fatto. Se cercate un maestro di scrittura, scegliete lui.

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9 commenti Aggiungi il tuo

  1. Andrea Siviero ha detto:

    Personalmente trovo ispirazione nell’immagine fotografica. A volte provo a scrivere dal punto di vista di un fotografo, che ha davanti agli occhi una certa immagine, e decide di estrapolarla dal contesto e richiuderla in margini arbitrari. In particolare mi piace tentare di portare le regole di composizione fotografica in un testo. Allora provo a provo a giocare con il soffermarmi su certi dettagli che offrono possibili interpretazioni; in termini fotografici potrei dire che provo a posizionarli sulle linee forti (o sui punti forti) della suddivisione in terzi. 🙂

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  2. Zio Scriba ha detto:

    La penso uguale, ma temo che nel nostro paese io e te siamo in controtendenza: qui da tempo la politicizzazione prevale sul talento, l’ideologia militante sull’arte, il documentarismo con pretese sociologiche sul film intelligente, la sbrodolata “impegnata” e penosamente mediocre sul romanzo ben scritto, la seriosa e sterile pochezza sul brillante sarcasmo (ieri mi sono imbattuto nell’ennesimo de profundis intellettualoide contro l’ironia!), l’intrattenimento stereotipato e banale sull’originalità (quanti vogliamo ancora inventarne, di commissari del put: duecento? duemila? ventimila?)… Addirittura sublimi, poi, le tue parole su Roth e il Coraggio di rendersi anche ridicoli: ma qui la sola ridicolaggine (involontaria) è quella dei barbosi di successo.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Ma sai che tutto sommato non sarei dispiaciuto se in Italia il talento fosse sommerso dalla politicizzazione e l’arte dalla ideologia militante? Perché in Italia, non vedo nemmeno questo. Che ideologia militante c’è dietro i primi venti o cento libri in Italia? E di politica non parla più nessuno. Perfino la pochezza non è più seriosa. Forse in America è così – là il dibattito è (o è stato: le notizie che ho in merito risalgono a diversi anni fa) piuttosto acceso, su quale debba essere l’oggetto della scrittura. In Italia, questo dibattito non esiste. La critica militante non c’è. I libri vengono giudicati sulla base del gusto personale del recensore (il che, forse, è peggio). Non ci sono più dei Pasolini censurati, o dei Tondelli (!) messi al bando. Semplicemente, è calato il silenzio.
      Comunque distinguerei i due piani. Secondo me, c’è tanta gente che sa scrivere, in Italia e nel mondo, solo che i lettori scelgono altro – e in questo non vedo nulla di male. Prendi un autore come Thomas Bernhard, pubblicato da Adelphi: un gigante, ma paragonabile a Luigi Nono nella musica, o a Pollock nell’arte. E’ inimmaginabile che arrivi al “grande pubblico”.
      Gli editori che fanno scelte in controtendenza non vendono, e questo è sotto gli occhi di tutti. E i cataloghi dei grandi editori hanno delle perle incredibili che vendono pochissimo, e libri più semplici che vanno in classifica. Ho parlato con un’amica molto in gamba, qualche settimana fa – una donna con una cultura davvero ampia, interessi vastissimi, un’intelligenza molto superiore alla media. Legge moltissimo, ma praticamente solo Sellerio, e solo polizieschi in senso lato. Mentre parlavo con lei, mi era chiaro che la sua scelta era non solo legittima, ma assolutamente sensata. La letteratura è anche, e soprattutto, intrattenimento. Non credo esista un complotto per far leggere merda alla gente, e non credo neppure che i primi venti libri in Italia siano (tutti) cacca in scatola: sono cose leggére, ma spesso sono ben costruite e rispondono a un’esigenza tutt’altro che deplorevole.
      il mio discorso, soggettivo, è che a me questi libri non interessano da lettore, e questi libri, nel mio piccolo, non mi interessano da scrittore. Mi piace quando si va più a fondo. Ma è una questione di gusti, secondo me, o di esperienza, di interessi, di personali inclinazioni. Ho iniziato a leggere presto, e ho letto di tutto. Mi piaceva anche John Grisham, ma alla fine, a forza di leggerlo, mi ha annoiato e sono passato ad altro. Per intrattenermi, non uso più i libri, e a volte rimpiango quella fase. Se però qualcuno invece che passare il giovedì sera a guardare Masterchef per “staccare la spina”, legge un Camilleri, o un Manzini, o anche un Fabio Volo, tutto sommato mi pare una cosa bella. Dici che potrebbero leggere di meglio? Possibile. D’altra parte c’è gente che suona jazz in locali di venti metri quadrati, e altri che cantano rock negli stadi, e la cosa non mi stupisce e non mi indigna. Dietro uno come Vasco Rossi (che io detesto, per inciso) non c’è un’industria discografica furba e disonesta che piazza un prodotto scadente a un pubblico di babbei; così come dietro Fabio Volo non c’è una lobby prezzolata di critici ideologizzati e politicamente orientati: i critici lo stroncano, a dire il vero, e gongolano nel farlo, e la gente se ne frega. Leggevo qualche giorno fa un’intervista a Dan Brown, lo scrittore più venduto del ventunesimo secolo, e l’ho apprezzato: diceva che la sua soddisfazione più grande è sapere che con la montagna di soldi che la Mondadori guadagna con i suoi libri, si possono pubblicare autori che altrimenti non vedrebbero mai la luce, sottintendendo, giustamente, che per questi autori il ritorno economico non c’è. Eppure la Mondadori li pubblica, sapendo già che andrà in perdita, e questo non lo diciamo mai. Perfino noi, che cerchiamo di essere un po’ più consapevoli nelle scelte, raramente peschiamo un autore eccezionale tra le pubblicazioni della piccola editoria – fose abbiamo iniziato a farlo adesso, che nella piccola editoria ci viviamo, ma prima? Anche gli editori “cattivi”, queli che vendono un sacco, hanno cataloghi eccezionali, in termini di qualità. La Newton Compton ha fatto ritradurre l’Ulisse di Joyce con un risultato riconosciuto unanimanente come eccezionale, e ora lo trovi in vendita a 4 euro e 16 centesimi su IBS: se lo può fare, è solo grazie ai libri a 9.99 venduti nelle librerie delle stazioni, e comprati da persone che hanno voglia di passare un viaggio leggendo qualcosa, invece che stare su Facebook. Sono abbastanza convinto che gli editori vorrebbero pubblicare solo “roba buona”; ma, banalmente, la maggior parte della gente intende l’esperienza della lettura come qualcosa di completamente diverso da come la intendo io. Certo, se qualcuno mi chiede un consiglio, dico: leggete cose per cui valga la pena perdere del tempo, e scrivete cose di cui possiate essere orgogliosi. Se però leggete altro, o scrivete altro, non avete nulla di cui vergonarvi. Semplicemente, io non vi leggerò. 🙂

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      1. Zio Scriba ha detto:

        Anche se avrei qualcosa da ridire su alcuni singoli passaggi (per esempio la frase di Dan Brown mi pare la classica bella ruffianata troppo facile da dire e troppo spesso ripetuta – che ne sa lui se parte dei proventi dei suoi bestseller viene davvero investita in direzione del talento e della qualità?) la tua chiusura è talmente convincente e condivisibile che non posso aggiungere altro che un gigantesco (e apparentemente banale) MI PIACE. 😀

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  3. Renato ha detto:

    Ma… non è che sono importanti entrambi, il cosa e il come, ed il vero, raro, capolavoro é quando il buon contenuto é scritto bene?

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Madame Bovary è un capolavoro che parla di niente….
      Il dibattito tra forma e contenuto va avanti da anni, e senza alcun risultato…. Diciamo che per me, ciò che conta è la forma – nel senso che io cerco libri che abbiano una voce unica e riconoscibile. Martin Amis ha scritto molti libri dei quali non riesco a cogliere il messaggio, e che io amo da impazzire. L’ultimo libro con un messaggio importante e uno stile “grigio” che sono riuscito a finire è “The reader” (o “A voce alta”). Me lo sono imposto, ma non è rimasto niente. Comprendo comunque chi invece cerca il cosa al posto del come, o chi li cerca entrambi! 😉

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  4. Simone ha detto:

    Ecco perché penso che leggere una cosa piuttosto che un’ altra, come scriverla magari, oppure andare il sabato sera in pizzeria piuttosto che al cinese, al mare invece che in montagna e così via, sia un po’ come quella sensazione che deve provare una donna in stato interessante, almeno all inizio, quando magari ancora non sa di esserlo, e vede tutte le donne in stato interessante, oppure quando una persona è innamorata e ascolta quella canzone decine di volte e pensa sia stata scritta solo per lui/lei. Tutto vero, legittimo e bello. Nota personale, brano e video dei Talk Talk madeleine della mia adolescenza, sulla Cagiva del mio amico, lui che era convinto che il loro uso delle percussioni non avesse pari in nessun gruppo di quei tempi e forse aveva ragione. Grazie per avermelo ricordato.

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  5. Grazia Bruschi ha detto:

    che bello leggerti

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  6. Riccardo Fumagalli ha detto:

    Ciao Paolo, grazie per aver condiviso questa bella riflessione. Mi permetto di aggiungere che Mark Hollis può, e dovrebbe, essere un punto di riferimento artistico in senso anche più ampio. A partire con il lavoro fatto con i Talk Talk, un gruppo che ha dimostrato che la canzone pop orecchiabile può anche essere intelligente e ben suonata (e viceversa) e che ha avuto il coraggio di staccarsi dalle chart per lanciarsi in territori più sperimentali chiudendo la carriera con due dischi fenomenali che svuotano il suono e salpano verso acque inesplorate. E così se ne va Hollis dall’industria musicale, con un disco solista ancora più silenzioso, abitato da suoni come gocce sparse di inchiostro e acquerello, da apprezzare in cuffia. Se ne è andato dalla festa in punta di piedi, chiudendo piano la porta per non disturbare nessuno e non si è più visto. Un’esempio commovente di integrità artistica.

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