Cinque foto, di Christian Baldin

Tempo fa, mentre tornavo da un viaggio in macchina, avevo ascoltato un’intervista a una fotografa iraniana che raccontava il suo percorso artistico, le sue scelte, l’intreccio che esisteva tra il suo lavoro e le parole che la accompagnavano. Qualche settimana dopo ho disturbato l’amico Christian Baldin, fotografo che conosco dal 2010 – galeotto fu il Salone del Libro di quell’anno – per chiedergli se aveva voglia di scegliere cinque foto, tra le molte che aveva scattato, e di mandarmele (per inciso, Baldin è l’autore della gran parte delle foto dei post di questo blog e delle diverse immagini di testata che variano a ogni accesso).

Successivamente, ho contattato cinque, tra autori e autrici, ai quali e alle quali ho chiesto se volevano associare a queste foto un loro brano – il vincolo è che non fosse scritto per l’occasione ma che rientrasse in una delle opere già pubblicate.

L’obiettivo non era, quindi, quello di trovare una didascalia alle foto di Baldin, ma accompagnarle con un’estensione, per così dire: una suggestione capace di aggiungere qualcosa a quanto vediamo. Anna Chiara Bassan, Gianluigi Bodi, Alessandro Busi, Michele Ruol e Germana Urbani non sono nomi che ho scelto a caso: credo che esista una “scena”, o un “contesto”, che non è ancora stato intercettato e che però possiede un’identità, sebbene ancora vaga, con alcuni luoghi di incontro e contatto ben precisi (tra gli altri, la libreria Zabarella di Padova e il B&B letterario Solo qui a Zero Branco, in provincia di Treviso) e altri elementi condivisi. Nessuno degli autori e delle autrici che si muovono in questa scena (e sono più numerosi di quelli e quelle che la rappresentano in questo post) ne riconoscono l’esistenza: però sono sicuro di non essere il solo a riconoscere che in effetti esiste qualcosa. Vedremo cosa succederà nei prossimi mesi.

Il fotografo “non ufficiale” di questo spazio che ancora non esiste è proprio Christian Baldin, che da anni porta avanti e definisce la sua visione, è proprio il caso di dirlo, del mondo. Questo post è una sua piccola mostra personale.
Grazie agli autori che hanno contribuito con i loro testi (sotto a ciascuno c’è il link al libro da cui è tratto. Sono tutti libri notevoli che ho amato).

PS Cliccando sulle foto, si aprono a schermo intero 🙂

CINQUE FOTO
di Christian Baldin

Oggi di normale non è rimasto proprio niente. Io ho paura di uscire di casa, ho paura di trovarmelo di fronte, lui con lei. Ho paura che mi chiamino dal vecchio ufficio e anche paura che non mi chiamino, che si siano scordati di me.
Così tengo la suoneria spenta. Trovo le chiamate dopo, richiamo quando e se mi sento di poter sostenere una conversazione, breve. Quando qualcuno mi dice le cose non le afferro subito… È come se mi arrivasse l’eco, un po’ in ritardo rispetto a quando sono state pronunciate. Non si tratta di molto, istanti forse, ma da contare a manciate.
Peggio, poi, è dover rispondere. Parlo a fatica, perché devo prima riprendere a una a una le parole che non sono lì ferme e pronte a essere messe in fila. No. Sono nel fondo di qualche cassetto e devo cercarle, gestendo l’incertezza di chi si aspetta una risposta.
Così ho elaborato una strategia difensiva ed elusiva. Conversazioni essenziali, brevi. Al telefono mai rispondere, sempre richiamare per avere il tempo di preparare risposte su diverse ipotesi e se il brodo si allunga dire: “ho un imprevisto, ho un’altra chiamata, sono alla cassa tocca a me, scusa, ciao”.

Germana Urbani, Chi se non noi, nottetempo editore


Era sempre luglio ed eravamo tornati a casa per l’estate. Aspettavamo distesi nel suo giardino la fine della domenica. Io ero occupata a dimenticare il presagio della nostalgia del ritorno, assillata dal bene che gli volevo, dal fatto che glielo volevo da tutta la vita. Mi sentivo addosso una gioia matta da cane e avrei voluto correre senza ritegno, a cerchi concentrici intorno al giardino, abbaiare forte, abbaiare fuori tutto. Sentivo il bisogno di dirglielo, ma il discorso che immaginavo, in ciascuna delle sue possibili versioni, sembrava supplicare per la conferma della solidità della nostra amicizia. Era troppo infantile e ne ero imbarazzata.

Anna Chiara Bassan, Il pop deve ancora venire, Super Tramps Club


La bomba è un immenso istante, che illumina e rabbuia, sceglie cosa mettere in primo piano e cosa nascondere. Ciò che la bomba non tocca scompare dall’attenzione; ciò che la bomba distrugge diventa protagonista assoluto della storia. La bomba focalizza e istruisce gli sguardi, riassume all’ennesima potenza: la bomba è un racconto fulmineo che mina le fondamenta.
La bomba è una scrittrice migliore di tutti i romanzieri dell’universo; è l’atto estremo di lima.
Boom. E la storia inizia. E la storia finisce.

Alessandro Busi, Fino all’inizio, Pièdimosca edizioni


La stagione turistica si dissolve poco a poco. È un lento cambiamento di stato, da liquido a gassoso. I turisti abbandonano questo posto che d’inverno muore un po’.
Scende la nebbia. Prima si fa vedere ogni due o tre sere, poi diventa una presenza costante con la quale bisogna convivere. Dalla nebbia spunta a malapena la facciata dell’aparthotel dall’altra parte della strada. A volte nemmeno quella. A volte si sente passare un’automobile a bassa velocità, ma non si riesce a capire dove vada. Nemmeno l’odore del mare riesce a superare questa coltre bianca. Ho sentito un vecchio cliente dire che l’aparthotel non arriverà̀ alla prossima estate.

Gianluigi Bodi, Un posto difficile da raggiungere, Arkadia editore


Madre era tornata su quei monti a dieci anni dall’incendio e quasi non li riconosceva. Il bosco che c’era prima era composto quasi interamente da robinie, con un sottobosco abbastanza povero – rari cespugli di sambuco, vitalba e rovi. Dopo le fiamme le prime a tornare erano state le specie erbose, a cui aveva fatto seguito una varietà di piante che prima aveva trovato spazio solo sui colli limitrofi.
Ora Madre si sentiva frastornata e persa: camminava in mezzo a betulle, carpini, roverelle, bagolari, alberi di Giuda; il sottobosco era ricco di pungitopo, ligustri, ginepri. Per ogni nuova pianta che trovava, Madre si fermava, osservava con attenzione la forma della chioma, le foglie, la corteccia, e prendeva appunti su un taccuino.
Si sentiva frastornata e persa – inaspettatamente felice.

Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, TerraRossa Edizioni

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