Il paradiso perduto

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Ho passato tutte le estati dei primi dieci anni della mia vita a Norcen, un minuscolo paese sopra a Pedavena. Non so se l’infanzia sia capace di regalare magia a ogni luogo, o se Norcen possedesse qualcosa di speciale: so soltanto che ieri, dopo aver trascorso una giornata là, e aver ritrovato persone che non vedevo da anni, ho sentito chiaramente che io sono anche quei posti, e che quei posti sono un po’ me. Assieme a Patrizia, figlia di Bianca e Angelino, e con Nicoletta, sorella della Franca, e con Daniela, Nerina, Antonietta, Tiziano (figlio della Lisa), abbiamo ripercorso gli ultimi settant’anni di storia delle nostre famiglie. E alla fine, mi è venuta voglia di mettere anche qui, su Grafemi, un vecchio post che avevo scritto alla fine del 2006, quando mia madre era in ospedale in condizioni critiche (ora tutto bene!), e io sentivo fortissimo il richiamo di un’infanzia che era stata perfetta…

Mamma, guardaci!

A fine giugno, di mattina, si partiva per la montagna. Sul sedile, le coperte da portare in montagna, che ci pizzicavano le gambe; sopra la macchina, il portapacchi caricato come nelle carovane dei beduini; dietro il portabagagli pieno.

Capivamo di essere arrivati solo quando vedevamo Pedavena: c’era un muro di cinta di una villa fatto di grosse pietre che costeggiava una curva, e quello era il segnale. Poi la birreria, con il suo ristorante in stile bavarese, e lo zoo che si intravedeva dietro gli alberi, e poi l’incrocio: a sinistra per Croce d’Aune, a destra per Norcen – e noi a destra, verso il più piccolo paese del mondo, il giardino della nostra infanzia.

IoIo, davanti a casa

La casa dove abitavamo era su due piani: nella parte bassa, c’era la cucina, il cui soffitto era una volta di pietra perennemente ricoperto dall’umidità, una specie di grotta sempre fresca; sempre a pian terreno, dietro ad una porta, si apriva un’altra stanza, con un lavandino per lavare i piatti e due metri di buio nel quale non mi avventuravo mai (lì, la sera, mia mamma posizionava le trappole per i topi – per quei topi che, si diceva, mangiassero i gatti del paese). La porta che separava queste due stanze era di legno, ma nella parte alta aveva un vetro satinato: nelle giornate di pioggia, mio papà muoveva le mani dietro quello schermo e noi, seduti come al cinema, indovinavamo quali animali imitava.

La cucinaLa cucina

Con una scala esterna si arrivava alle camere – la prima era quella dei miei genitori, mentre la nostra, quella mia e dei miei fratelli, era alla fine del corridoio.

Sopra le scale
Noi sopra le scale

Il bagno – il cesso – si trovava fuori, a più di venti metri: una casetta di assi di legno non verniciato, con una porta che si chiudeva male, e, dentro, un buco nel mezzo sul quale sedersi. Alla fine dell’estate, un contadino del posto ci chiedeva se poteva usare il nostro prodotto interno lordo, per concimare i suoi campi. L’estate dopo mangiavamo le sue zucchine, cresciute con il nostro sforzo.
Per andare al cesso, si passava davanti ad un pollaio, con la rete che dava verso questo sentiero – sguardi vacui di galline – e si camminava sotto una vigna, con le foglie punteggiate di verderame, la frescura, i grappoli ancora acerbi sui rami. Il mio primo campo da calcio è stata quella stradina ricoperta d’erba, che calpestavo per andare a fare la cacca. E tra la nostra casa e quella che c’era dietro, si apriva una specie di corridoio largo un metro, e sempre fresco. Nei pomeriggi più caldi ci mettevamo là, seduti, e ascoltavamo Patrizia, la figlia di Bianca e Angelino, che suonava la fisarmonica.

La mattina, io, i miei fratelli e mia mamma, e amici del posto (Bruna con i suoi bambini, o qualche amichetto, o Grazia, la moglie di Enrico, con i miei lontani cugini) partivamo per scendere a Pedavena, a piedi. La strada, tutta in discesa, passava davanti alla casa dei miei nonni – anche loro in vacanza a Norcen – poi nei pressi della Colonia – probabilmente un campo di prigionia per figli disobbedienti, con i bambini che ci guardavano attraverso la rete metallica. Poi, costeggiavamo il muro di cinta della Colonia, che, scendendo lungo la strada, si alzava fino a diventare alto qualche metro: da quel muro si era staccato un pezzo di intonaco, lasciando un buco che riproduceva, perfettamente, il profilo dell’Africa e noi ci chiedevamo, stupiti, se tutto questo significasse qualcosa. Quindi arrivavamo al curvone, che passava sotto ai tralicci dell’Enel (si udiva il rumore, inspiegabile, che fanno i fili dell’alta tensione) e poi l’incrocio con la strada, quella che a destra saliva verso Croce d’Aune, le prime case, la piazzetta, Pedavena.
Lì, mia mamma comprava la verdura, la carne, e il pane, in un piccolo supermercato all’angolo. Andavamo anche in edicola, una di quelle vere – non le casupole di lamiera che ci sono adesso – e dentro c’era l’odore della carta, e i Topolini esposti, e i giornali (ricordo un Corriere della Sera con la notizia della morte di Paolo VI in prima pagina), e le macchinine, le figurine, e quel giochino con un animale che, se premi sotto, lui piega le zampe, e quel cilindro che se lo giri fa il verso della mucca. Il venerdì usciva il Corriere dei Piccoli. Qualche volta, si andava anche al bar, dove mia mamma prendeva un caffè, e noi un’aranciata. Per tornare, a volte prendevamo un vecchio pullman, altre volte il taxi, che costava cinquecento lire: una Mercedes blu, vecchissima, guidata da un sosia di Berlinguer.

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Ogni paese che si rispetti è popolato da persone e da personaggi. Le prime sono il sottofondo informe delle giornate, comparse, gente comune; i secondi, invece, maschere della commedia dell’arte, macchiette, caricature senza l’originale.
C’era Kennedy, sempre ubriaco, capelli rossi e riccioli tirati indietro, e gli occhiali con la montatura nera e grossa, rabbioso la sera, scarponi grossi sporchi di terra, le mani tozze. Suo fratello Quinto, con un A112 Abarth – dopo cena, profumato, partiva scoppiettando per andare a ballare.

Pierina, da sempre ultracentenaria, con la sua cesta per la legna appoggiata alla schiena ormai parte del suo corpo. E i fratelli Arturo e Silvio detto Graspo, ormai vecchi, tornati da poco, con chissà quale speranza di giovinezza, dal Belgio (paese dentro il quale avevano passato i loro anni migliori: cioè proprio dentro, in una miniera); Arturo era stato un partigiano, tra quelle montagne, durante la seconda guerra mondiale, e ora beveva vino sotto una pergola in piazza, assieme a Graspo, il cui figlio, Tiziano, della mia età, viveva a Novara, a 400 km di distanza – e a noi piccoli questo non sembrava strano. E il loro orticello, dove ogni sera andavo a sfilare una carotina croccante, la magia della terra che produce cibo. Armando, che sembrava Starsky, e suo padre in sedia a rotelle, la loro cagna Laika – non era molto che si era andati sulla luna – la 127 arancione. Irlando, che aveva piantato dei girasoli in due metri di terra al limite della nostra casa, ed ogni estate lo stesso dialogo di un’ora con mia mamma: vuole che li tolga? Se vuole li tolgo. Ma se vuole li lascio. Vuole che li lasci?

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E c’era l’immancabile bar del paese – da Antonietta – e, sopra, l’Albergo Sole, i cui ospiti scendevano a pranzo nella sala ristorante – li vedevamo, e ci sembravano ricchi, quasi nobili. Sotto l’albergo, c’era il bar del paese dove gli uomini bevevano vino da quando erano giovani, bestemmiando e giocando a morra, e dove noi bambini guardavamo la televisione, alle 18.45 – Rin Tin Tin, Furia cavallo del west, Orzowei, stanchi e felici per l’incanto di giornate passate a giocare in mezzo ai prati, sotto il sole. Intanto, in parallelo, le nostre mamme ci preparavano la cena: ricordo le zucchine, quelle del contadino coltivate con il nostro sforzo estivo, e i pomodori con il ripieno di tonno, maionese e olive, e i panini da mangiare al volo, per giocare ancora.
Ma prima di tornare a casa – la nostra era dieci metri dal bar – passavamo dalla rivendita del latte, tenendo tra le mani un pentolone,  – i contenitori di ferro arrivavano dalle stalle, ancora tiepidi, il latte appena munto, e lo versavano nelle nostre marmitte. Si increspava, rigandosi, e girando con volute.

Alberto
Mio fratello Alberto

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Mio papà in luglio lavorava, e ci raggiungeva il fine settimana. A Norcen eravamo completamente isolati: non esistevano telefoni, se non quello, pubblico, al bar da Antonietta. L’arrivo di mio padre era, pertanto, assolutamente imprevedibile – ma intorno alle cinque del pomeriggio del venerdì io e i miei fratelli iniziavamo a scendere lungo la strada che portava a Pedavena, cercando di scorgere, per primi, l’Audi 80 arancione. Un venerdì c’era stato un temporale di montagna, quelli che lasciano il cielo terso, la strada scura e profumata, e le lumache lungo il ciglio, l’erba che luccicava, e papà stava arrivando, noi neanche trent’anni in tre – capire sulla propria pelle, nelle proprie narici, nel profondo di cuori stupiti, cos’è la quiete dopo la tempesta.

Davanti alla CanonicaDavanti alla Canonica

A ferragosto c’era la festa dell’ospite. Di giorno noi bimbi mangiavamo in lunghe tavolate davanti alla Canonica. Il pomeriggio gara di corsa, duecento metri in mezzo al paese – nell’unica che mi ricordo, il cielo era grigio, e il pettorale (fatto di quella carta impermeabile che si usava negli anni settanta) continuava a staccarsi. Avevo il fiatone, che era diventato quasi doloroso al traguardo, quando ho tagliato il filo di lana bianca. La sera, c’era il palo della cuccagna, e sembrava di essere in certi quadri di Bosch. Dai paesi vicini, arrivavano certi uomini-scimmia che, nel cuore della notte illuminata da fari, si sfidavano arrampicandosi a torso nudo lungo un tronco liscio e oleoso piantato vicino al campetto da calcio (di giorno, noi bambini riuscivamo a cingerlo solo mettendosi in quattro). Il vincitore, che era riuscito ad arrivare in cima, se ne andava, tornava al suo paese, come un professionista in tournee.

I gattini che portavamo a casa – spelacchiati, con gli occhi pieni di croste, o orecchie masticate in chissà quali sfide – e mia mamma che preparava il piattino con il latte, le loro linguette rosa che lappavano – c’era Billy, tutto nero, e Tom e Starsky, trovati nel Trugno, che alla fine dell’estate abbiamo portato a vivere a Feltre, in un elegante quartiere pieno di topolini. E il barboncino nero che abbaiava sempre – era di Daniela, la figlia di Antonietta – e il cane lupo di Emilia ed Emanuele, legato ad una catena sospesa nel vuoto lunga venti metri, e pareva una filovia che correva avanti e indietro lungo questa specie di rotaia – e noi avevamo sempre paura di lui, quando ci passavamo davanti, per andare verso la Chiesetta, sopra il paese.
E sul muro della Chiesetta, trovammo, un giorno, un’incisione del 1958, e il nome e il cognome erano quelli di mio zio, che veniva qui anche lui, tanti anni prima, così come veniva mia mamma da piccola, e sua madre da piccola – in carrozza da Venezia, un giorno di viaggio – turisti di città, Inglesi nelle colonie con i loro vestiti cachi. Era come aver trovato i graffiti sulle grotte, o le impronte di Lucy, la prima donna del mondo.

Turisti a Norcen
Nonni, mamma, altri

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E i sentieri di montagna, i funghi – velenosi – che portavamo a mia mamma da cucinare per pranzo, i ciclamini su tappeti di aghi di pino, le more e i lamponi, le farfalle nere con i puntini bianchi, una falce trovata abbandonata in mezzo ad un prato pieno di erba appena tagliata, i torrenti dove costruire piccole dighe di sassi, e una scarpa trovata sotto un sasso (noi pensavamo, speravamo, che fosse appartenuta a un partigiano passato da là tanti anni prima), la paura delle vipere, le ginocchia e i gomiti sempre ricoperti di sbucciature, le visite di piacere al cimitero – talmente lontani dalla morte da non capirla nemmeno – la rucola selvatica e i fiori di camomilla sfregati sulle mani, il paese visto dall’alto, noi che gridiamo da lontano “mamma, guardaci”, il giorno che diventa sera.

Il paradiso perduto.

Paradiso perduto

9 commenti Aggiungi il tuo

  1. luciaguida ha detto:

    In ogni personale microcosmo c’è un posto per le vacanze come quello da te descritto. Amato e odiato al contempo, ma sempre irresistibilmente attraente. Da cui fuggire per poter tornare. Col gusto della maturità e del ricordo. Abbracci

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Nel caso specifico di Norcen, fu solo amore! 😉
      Un abbraccio, cara Lucia!

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  2. giacynta ha detto:

    La cosa che ho subito pensato, guardando la I fotografia è che non hai perso quell’espressione…forse il paradiso non è proprio perduto!
    🙂

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  3. Patrizia ha detto:

    Ho appena finito di leggere e non posso che piangere, piangere di gioia.Grazie Paolo perchè i ricordi fioriscono in ogni momento e tu sei riuscito a renderli ancor più vivi. Ora vado a Norcen a far visita a mio padre Angelino come quasi tutti i giorni, ma oggi, che sono quasi una tua coetanea (per me è un onore!), ti porterò con me nella mia multipla gialla.Un forte abbraccio.
    Patrizia (figlia di Bianca e Angelino)

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Cara Patrizia, ti abbraccio forte anch’io! Spero ci siano altre occasioni per organizzare una rimpatriata di tutti quelli che hanno popolato Norcen tra gli anni sessanta e gli anni ottanta!
      A presto,
      Paolo

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  4. Sartori Brovazzo Daniela ha detto:

    Che sorpresa incredibile! E’ un ritorno ad emozioni che mai avremmo pensato di rivivere. Siamo Daniela e Donatella, cugine veneziane di Patrizia, figlie di Mario e Lilo, amici dei tuoi nonni. Dopo che voi avete lasciato quella casa, ci siamo andati ad abitare noi. L’angolo buio nel quale non ti addentravi mai, era però diventato un piccolo bagno, per cui non abbiamo potuto gustare le prelibatezze che il contadino vi portava!!! Un forte abbraccio a Lisi e a tutti voi e ancora grazie per la bellissima idea che hai avuto.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Care Daniela e Donatella, come vi ricordo bene! Avevate un’energia bellissima, che caratterizzava, tra l’altro, tutta la vostra famiglia “allargata”. E’ buffo come certe cose non spariscano mai, no? Siamo fatti di ricordi, e i nostri hanno dentro anche un sacco di Norcen. Ho visto le foto di Mario, vostro papà (me le ha mostrate Patrizia), e devo dire che ho rivisto l’uomo che ricordavo.
      Vi abbraccio forte e a presto!
      Paolo

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  5. Carlo Menegat ha detto:

    Ciao Paolo,
    sono Carlo Menegat ( abitavo vicino al capitello), fratello di Ivana e Sandra, la tua storia mi ha veramente commosso. Sei riuscito a farmi ritornare in mente tantissimi bei momenti della nostra infanzia ( sono coetaneo di tuo fratello Alberto). Spero vivamente che ci si possa incontrare in occasione di un’altra tua rimpatriata in questo tuo “Paradiso perduto”. Un caro abbraccio.
    Carlo

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  6. Alina ha detto:

    Ciao Paolo sono Alina e anch’io passavo tutta l’estate a Norcen,non so se ti ricordi io venivo dalla Francia e sono la figlia di Laura Ondoli.Adesso vivo a Murle e a Norcen ci ritorno spesso perchè è un paese magico con un’atmosfera unica.Grazie per avermi fatto rivivere quei momenti e le emozioni di quei periodi.

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