Andrea Tarabbia – una conversazione

Scrivere  è un atto squisitamente solitario: in questo preciso momento, immagino migliaia di esseri umani chini sul loro pc, o con una penna in mano, tutti intenti a creare, silenziosamente, una storia. Ma scrivere è, da un altro punto di vista, un atto clamorosamente pubblico: il vero scrittore osa mettere la propria vita sul tavolo delle autopsie e affondare il bisturi fino in fondo, di fronte a un pubblico potenzialmente illimitato.
Parlare con uno scrittore consente di unire questi due estremi dell’atto creativo. E’ un’occhiata che si lancia nel retrobottega, una sbirciatina a ciò che sta dietro a un romanzo o a un racconto, una piccola indagine nell’anima segreta di un autore. E’ per questo motivo che quando ho la fortuna di conoscere uno scrittore che mi piace mi faccio un po’ di coraggio e gli chiedo se ha voglia di scambiare due parole con me.

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Andrea Tarabbia

A fine settembre, grazie a Marco Drago, ho avuto la fortuna di far parte di un piccolo manipolo di persone invitate a passare una settimana a San Pietroburgo, seconda città della Russia, a parlare di libri e a visitare palazzi e musei. Tra questi compagni di viaggio, c’era anche Andrea Tarabbia, scrittore italiano di Saronno, bolognese d’adozione (anche se forse lui non si sente di essere un nuovo figlio di questa città), che ha esordito nel 2010 con La calligrafia come arte della guerra per la Transeuropa. Un anno dopo approda a Mondadori con un romanzo che ha fatto molto parlare di sé, Il demone a Beslan, storia di uno dei terroristi (o combattenti, o guerriglieri) che nel 2004 avevano preso d’assalto una scuola dell’Ossezia, nel Caucaso; nel 2015, con Ponte delle Grazie pubblica Il giardino delle mosche, autobiografia immaginario di Andrej Cikatilo, l’uomo che tra il 1978 e il 1990, in Russia, uccise 53 persone.
Durante la settimana passata insieme, abbiamo chiacchierato in più di un’occasione – ricordo in particolare una chiacchierata fatta mentre bevevamo un caffè in un bar in Prospektiva Nievskij, il giorno prima di tornare in Italia. E’ stato là che mi è venuta voglia di contininuare quello scambio di idee – di sapere di più. Ecco dunque la prosecuzione di quel caffè. Buona lettura!

 

Nei tuoi ultimi due romanzi (Il demone a Beslan, Mondadori, 2011, e Il giardino delle mosche, Ponte delle Grazie, 2015), il tema centrale è il male: un male imponente, gigantesco, ineludibile. Sono convinto che la letteratura debba SELRES_93c966c8-ee34-4127-bfcb-1c092aada866parlare SELRES_93c966c8-ee34-4127-bfcb-1c092aada866soprattutto di questo; tuttavia la tua scelta è per certi versi estrema. Come nascono questi due libri? Sotto quale spinta, da quali riflessioni?

Ho scritto un lungo pezzo, a questo proposito, che è anche una specie di autoanalisi e di ricerca dei motivi della mia scrittura; partivo da una considerazione semplice, molto più banale di quella che fai tu nella domanda: nei miei libri c’è sempre qualcosa di storto, di deforme e di demoniaco; io sono una persona tranquilla, priva di ossessioni e di pose, e senza scandali o traumi gravissimi con cui fare i conti. Come è possibile che, quando prendo in mano la penna, il mondo che creo sia così serio e così cupo? È tutto, credo, un processo di elaborazione per immagini di certe esperienze autobiografiche in cui, attraverso le persone che amavo, sono entrato in contatto con la malattia, con la stortura, con la debolezza.
NZOPoi la questione del male. Il male non mi interessa in quanto tale, non mi interessa per così dire in sé: mi interessa solo quando viene praticato nella convinzione di fare il bene, quando è una forma storta, deforme di bene. Non so se riesco a spiegarmi: tu fai riferimento al terrorista che scrive il Demone e alla confessione-autobiografia apocrifa che è Il giardino delle mosche: i protagonisti-narratori, Marat e Andrej, hanno in comune, prima di essere qualcuno che ha compiuto il male, il fatto di non considerare malvagie le loro azioni, ma in qualche modo naturali, o doverose, o dolorose ma necessarie. È questo che mi interessa: come vivono quelli che la pensano in modo tanto radicalmente diverso dal mio che, per cercare di comprenderli, avrei bisogno di scrivere un romanzo? Questa è, forse, una delle domande che sta sotto quello che scrivo: per rispondere, mi tocca scrivere ogni volta quel romanzo.

 

Come è stato intraprendere un percorso di questo tipo – questa dolorosissima discesa negli inferi?

il-giardino-delle-mosche-9788868334581Io impiego molto tempo a scrivere i miei libri, mediamente tre anni. È stato così per il Demone, per il Giardino e lo è per il libro che sto finendo in queste settimane, e che ho cominciato a pensare all’inizio del 2014. Generalmente, di questi tre anni, i primi due sono dedicati a non scrivere il libro. Neanche una frase (posso stare tranquillamente per tutto quel tempo senza scrivere una parola). Sono anni di studio, di recupero delle fonti, di lettura, di interviste, di sopralluoghi, di appunti, di immaginazione di scene possibili. Sono anche e soprattutto gli anni in cui, per così dire, inghiotto tutto il dolore di cui leggo. Ci sono stati dei momenti, lavorando per esempio al Giardino, in cui leggevo le descrizioni di quello che Andrej faceva alle sue vittime, che spesso erano molto giovani: ecco, in certe occasioni mi sono detto “Non ce la faccio”, ho chiuso ciò che stavo leggendo e sono uscito a prendere aria. Quando, due anni più tardi, mi sono trovato con la penna in mano a dover scrivere alcune pagine su quello stesso episodio non ho avuto nessuna difficoltà emotiva né morale: perché avevo già elaborato la cosa nella fase di studio. Arrivo insomma al momento della scrittura molto preparato e, per così dire, emotivamente allenato: non mi resta che scrivere nel miglior modo possibile.

 

Nel romanzo “HHhH“, Laurent Binet affrontando la difficoltà di inserire dei personaggi reali all’interno di un romanzo, usa la parola “imbarazzo”: mentre tenta di raccontare una storia reale, continua a domandarsi se quella persona realmente esistita avrebbe potuto dire esattamente quelle parole. Ti sei mai sentito in difficoltà, nei tuoi due ultimi romanzi? La raccolta di documentazione ti ha aiutato in questo lavoro? Un romanziere ha comunque il diritto di inventare?

Tieni conto che Binet è spesso ironico, in quei passaggi di HHhH: ci prende in giro, è il suo modo per fare un romanzo fingendo di non volerlo fare. In ogni caso: sì, ho i miei momenti difficoltà, ma per fortuna sono pochi e durano poco. Come ti dicevo, arrivo molto preparato alla fase della stesura: anche se non ho in testa il romanzo al 100%, ho la sua struttura, le sue parti, i suoi personaggi, le quattro/cinque scene fondamentali. Dunque di fatto il processo di scrittura è simile a un lavoro di cucitura, in cui metto insieme documenti, racconto e immaginazione.
hhhhLa questione dell’uso dei documenti è centrale per me, ed è anche una forma di aiuto nei momenti difficili: di fatto, avrai sempre una lettera, un episodio storico che può suggerirti una svolta, un innesto e farti scrivere quella mezza pagina che a volte è sufficiente scrivere per uscire da una piccola crisi. L’altro lato della medaglia è il come usarli, come interpretarli e, come dici, il “diritto all’invenzione”. Io la vedo così: nessuna delle storie di cui mi sono occupato finora (ma, in fondo, nessuna storia e basta) è documentata al 100%. Sulla strage di Beslan, all’epoca in cui ho scritto il libro c’erano almeno due versioni “ufficiali”, ognuna delle quali, peraltro, aveva delle incongruenze. Ma in generale, è difficile trovare una documentazione che soddisfi per intero le esigenze di uno scrittore, perché, anche se sapessimo tutto, ma proprio tutto dell’avvenimento x o della persona y, non sapremmo comunque il colore della tovaglia su cui ha fatto quel pranzo importante, o il modo in cui teneva la sigaretta tra le labbra, il timbro della sua voce quando gridava – tutti particolari che a uno storico non interessano,

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Andrej Cikatilo

ma che invece fanno il personaggio per un romanziere. Dunque è chiaro che, anche quando si vuole inventare il meno possibile, si deve inventare (a questo credo alluda Binet quando parla di “imbarazzo”). Inoltre, come dicevo, ogni lavoro di documentazione, per quanto lo scavo nelle fonti sia approfondito, lascia dei buchi – momenti (ma a volte anni!) della vita di qualcuno in cui non si sa cosa sia successo: tu hai un personaggio, sai che a 20 anni ha fatto una cosa e a 22 un’altra. Sui due anni che intercorrono tra questi due eventi non hai informazioni, perché non ci sono carte o perché gli storici non li hanno considerati importanti. Tu però hai davanti un personaggio che, ovviamente, in quei due anni ha conosciuto un’evoluzione, e in qualche modo la devi motivare narrativamente. Ecco, lì interviene l’immaginazione, l’invenzione: devo portare x dai 20 ai 22 anni, quando ne aveva 20 era così, adesso che ne ha 22 è cosà. Come ci arriva? Insomma, l’invenzione serve in due modi: per immaginarsi il colore del mondo intorno a un documento e per riempire i buchi della storia.

 

Tu, oltre a essere uno scrittore, sei un intellettuale piuttosto attivo anche sul fronte della critica, il che ti porta inevitabilmente a riflettere sulla scrittura e le sue “tecniche”, sul romanzo, sulla sua struttura. Quando ti metti a scrivere, non ti senti mai vincolato da questo bagaglio teorico? In altri termini, ti è mai capitato di sorprenderti a valutare l’efficacia di una forma retorica, o di pensare a una tua opera in lavorazione con lo stesso sguardo con il quale analizzi i romanzi altrui?

È come se un compositore, mentre compone, pensasse al solfeggio o alle lezioni di armonia che faceva al Conservatorio: li conosce, li può ripescare dalla memoria se ce n’è la necessità, ma non credo che pensi ad essi quando ha in mente un motivo e deve costruirci sopra un impianto armonico.
Mi considero fortunato ad aver compiuto un ciclo di studi che mi ha reso consapevole di com’è, di “come funziona” una forma narrativa. Ho tutto un vocabolario tecnico a disposizione, e teorie, e libri che mi spiegano come si muove il testo e così via. Però ho la fortuna di non sentirmi vincolato, ma di prendere soltanto la parte positiva di queste conoscenze – vale a dire la consapevolezza che quello che sto facendo è “strutturalmente” buono o meno buono – e di lasciarmi alle spalle tutta la teoria. Io ho studiato queste strutture come se fossero le fondamenta su cui poggia il linguaggio che io voglio usare – quello della letteratura, e le considero come tali: fondamenta. La letteratura è il resto della casa, e l’arredamento.

 

In settembre, tu, io ed altri scrittori abbiamo trascorso una settimana a San Pietroburgo, in un evento organizzato da un’associazione culturale italorussa, e per quanto mi riguarda, devo dire che l’esperienza è stata decisamente positiva. Tu, per gli studi che hai compiuti, avevi già avuto modo di confrontarti con la cultura russa. In che modo ti sei occupato di letteratura russa, all’università? Ritieni che quest’ultimo viaggio, dove hai avuto la possibilità di confrontarti con altri scrittori, e con un pubblico di lettori russi, abbia aggiunto qualcosa alla tua visione della Russia? Personalmente, ho avuto l’impressione che in Russia ci sia ancora un certo rispetto per la figura dello scrittore – un’attenzione che in Italia faccio fatica a ritrovare. Pensi che l’idea che mi sono fatto sia in qualche modo una distorsione, o anche tu hai avuto questa stessa impressione?

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Andrea Tarabbia fotografato da turista cinese a San Pietroburgo

Il mio rapporto con la Russia è culturale e, per così dire, sentimentale. Ci sono stato sette volte in meno di vent’anni, mai per periodi più lunghi di due mesi ma, insomma, dopo l’Italia, credo sia il posto dove ho vissuto più a lungo. È un amore che è nato in astratto, sui banchi del liceo: il prof. di matematica spiegava gli integrali, io non li capivo e non mi interessava farlo, allora occupavo le ore leggendo sottobanco le Memorie del sottosuolo, Delitto e castigo, le poesie di Majakovskij – ma tutto per un caso: cominciai a leggere Dostoevskij perché lo nominava Iggy Pop in una cover che faceva di Louie Louie, così andai in libreria, presi il libro più breve (appunto le Memorie), lo comprai, tornai a casa e basta, da lì cominciò una fase nuova per me. Dico sempre che la Russia e la sua letteratura mi hanno insegnato a leggere, il che equivale, per uno scrittore, ad avere un debito enorme di riconoscenza. Quando si è trattato di decidere cosa fare all’Università, la lingua e la letteratura russa sono state in un certo senso una scelta naturale. Ogni volta che torno là, soprattutto a Pietroburgo, che è la prima città che ho visto e quella dove è ambientata la maggior parte dei libri verso i quali ho quel debito di cui ti dicevo, mi sembra un atto di giustizia nei miei stessi confronti: sono dove so che tornerò sempre, penso, perché in qualche modo questi spazi, questo vento, questi colori e questo odore mi appartengono. Che cosa mi affascina, da sempre, della Russia? È difficile dirlo: la sua storia, che è tragica e grandiosa insieme, e che contiene tutto l’orrore, ma anche tutta la bellezza che l’uomo è in grado di creare; quell’atmosfera slava, dura, che trovo sempre meno ma che pure c’è; e il fatto che tutti, o quasi, sappiano almeno una poesia di Puškin a memoria, che i libri – questi oggetti che da noi sono diventati un orpello per certe élite – stanno ancora nelle mani delle vecchiette, degli impiegati che prendono la metropolitana, e che quando un loro politico (per quanto possa essere un essere ignobile) cita una frase da un romanzo o da un poema, ecco, l’ha letto davvero, sa di cosa

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Con Evgenij Vodolazkin, in uno studio a Puškinskij dom

sta parlando. Della Russia si dice (e ce l’ha detto, se ti ricordi, anche Evgenij Vodolazkin) che è il Paese più letterariocentrico del mondo: è vero. E questa cosa mi commuove e mi sbalordisce ogni volta. Il nostro viaggio è stato per me molto divertente, ho conosciuto persone con cui mi va di restare in contatto, ho visto posti che non conoscevo (il Puškinskij dom, per esempio), e sono tornato a Piter dopo sette anni: ogni volta che la vedo è diversa, più occidentale, più pulita e in una parola meno particolare, meno “russa”. Però è lì, con la sua acqua e la sua memoria. Ma siamo rimasti troppo poco tempo, e soprattutto era tutto troppo organizzato perché potessi cavarne un’impressione nuova: in altri viaggi, che ho fatto anche da solo, ho dovuto districarmi nella loro burocrazia (che ti fa benedire la nostra), incontrare persone per questioni di studio, capire, che so, come si fa un abbonamento della metro e altre cose così, quotidiane e normali, che mi hanno fatto vivere uno spicchio di quel mondo. Solo così ti fai davvero un’idea di un posto. Il nostro viaggio è stato per me l’occasione di riprendere contatto con quei luoghi, di dire «Ehi, ci sono ancora, sono tornato, prima o poi ci incontreremo di nuovo».

 

 

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  1. Paolo ha detto:

    Interessantissimo!

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