Dalla parte sbagliata del muro

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Concludo, con questo post del gennaio del 2007, il mio breve viaggio nei post estinti – cose che avevo scritto su alcuni blog che ora non esistono più. La storia qui raccontata è vera in ogni dettaglio. Il luogo, che nel post non veniva nominato, ma che ora posso riportare – confido nella prescrizione – è il ristorante/albergo “La brace” in Valtellina, poco prima di Sondrio. A distanza di anni, trovo che il finale sia inutilmente patetico, tanto che ero tentato di toglierlo da questa nuova versione – lo lascio più per pigrizia che per scelta ponderata. Un dettaglio a margine: tra i commenti che allora erano stati fatti a questo post, qualcuno mi consigliò di leggere David Foster Wallace: il 24 gennaio del 2007 rispondevo dicendo “non ho letto niente di lui ma mi incuriosce”. Qualcosa stava cambiando nella mia formazione di scrittore.

In questo post si usa un linguaggio esplicito. Valuta questa affermazione prima di continuare.

Fin da piccolo, avevo un’attrazione verso la commedia (o era una tragedia contemporanea?) di Miller “Morte di un commesso viaggiatore” – attrazione che non saprei spiegare se non come un sinistro presagio. No, non era la morte che mi interessava, ma la figura del commesso viaggiatore: un uomo costretto a viaggiare per lavoro.
Ho studiato fino alla laurea. L’obiettivo era quello di poter vivere dei frutti prodotti dalla propria testa, anziché di quelli che si raggiungono con le proprie mani o con le proprie gambe. Un atto contro Dio, pensandoci bene, come l’epidurale: forse sta lì il mio peccato originale, cioè aver pensato che non avrei dovuto sudare per guadagnarmi il pane.
Invece sono diventato un ingegnere viaggiatore. Vedo passare chilometri su chilometri – la pianura Padana, le colline toscane, Napoli dall’alto, la Ciociaria, la laguna di Venezia. Come diceva Paolo Rossi, mi vedo invecchiare nello specchietto retrovisore. I controllori del treno ormai mi riconoscono. Agli autogrill dico: “Il solito, grazie”. E riconosco le hostess.

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Quattro gennaio. Arrivo in albergo intorno alle nove di sera. In camera, vengo accolto dal cane della stanza accanto che, da dietro una parete fatta con le ostie, abbaia ad ogni mio più piccolo movimento. Cerco l’obiettivo della candid camera. Questa pantomima va avanti per dieci minuti – non ricordo questa scena, nella morte del commesso viaggiatore – poi mi arrendo: mi distendo con le Lettere Luterane di PPP, e una matita. Già che ci sono, accendo la televisione. Fido si mette tranquillo.
Su Rai Due c’è un film con Kurt Russell – un tempo Jena Plinski – che recita con una parrucca da paggio in testa. E’ l’allenatore di una squadra di hockey di giovani studenti, ma pare il sergente di Full Metal Jacket: tormenta questi poveri ragazzi con allenamenti massacranti, per arrivare preparati alle Olimpiadi invernali di Salt Lake City del 1980 e battere la fortissima nazionale russa. Un obiettivo, questo, che ogni due minuti viene definito come “impossibile”, “irraggiungibile”, “al di là di ogni logica”. Peccato che il titolo del film sia “Miracle”, che sarebbe come se i “I soliti sospetti” si chiamasse “Era Verbal”.
Piano piano, lascio da parte le Lettere Luterane, e mi faccio coinvolgere nelle avventure di questa armata Brancaleone e del suo allenatore. La storia, pur con le sue banalità – e nonostante le giacche e i pantaloni a quadri di Kurt Russell in perfetto stile anni settanta – ha una sua dignità. Ad un certo punto, si arriva anche a citare un discorso alla Nazione di Jimmy Carter, il discorso con il quale cercò di scuotere gli Stati Uniti dalla decadenza degli anni settanta – per proiettarli verso i gaudenti anni ottanta di Reagan.
E la storia dava anche un’importante lezione: per battere i comunisti bisogna tirare fuori i coglioni, e viva gli Stati Uniti d’America. Mi commuovo anch’io: siamo l’unico paese al mondo che ha il patriottismo verso un’altra nazione.
Nel frattempo, sono tornati i padroni del cane, che o lo uccidono o lo narcotizzano, perché non abbaierà più. Lei ha una voce simpatica, lui impostata come Vittorio Gasmann. Accendono anche loro la televisione, e anche loro guardano il film del parruccone. L’unico problema è che io lo sto guardando attraverso un decoder di Sky, loro no: c’è uno scarto di due secondi, che crea un incredibile effetto surround.

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Il film finisce con la vittoria alle Olimpiadi – in semifinale incontrano e battono l’Unione Sovietica, dove tutti hanno le sopracciglia come Breznev e parlano come Boskov. Soddisfatto per la mia dose di bontà, spengo la televisione. I miei vicini no. Inizia il telegiornale.
Non solo: iniziano anche inequivocabili rumori. Iniziano le risatine intervallate da espliciti silenzi. E lo strusciare di lenzuola: è la fase dei baci di riscaldamento. Il maschio fa roteare la sua lingua nel cavo orale della femmina. Inizia ad affluire il sangue verso i caldi pubi: il pene si erige, tutte le labbra aumentano di volume, la vagina secerne copiosa, i capezzoli diventano due chiodi – da dietro quel muro sento il rumore del torrente sanguigno che gonfia il tessuto spugnoso del glande. Anche questa scena non c’era, sul commesso viaggiatore: deve essere un tormento proprio del girone degli ingegneri. Qualche volta provo a tossire – vorrei capissero che si sente tutto. Provo anche a scoreggiare: niente. Continuano.
La voce di lui ora non è più quella di Gassman: sembra Jerry Lewis. Lei inizia ad esibirsi in tutte le variazioni del mugolio. Il riscaldamento della Ricciarelli.
Poi, si sente solo la voce di lui che grufola come un maialino – ok, è la fase del pompino. I suoi lamenti finiscono sempre con un sottile rantolo che mi gela il sangue nelle vene.
Poi si sente solo la voce di lei che geme come in un film porno – ok, si sono dati il cambio. Sarei curioso di vedere la lunghezza della lingua di lui, perché pare che le stia facendo una gastroscopia. Dal basso.
Poi non si sente nessuno dei due. Le possibilità sono 71: le prime 69 si possono immaginare; la settantesima è che lui soffra di una eiaculazione terribilmente precoce; ma la settantunesima è quella più affascinante: sono morti, soffocati dal loro stesso amore. Domani mattina, verranno i pompieri a buttare giù la porta e porteranno fuori, con una barella matrimoniale, i due corpi ancora incastrati tra loro, come lo Ying e lo Yang, chiedendosi dov’è la testa e dove sono i piedi. Immortalati nel loro ultimo gesto d’amore, come certi resti di Pompei – il tipo che si sta mangiando un panino, la bambina che salta la corda.
In questo quadretto d’amore, stona solo il cadavere del cane: che ci fa lì?

Invece non sono morti – e me ne dispaccio sinceramente. Riprendono i rantoli, i gemiti, i lamenti, gli urletti, le risatine. Un film porno visto alla radio. Le Ore lette in Braille. Finalmente inizia anche l’inconfondibile rumore ritmico delle molle del letto – dopo i doverosi preliminari, ora l’accoppiamento. Il climax orgasmico. Lei ora sta cantando la Traviata, lui modula il volume di un agghiacciante ragliare: latra. Io, dietro il muro, prego il mio personal Dio che la fine giunga presto.

Ma probabilmente i due tizi erano in viaggio di nozze, o erano le cavie di un nuovo tipo di Viagra, perché riprendono tutto da capo – zitta lei, zitto lui, zitti entrambi (solite 71 ipotesi), poi le molle del letto, che tra un po’ diranno basta pure loro. Il telegiornale è gia finito: e proprio mentre sta andando una pubblicità di un detersivo per piatti, raggiungono l’estasi mistica. Lui, abbaiando, eiacula nel ventre della femmina, che accompagna l’orgasmo con contrazioni ritmiche dei muscoli lisci della vagina.
E’ finita. Risatine. E’ stato bello. Sì sì sì, amore amore.

E fine anche dell’incanto: uno dei due si alza per andare al cesso – per primo lui se usavano il preservativo, per prima lei se non lo usavano. Una scoreggia coperta da un colpo di tosse imbarazzata. Poi li coglie il post orgasmic chill. Si addormentano. Uno dei due russa. Poiché dimenticano la televisione accesa, io dormo due ore. E nella penosa dormiveglia, mi domando: cosa c’entrano tutti questi rantoli con l’amore? Conosciamo una donna, e ci affascinano le parole che dice, il suo sguardo languido, l’intelligenza o la dolcezza. Vorremmo passare tutta la vita con lei: quindi, con un sillogismo che neanche Aristotele avrebbe negato, vorremmo introdurre il nostro pene nella sua vagina, e sfregare le mucose. Come si legano le due cose? Esiste l’amore senza mugolii? E i mugolii senza l’amore?

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Ora sono in treno. Nebbiolina, e alberi secchi – stavo per dire morti. Ogni tanto vedo le macchine ferme ai passaggi a livello. Incrociamo treni merci. Non mi stupirei di vedere un vagone carico di soldati che partono per il fronte, o di ebrei stipati per bene da qualche responsabile della logistica.

Non sudo. Ma questa solitudine, questi chilometri tutti uguali, queste notti passate dalla parte sbagliata del muro, queste pianificazioni assurde, questi clienti che odio ogni giorno di più, queste albe che durano ore, questa straziante nostalgia di casa che non mi lascia in pace un momento – neanche Dio, nella sua immensa perfidia, avrebbe voluto punire così crudelmente le sue creature più amate.

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