Disco inferno

Oggi mio fratello Alberto compie 45 anni. Vive a qualche migliaio di chilometri da qui, e devo dire che mi manca – specialmente in questo periodo, in questo momento in cui vorrei avere la possibilità di cambiare un po’  la sua vita. Questo post era stato scritto tre o quattro anni fa, con uno stile un po’ pop (che in questo periodo sto provando a sperimentare nuovamente) ed era comparso nel blog che avevo allora. Lo ripropongo qui non solo perché penso che sia un bel post (lungo, certo: ma credo che non sarà difficile arrivare fino alla fine..) ma anche per fargli capire che gli voglio davvero bene – e che nonostante le differenze apparenti che ci distinguono, siamo fatti della stessa identica sostanza.

La confessione

Il sole era già tramontato – – un fatto piuttosto comune, direi quasi quotidiano, almeno alle nostre latitudini – – ma non era ancora sera. Poeticamente camminavamo sotto quel cielo perlaceo che d’estate stringe il cuore, e invita le lucciole ad accendere il loro lumino e i pipistrelli a volteggiare sopra le teste impaurite dei villeggianti inesperti, e stavamo scendendo verso le Casette, poco sotto Norcen, dalle parti di Pedavena, un buco del culo del mondo mitemente montagnoso (dall’alto: i miei genitori e mio fratello più piccolo Fausto davanti, e li vedevamo ridere per qualcosa che dal mio punto di ascolto non si udiva; i miei nonni dietro, lentamente, in silenzio, tipo viale del tramonto, ma in discesa: in mezzo alla colonna, io e Alberto, cioè il secondo e il primogenito della nostra famigliola); ed eravamo arrivati alla curva, anzi, al curvone, il primo, quando Alberto mi fece una terribile confessione, così, a viso aperto: da grande farò il disk-jokey. Me lo disse serio serio.

Night Fever
Era il 1978, l’anno de “La febbre del sabato sera”, l’inizio della breve luminosa parabola di Tony Manero, il ballerino interpretato da un giovanissimo e magrissimo e probabilmente non ancora dianetico John Travolta, l’apice del decennio dei tre Bee Gees, cioè dei fratelli Gibbs, Barry (il bello), Robin (la checca, morto) e Maurice (il pelatino, morto). Era l’anno in cui i figli iniziarono a chiamare discoteche quei posti che i nonni chiamavano ancora balere e i genitori più moderni indicavano con un termine che forse era figo dieci anni prima, ma che ormai rivelava molte cose sull’età delle persone che la usavano, cioè dancing; Battisti, pure lui, aveva iniziato a mettere un po’ di elettronica sotto le sue canzoni.
E da questa parte della Manica, o dell’Oceano, nel 1978, i tre fratellini si presentavano con questa formazione: Alberto aveva dieci anni, io otto, Fausto sette. A volte mi chiedevo da dove venisse, mio fratello più grande: era davvero nostro fratello, quell’alieno? Certo, la somiglianza fisica parlava chiaro, i DNA non hanno fantasia. Ma tutto il resto? Ero sicuro che anche lui fosse cresciuto assieme a noi, sotto l’occhio vigile e severo di mio padre, e la cura affettuosa di mia madre: eppure, lui non era come noi, o noi non eravamo come lui, e quindi, per la crudele legge della maggioranza, in effetti non c’era dubbio che era lui a non essere come noi. E non era solo una questione di età: era diverso da sempre, e in tutto. Tanto noi eravamo ligi, ossequiosi, moraleggianti, riguardosi, per bene, tanto lui era scapestrato, ribelle, imprevedibile, fuori dal coro. Io e Fausto eravamo chierichetti; lui non andava più a messa da non so quanti anni, e ne aveva solo dieci. A scuola io e Fausto eravamo quelli che le maestre additavano come i modelli da seguire; Alberto no, Alberto era già il modello per i suoi compagni di classe, qualsiasi cosa pensasse al riguardo la sua disperata maestra. Alberto il primogenito che si scontrava sempre con mio padre in interminabili, terrificanti, logoranti litigate, Alberto il nipotino che a tre anni diede del fascista a mio nonno Anacleto (e lui diventò rosso in viso, ed iniziò ad urlare che lui aveva sempre votato socialista (ai tempi in cui votare socialista non era qualcosa di cui ci sarebbe dovuti giustamente vergognare) – ma non era vero, non aveva sempre votato socialista: prima di conoscere mia nonna, ed entrare, da povero orfanello dickensiano, nella sua grande, progressista, affettuosa famiglia, aveva avuto qualche simpatia per l’ordine che Mussolini aveva imposto all’Italietta – ma questo mio fratello non lo poteva sapere); Alberto, che quando organizzammo una vendita di giornali, sotto casa, nel settembre del 1978, e tutti i nostri amici svuotarono le loro case rubando Amica, Grazia e Gioia alle mamme, e ai papà “La mano nera”, cioè nientepopodimeno che il primo numero (dico: il primo numero, non la prima ristampa del primo numero!) di Tex Willer, che allora si chiamava ancora Tex Killer, e ci mettemmo, noi piccoli ladri di giornali, seduti per tre giorni consecutivi all’angolo tra Via San Giovanni da Verdara e Via Marcanova, come piccoli mendicanti, appoggiando tutta quella carta sul marciapiede, mettendo sassi perché i fogli non volassero via, e fermando ogni signora, ogni vecchietto, ogni uomo, ogni bambino che passava da quelle parti, implorando un misero acquisto, ecco, lui, Alberto, il mio fratello maggiore, quello che avrebbe dovuto mostrami “come si faceva”, dopo tre giorni di vendite, durante i quali guadagnammo sì e no duemila lire (che però non era poco, tenendo conto che un giornale non lo vendevamo a più di cento), poco prima delle sei di sera del terzo giorno sparì con tutto l’incasso, e tornò dopo un’ora tenendo in mano il 45 giri “Night Fever” dei Bee Gees, con Tony Manero in copertina, con il suo vestito bianco, la camicia nera, i capelli afro, il dito puntato verso l’alto, mostrando, mio fratello, una faccia del tutto inconsapevole – attenzione, non innocente, no: la faccia di uno incapace di intendere e volere, vittima di un vizio inestirpabile! –, e rischiò di venire ucciso a mani nude da una folla inferocita di bambini con le ginocchia e le mani sporche di marciapiede – lui, mio fratello sempre incompreso, ad ogni età, che sarebbe diventato, con il passare degli anni, un po’ dark, un po’ punk, un po’ grunge, ma sempre e comunque ribelle -– l’essere umano più vicino a me, nella mia infanzia, il bimbo di sei anni che insegnò al fratello di quattro a leggere dal suo sussidiario, una sillaba una volta, i sabati pomeriggio rossi del sole d’autunno (non gli sarò mai abbastanza grato per averlo fatto), ecco, quel fratello all’età di dieci anni mi comunicò che da grande avrebbe fatto il disk-jokey (non il DJ, che a quei tempi ancora non si diceva: proprio il disk-jokey). Io mi guardai intorno, per essere sicuro che non l’avessero sentito i miei, che non l’avesse sentito Fausto, del cui giudizio mi preoccupavo particolarmente, che non l’avessero sentito i miei nonni. Tu sei pazzo, pensai. Tu sei proprio fuori.

febbre sabato sera

Dei divieti
Pensavo che era pazzo perché il film “Febbre del Sabato Sera” era vietato ai minori di 14, e le discoteche erano vietate ai minori di 18, come i film porno, e doveva per forza esserci un motivo. O no? Il mondo degli adulti, allora, visto da un metro e mezzo di altezza, da quelle nostre facce glabre, da quei corpi carenti non solo degli ormoni che pochi anni dopo avrebbero fatto di noi dei veri uomini, ma anche, e soprattutto, dell’esperienza che ci avrebbe regalato il buonsenso, era qualcosa di molto vago, indefinito, e quindi minaccioso: da una parte c’erano i genitori – i nostri, quelli degli amici – e dall’altra c’era gente dalla quale ci si doveva sempre guardare: quelli che davanti alla scuola offrivano caramelle drogate (o le mitiche figurine con l’LSD sul retro), quelli che stavano sotto casa, o in piazza, con una siringa piantata nel braccio, quelli che rapivano i bambini e nessuno sapeva cosa ne avrebbero fatto, quelli che mettevano le bombe sotto le macchine dei carabinieri, che sparavano ai poliziotti e ai giornalisti, e e quelli che andavano in discoteca. La discoteca come tempio di… di cosa? Non sapevamo neppure quali fossero i peccati che si sarebbero potuto compiere nelle piste illuminate dalle strobo. Era il ballare, ad essere così pericoloso? Anzi: quel particolare modo di ballare, alla Tony Manero, così diverso dal piccolo trotto dei nostri genitori sulla pista da ballo nelle sagre paesane? Di sicuro c’era dell’altro: altrimenti, perché tanti divieti? Ma un padre e una madre dovrebbero sapere che niente viene messo in migliore luce, agli occhi dei figli, di ciò che viene vietato, o disprezzato, o negato. L’unico problema era: a dieci anni, dove sarebbe potuto andare, concretamente, mio fratello Alberto? In quale giardino proibito? Era troppo presto, troppo presto per tutto. Non si era mai visto un DJ di dieci anni. E neppure un ballerino di quell’età. Il suo sogno assumeva allora il sapore di un progetto per la vita (un progetto criminale, certo: ma pur sempre un progetto), e non quello un po’ appiccicoso che caratterizza i meri capricci. Desiderava qualcosa che non avrebbe potuto avere prima del 1986: una data che, vista da là, pareva 2001 Odissea nello spazio. C’era qualcosa di serio, in quei suoi propositi. Qualcosa di eroico.

Il Babek
Quattro o cinque anni dopo, a Lorenzago, durante un’altra lunghissima estate, Alberto, non ancora maggiorenne, con un po’ di muffa adolescenziale al posto dei baffi, decise di entrare al Babek Club, sottotitolo Dancing. Lo vedevamo da anni, il Babek: costeggiava la via che portava dal centro di quel piccolo paese di merda verso la sua periferia, altrettanto di merda, dove noi avevamo una bellissima casetta. Sotto, a pianterreno, c’era un magazzino, o una segheria – insomma, una di quelle cose che i montanari amano costruire per accatastare assi di legno, per parcheggiare la carriola d’inverno, per metterci un armadio per le asce, le seghe, i cappelli da alpini, e il cranio bianco di un cinghiale; sopra, invece, c’era una struttura assolutamente fuori luogo per quelle altitudini, attraverso le finestre della quale si intravedevano lucette soffuse, tendine vedo-e-non-vedo, riflessi roteanti di una sfera con gli specchietti che girava. Nessuno sapeva cosa ci fosse davvero, dentro al Babek. Una pista da ballo? Un’enorme distesa di materassi distesi per terra? (ok, no, questo l’avrei pensato una decina d’anni dopo: non quando ne avevo dodici). La gente comune – comune per un paese di montagna, non in generale: roba tipo Walter, un trentenne con un paio di occhiali spessi tre centimetri, un berrettino schiacciato sempre in testa, condannato da non so quale fioretto alla tuta perenne, che girava sempre su un Ape; o tipo Daniele, un mix tra Fonzie, James Dean e Pinocchio, con i jeans svarichinati, i capelli come Ringo Star, un papà soprano, le basette, la gobba, gli stivaletti neri con la cerniera, le spillette degli AC/DC e degli Iron Maiden sulla giacca jeans; o tipo Ruggero, un boscaiolo che aveva il viso buono e fiero, e le giacche di lana cotta prima che iniziasse ad usarle Marta Mazzotto, ma che amava bere (“sete”, dicevano i paesani), e che una sera svuotò la piazza con le sue urla ubriache piene di disperazione – la gente comune, dicevo, a Lorenzago passava le proprie serate trascinandosi dal Bar Centrale verso il Bar Kapriol, dal Bar Cooperativa Sociale al Bar Dolomiti, bevendo, ridendo, ruttando, bestemmiando, sempre più lentamente, fino a spegnersi nelle loro casette con i nani in giardino, e il camino grande per l’inverno. Al Babek Club, invece, ci andava solo la borghesia, la creme del paese: ad esempio il macellaio Mainardi, e suo fratello geometra (uno dei due era anche sindaco: ma era impossibile distinguerli), il banconista del Mini SuperMarket, con il suo braccio poliomielitico e lo sguardo ottuso, e un po’ di Tremonti del paese (per chi non lo sapesse, a Lorenzago un tempo vivevano i nonni del nostro Ministro del Disastro Economico; ora ci vive la sua amante ufficiale, con la quale lui, la controfigura del maialino Taddeo, passa l’estate con una naturalezza da marito e moglie). Arrivavano alla chetichella, uno alla volta, e salivano al primo piano, un po’ furtivi. Attraverso le finestre, era impossibile anche solo immaginare cosa facessero, là dentro. E Alberto, a quattordici anni, tanto fece, tanto insistette, che alla fine riuscì ad entrarci assieme ad un suo amico: e tutto questo insistere era dovuto al solo fatto che il Babek era l’unica cosa che nel raggio di una decina di chilometri (area che in assenza di una macchina corrisponde, per estensione, alla regione del Veneto) potesse essere scambiata per una discoteca. Io e Fausto, che sembravamo, che eravamo, due acidule zitelline, aspettammo fuori, un po’ distanti, in modo che nessuno ci potesse vedere mentre pregavamo per il nostro fratello maggiore privo di morale, entrato al Babek a quattordici anni, e dal quale forse non sarebbe mai più uscito. Rimase dentro un’ora, forse due. L’insegna del Babek Club, sottotitolo Dancing, continuava a lampeggiare, come un disco incantato. Le notti, in montagna, sono fredde anche d’estate; in quella, c’era anche una bellissima stellata. Quando finalmente uscì, noi, i due piccoli assiderati petulanti, gli chiedemmo cosa c’era, là dentro, ma lui fu evasivo: niente, disse con un mezzo sorriso, un po’ di gente che beve, qualcuno che balla, ma credo che si aspettasse molto di più, dal Babek Club – una pista luminosa, musica buona, ragazzi che saltano. Forse Tony Manero. O forse ci stava nascondendo qualcosa. Anni dopo ci entrai anch’io, al Babek. Cosa c’era? Niente, un po’ di gente che beveva, nessuno che ballava. Non voglio essere evasivo, giuro. Il mezzo sorriso ce l’ho per un altro motivo, davvero. Niente di interessante, tutto qua. Il Babek Club. Che storie.

La prima volta
Poco dopo, diventai grande anch’io. Alla fine degli anni ottanta, le discoteche avevano perso gran parte del loro fascino un po’ trasgressivo. Si sapeva che in disco si cuccava (era l’era dei paninari), e che prima o poi ci si sarebbe dovuti andare. Ogni tanto passavo davanti al Le Palais, in via Tiziano Aspetti, in Autobus, per andare a trovare la Michela Foresti, o la Misu, o Federico Bernardinello detto Berna, e vedevo decine e decine di ragazzi che aspettavano di entrare, alle tre o alle quattro del pomeriggio: a quei tempi (ora non so come si usa) per i minorenni c’era lo “spettacolo del pomeriggio”. Erano tutti tappati per bene, là davanti, sotto il sole o la neve, imperturbabili, in attesa della loro dose di disco: le sfittinzie cotonate e con i jeans che facevano il culo a forma di cuore, i galli di dio con il Monclair, i risvolti Naj Oleari, e un etto di Gommina in testa. Un sabato di ottobre, mi organizzai con due amici, Corrado e Marcello, e insieme andammo all’Ippopotamus, in via Savonarola, davanti al Collegio di preti nel quale studiò mio padre. Lo ammetto: ero emozionato come se entrassi (l’ho già detto?) in un cinema porno. C’era un senso di divieto da violare, di peccato annunciato – e visto che era già un bel po’ che peccavo, e di brutto, cioè molto più di quello che i genitori pensano pecchino i figli, soprattutto quelli bravi, be’, era buffo che comunque avessi il batticuore. Entrammo. Eravamo i più vecchi. Una volta, lì, in quella sala, c’era un cinema, l’Olimpico. Avevo visto qualche film, là dentro, anche se ora non ricordo quali. Forse Biancaneve, dovrei chiedere ai miei. Be’, c’era lo stesso buio. Ma non doveva trattarsi di una prima visione, quel pomeriggio in discoteca, perché c’era un sacco di spazio libero, un senso di vuoto un pochino triste. Sembrava il circo per le scuole: due leoni vecchi, un pagliaccio sfiatato, scimmie che prendono per il culo anche il loro domatore. Qualcuno ballava, molti bevevano coca-cola, tutti prima o poi finivano stravaccati sui divanetti. La musica era pessima. Strano pensare che fuori ci fosse ancora il sole, e dentro tutto quell’oscurità. Sembrava che non fosse ora di fare certe cose – tipo mangiare cavoli a merenda, o andare al cinema di mattina. Cercammo di prendere quell’esperienza con un po’ di ironia, ma era chiaro che si trattava, per tutti, di un’enorme, fragorosa delusione. Cosa potevamo fare? Abbordare una ragazza per il solo fatto che eravamo in discoteca? Non eravamo capaci di farlo fuori da là: non eravamo capaci di farlo neanche là dentro. Bevemmo una birra. Poi una coca-cola. Ballammo un po’. Si scherzava, ma il pomeriggio fu desolante. Perché capii che, almeno per quel che mi riguardava, io con le discoteche non c’entravo proprio niente.

Serate eterne
E con le discoteche, io non c’entrai niente per tutti gli anni successivi. Quando ci si trovava in centro, il sabato sera, e con un estenuante processo decisionale basato su una pigrissima democrazia che consisteva nel fatto che nessuno voleva decidere dove si sarebbe passata la serata fino a che tutti gli altri non avessero deciso dove passare la serata, io pregavo, tra me e me, io imploravo Tony Manero, il Dio dei sabato sera di tanti anni prima, che si andasse sui Colli a mangiare bigoli col ragù di anatra, o nei locali Arci a bere gin tonic guardando i quadri alienati di una pittrice lesbica, e perlopiù padovana, o a farci un giro all’autogrill di Dolo a comprare sigarette per quelli che fumavano, ma non in discoteca – ti prego, Travolta: no in discoteca. Ma una volta su due, quel dio sorridente non mi ascoltava, perché era proprio là che si finiva, come una mandria. Erano serate eterne, quelle. Di solito si sceglieva di andare all’Extra-Extra, vicino all’Aeroporto – anzi, credo che si andasse sempre e solo là –, e ci avvicinavamo alla meta un po’ alla volta, perché il bon ton della discoteca prevede che non si possa entrare ad un’ora normale: si beveva uno spritz dalle parti di Corso Milano, un altro in un bar mezzo marcio lungo la Strada per i Colli, e poi si finiva alla Pizzeria Daniel, da dove saremmo potuti andare a piedi in discoteca. Il locale era lugubre – tende da funerale, tovaglie bianche da matrimonio, lampade mezze spente più che soffuse. Si mangiava al rallentatore, per evitare di finire la pizza e non sapere più cosa fare, ma ci rimaneva comunque sempre il tempo per prendere anche il dolce. E l’amaro. E un’altra birra. E un caffè. Ma perché non si poteva entrare alle dieci, all’Extra-Extra? Che motivo c’era di aspettare là dentro, in quella grotta tetra? Oppure: perché non avremmo potuto passare tutta la notte a tavola, bevendo amari e caffè con la Sambuca, parlando di tutto quello che poteva passare per la testa di una compagnia di studenti universitari ventenni? Non avremmo avuto abbastanza discorsi da riempire un intero weekend? E invece a mezzanotte, iniziava la mesta, inesorabile, interminabile, processione delle ragazze verso i cessi della pizzeria: dopo un’ora, durante la quale si sentivano solo le loro risate dietro le porte dei bagni, uscivano che sembravano le controfigure di Bonnie Taylor, o i Kiss in concerto, avvolte in una nube solida di profumo, con gli occhi fluorescenti, le labbra tumide di rossetto, i capelli ancora più cotonati di prima. Avessero avuto un bidet a disposizione, se ne sarebbero fatto uno a testa: ma perché? Per chi? Come me, anche loro avrebbero passato una serata del tutto inutile. Ballare? Sembrava che fosse la cosa che, più di ogni altra, tutti gli esseri umani desideravano alla fine di una settimana passata sui libri di studio. Ballare, certo: ma nessuno sapeva ballare, questa è la verità! Alessio sembrava un orso delle giostre, di quelli che se li colpisci vinci un premio; Marcello, già mio compagno di avventure all’Ippopotamus, dondolava le spalle a destra e a sinistra, agitando un po’ le sue mani lunghe, e sorridendo imbarazzato; io sculettavo; Toni Nigro, aka Michael Keaton, aka semplicemente Toni, il contabile della limonata, era l’unico che ci credeva, in quello che si faceva là dentro, l’unico che aveva uno scopo concreto (cioè aggiungere una tacca al suo palmares di ragazze che aveva baciato: fighe, mostri, nane o tettone, tirava su di tutto) e mentre dimenava il suo culo di qua e di là, non smetteva di muovere ritmicamente le sue labbra come se stesse mandando baci, e anzi, scoprimmo anni dopo che li mandava proprio, un trucco che aveva inventato lui in persona e che evidentemente, visti i risultati, funzionava, proprio come l’Ifix-tchen-tchen di Gabriel Pontello (ora, Toni fa il responsabile delle risorse umane in un’azienda che produce caldaie: chissà che ne è stato del suo fluido irresistibile). Le ragazze, le ragazze che noi portavamo in discoteca, le nostre amiche, le nostre compagne di Università, venivano immediatamente circondate e rapite da energumeni imbrillantinati che erano grandi e belli il doppio di noi, e che ballavano tutti allo stesso modo, muovendo gli avambracci davanti a loro, come se stessero arrotolando un enorme matassa di filo. Noi, intellettuali, aspiranti ingegneri, futuri avvocati, la classe dirigente in nuce, soffrivamo per le nostre facce pallide e tirate, per la schiena curva, e per la cronica mancanza di soldi. Sapevamo ridere, e far ridere: ma in quel frastuono nessuno era in grado di sentirci. Ci urlavamo le battute nelle orecchie, l’uno con l’altro: niente. Il tunz tunz martellato garantiva che nessuno potesse dire o sentire qualcosa di sensato. L’unico giorno in cui mi divertii fu quando incontrammo alcuni nostri amici che avevano portato all’Extra-Extra un loro vicino di casa sordomuto, ed erano riusciti a farlo entrare gratis: avevano convinto la cassiera che era assurdo, e ingiusto, far pagare il biglietto di ingresso ad un sordo che non sarebbe stato in grado di sentire la musica, e quindi, tanto meno, di ballare. Lo persero di vista, lo ritrovarono dopo mezz’ora che litigava con un barista perché questo gli aveva chiesto diecimila lire per una coca-cola, ed era convinto che lo stessero prendendo in giro.
Ma anche le nostre amiche, alla fine non è che combinassero un granché: mandavano sorrisi, magari si facevano offrire un cocktail analcolico, ma come non la davano a noi, così non la davano a quelli. E a quei tempi – sembra un’epoca fa, vero? – non c’era il cellulare, e nessuna di loro si sarebbe sognata di lasciare il numero di casa ad uno sconosciuto – domenica ad ora di pranzo, “ciò, Laura, ara che ghe xè uno che se ciama Jonatan, o na roba del genare, che el dixe che ti ghe ga da el numero del teefono, ‘sta note, all’estra estra – ciò, insemenia, ma no te gavevi dito che te jeri a dormir da chea to amiga che se cussì brava? sito drio torme par el cueo o cossa?”. Così morivano là, quelle storie neanche iniziate, in quel fragore assordante, avvolte in nubi di fumo. E quando, dopo tre o quattro ore di quel dondolio, ci si avvicinava all’uscita, con i timpani fracassati, la schiena dolente per quegli assurdi balli, c’era sempre, vicino alla porta, quella luce violetta che faceva diventare i denti fosforescenti, e le camicie bianchissime; e, ditemi che non è vero, ogni compagnia aveva quello con la forfora, che quando passava sotto la lucetta pareva che il suo maglione fosse diventato la mappa del cielo di notte. Ci si salutava davanti al parcheggio, come il sordomuto, perché nessuno riusciva a capire cosa dicessero gli altri. Bella la discoteca, pensavo. Tre serate di seguito così, e mi finirò per suicidarmi.

Ma Alberto?
A questo punto, però, dobbiamo assolutamente recuperare Alberto. Che fine aveva fatto, nel frattempo? Era riuscito a coronare il suo sogno di diventare DJ? Aveva avuto la costanza, e la fermezza, di trasformare quel sogno di ragazzino in una adulta realtà? Secondo voi?
Sì, ci riuscì. Iniziò a mettere su dischi in giro per Padova. Diventò, a ventidue anni, il DJ di punta del Vinile, una discoteca dark dalle parti di Bassano. Mixava al Banale, il locale Arci più chic, e alla Papessa, e forse, qualche volta, anche all’Athanor. Aveva un bel giro. Una volta alla settimana aveva una trasmissione a Radio Cooperativa, e poi anche una su Radio Sherwood – lui che aveva il vizio di balbettare quando parlava, e che davanti al microfono diventava Carmelo Bene. Le pile di dischi in camera sua, fuori dalla porta di casa, sotto il letto, i pacchi di mix che arrivavano dall’Inghilterra, il giradischi della Technics con la lucetta per regolare la velocità, i dischi appena comprati, con la copertina sul divano e il contenuto sul piatto, e lui chino su di loro, come un orafo, un chirurgo, un uomo di fede, con la puntina in mano – dieci secondi di ogni canzone per capire cosa avrebbe messo quella sera in uno dei suoi locali. Alberto, che aveva un solo altro sogno, oltre a quello di diventare DJ: andare in Namibia. E scommetto che ora siete in grado di immaginare anche voi come finisce la storia, giusto? Alberto vive nella capitale della Namibia da dodici anni! C’è riuscito. Detto, fatto. Anzi: sognato e fatto. Là ha una trasmissione in una radio locale, e mette su musica in un posticino in cui lui è l’unico bianco. Registra qualcosa in una piccola sala d’incisione – e quando esce, nel cuore della notte, intorno a sé ha tutta l’Africa. Se Tony Manero sapesse dove è finito quel ragazzino che accendeva lumini sotto il suo poster, be’, credo che farebbe un sorriso, là, nell’inferno di chi ama la disco.

15 commenti Aggiungi il tuo

  1. laura ha detto:

    Quanti ricordi emergono e quante emozioni. E soprattutto: auguri ad Alberto!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Glieli giro, cara Laura! Grazie!

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  2. Zio Scriba ha detto:

    Augurissimi a tuo fratello Alberto, così lontano e così vicino al tuo cuore!
    E quante coincidenze: non solo si chiama come mio fratello (anche lui con parentesi da deejay – nel suo caso più dilettantesca – e anche lui con fratello scrittore) ma se aspettava un altro giorno a nascere… io e lui si festeggiava insieme! 🙂

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Il che significa che domani è il tuo compleanno??? 😉

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      1. Zio Scriba ha detto:

        Già. 🙂

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  3. Nina ha detto:

    Pieno zeppo di pensieri parole, immagini, questo bel racconto che ero titubante a leggere, esploratane la lunghezza, ma che poi mi sono bevuta tutto d’un fiato, come una bibita fresca.
    E’ incredibile come mi siano riecheggiati tanti ricordi di quegli anni che neanch’io ho viissuto in discoteca, luogo che non ho mai frequentato semplicemente perché ero fuori target.
    A tuo fratello Alberto, oltre agli auguri, tutta la mia simpatia.
    Mi permetto di condividere un mio ricordo: a nove anni decisi che volevo essere ribelle, atea, comunista, estremista e di conseguenza scelsi come miei preferiti i numeri dispari, principalmente il Nove.
    Non sempre mi riusciva di essere così, perché in me albergava (e ancora alberga) anche la bambina ubbidiente, ossequiosa delle regole, dei divieti, della necessità.
    Ma quando sono sola con me stessa, o sogno o scrivo, ogni tanto quella del Nove rialza la testa.
    .

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Argh, i numeri dispari! Non li ho mai amati – io ero il fratello per bene – quello, per intenderci, “pari” – ed ero molto orgoglioso di essere nato il 12 luglio 1970 – il 12, così bello, così rotondo… mi dispiaceva per il mese 7, ma “luglio” mi pareva comunque una parola molto “rotondo”.
      Crescendo, mi sono lasciato un po’ andare, ma probabilmente sono rimasto piuttosto conformista… Il Nove mi sembra comunque un numero troppo pericoloso… 😉

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      1. Nina ha detto:

        …prends garde à toi!

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  4. Alboino ha detto:

    Ho scoperto Zardi con “La felicità esiste” e l’ho trovato molto interessante al punto che non mi perdo neanche uno dei suoi post su questo meraviglioso blog. Leggo tutto con molta attenzione, Zardi è diventato uno dei miei punti di riferimento per quanto riguarda la letteratura e la cultura in generale: ammetto è proprio bravo! Merita senz’altro una platea più ampia e questo racconto che come ammette lo stesso scrittore è stato scritto diverso tempo fa è la dimostrazione della creatività eccelsa dello stesso. Leggere Zardi è oggi per me una felicità indescrivibile a testimonianza che “La felicità esiste”.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Caro Alboino,

      le tue parole mi colpiscono, e mi spingono a provare a fare un po’ meglio… avevo letto la tua recensione che avevi scritto alla fine di ottobre, sul tuo blog – se mi autorizzi, mi piacerebbe riportarla anche qui..

      Grazie ancora e a presto!
      Paolo

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      1. Alboino ha detto:

        Caro Paolo,
        è un piacere immenso poter dialogare con te… certo che puoi pubblicare, quello che vuoi prendendolo dal mio blog, per me è solo un onore.
        Ciao… a presto.

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  5. morena fanti ha detto:

    Bel post, pieno di cose come spesso sono i tuoi post. Ciò mi ricorda che una volta erano così anche i miei. Devo verificare cosa mi è successo 😉

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Eh eh… questo post è del 2009, quando anche per me era più facile scrivere post lunghi e pieni di cose… io credo che la creatività si sia spostata un po’ verso l’offline – dici che potrebbe essere questa la causa?
      A presto!
      Paolo

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  6. marina ha detto:

    bellissimi ricordi!!!!!! Invidio tuo fratello perché vive in Namibia…fantastico!!!!!

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Magari un giorno lo convinco a scrivere qualcosa sulla sua esperienza… 😉

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