La supremazia del consumatore

Questa mattina, costretto a una lunga attesa nella sala d’aspetto del dottore (il sabato è il giorno in cui tutti i lavoratori possono finalmente andare a farsi dare un’occhiata), ho navigato un po’ su Twitter, uno strumento del quale, probabilmente, non ho ancora compreso fino in fondo le potenzialità – mi fa sentire come a una cena in cui vengono serviti tartufi, e mentre tutti gli altri vengono colti da una sorta di orgasmo gastrico, io continuo a sentire odore di gas. Scorrendo la mia timeline, popolata dai tweet dei 2000 utenti che seguo, ho letto un articolo in cui si parlava di una libreria nata in un quartiere “difficile” di Padova – l’aggettivo era proprio messo tra virgolette, una scelta curiosa, perché sembra voler dire che non è proprio “difficile”, quel quartiere, ma allo stesso tempo che un po’ lo è. Il punto è quel quartiere “difficile” è esattamente la parte di Padova nella quale vivo da 25 anni, dove i miei figli vanno a scuola a piedi, dove ci sono dei giardini pubblici dove si organizzano compleanni all’aperto, dove si possono trovare un piccolo multisala di qualità, pizzerie con i tavoli all’aperto, sei o sette squadre di calcio, l’unica pista di atletica di Padova, un palazzetto dello sport, un mercatino ogn martedì, ecc. ecc.

Ma il punto non è questo: nell’articolo si parlava di Limerick, una piccola libreria aperta recentemente da due ragazze, Marta Bracciale e Grazia Raimondo.

Raccontano le due amiche: “Vogliamo che la libreria sia un punto di riferimento per il quartiere, per chiunque abbia voglia di entrare in un negozio e sentirsi a casa. È anche una grossa scommessa, su noi stesse, sul quartiere e, ancora più in generale, sugli sconfortanti indici di lettura del nostro Paese“.

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L’articolo, poi, rimanda a un altro pezzo, molto più completo, che può essere letto a questo indrizzo.

E così, dopo aver finito la mia visita dal dottore, e avere fatto un salto al Centro Giotto per cambiare la custodia della chitarra di mio figlio (e aver visto una splendida tastiera pesata della Yamaha, che potrebbe sostituire il vecchio catorcio lasciato ad ammuffire in corridoio), sono andato a vedere la Limerick. E’ a meno di un chilometro da casa mia, e a cento metri da dove ho vissuto con i miei tra il 1989 e il 2000; una volta, negli stessi spazi, c’era un negozio che vendeva gadget per il cinema – locandine di film, pupazzi di Guerre Stellari… Li conoscevo bene, perché, per un errore del vetrinista, avevano messo il numero di casa mia come riferimento telefonico – abbiamo passato due o tre mesi prima di capire il perché di tutte quelle telefonate.
La Limerick è proprio accanto all’Astra, uno dei pochi cinema indipendenti sopravvissuti all’assalto delle grandi multisale – hanno sempre insistito con la qualità (là ho visto, tanti anni fa, film come “Pulp fiction”, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, “Les amants du Pont Neuf”, “Dancer in the dark”) e questo li ha premiati. Lo spazio è piccolo – una stanza poco più grande della mia camera da letto – ma le scelte sono davvero interessanti: una zona dedicata a libri per bambini, una alla narrativa, le proposte disposte su un tavolo al centro della stanza, e altri angolini ben organizzati. Sembra di entrare nel salotto di una persona conosciuta da poco: cosa leggeranno, in questa casa? ci si domanda, e allora si sbircia tra gli scaffali delle librerie, si scorrono i dorsi, si tira fuori qualcosa, si sfoglia, con il piacere che accompagna l’esplorazione. Sono uscito con due libri – uno di Dickens, e uno che sarà il regalo che farò a una mia nipotina – e ho sentito un buon retrogusto: la sensazione di aver partecipato a uno “scambio”.

Qualche giorno fa ho incrociato lo scrittore, e amico, Stefano Sgambati, alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, e ho scambiato due chiacchiere con lui. Quando siamo insieme, ho l’impressione che il processore del suo cervello abbia un clock, una frequenza di elaborazione, decisamente superiori alla media; ma oltre alla sua intelligenza, adoro la lucidità con il quale osserva il mondo contemporaneo: non è condizionato dagli stereotipi, dalle mode intellettuali del momento, dalla “correttezza politica”, dalla reverenza verso figure mitologiche. Attacca i falsi miti, gli idola dei giorni nostri, e lo fa con ironia – talvolta per niente lieve – ma mai con sarcasmo, e sempre a viso aperto.
Con lui abbiamo parlato di Amazon. Credo che anche lui, come me, e una parte consistente di una certa fascia di popolazione – gente nata tra gli anni settanta e gli anni ottanta, abbastanza vecchi da aver visto un mondo senza Internet,  ma abbastanza giovani da aver imparato a usarlo – abbia un atteggiamento ambivalente nei confronti del colosso della distribuzione on line. E’ comodo, non c’è dubbio. Funziona bene – strepitosamente bene. Se ogni cosa funzionasse come Amazon, la vita sarebbe di una semplicità inimmaginabile. Ma Amazon è anche il distributore che impone condizioni capestro agli editori, il datore di lavoro che tratta male i diritti dei propri dipendenti, l’azienda che sta facendo chiudere gran parte delle librerie d’Italia: il loro incubo. E’ un problema che non si può eludere, perché è innegabile che Amazon funzioni esattamente come ogni consumatore si aspetta che funzioni un servizio di consegna online: due click per ordinare, un’attesa che può essere ridotta fino al limite dei 60 minuti, e poi il prodotto in casa. Se si compra un ebook per il Kindle, il consumo è addirittura immediato, istantaneo. Come si può competere con una simile organizzazione?

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Bauman ha sicuramente un grandissimo merito: aver saputo cogliere il nocciolo della trasformazione avvenuta nel corso dell’ultimo secolo in Occidente e, in forme non ancora pienamente definite, in tutto il mondo: le persone hanno perso il loro status di lavoratori per acquisire quello di consumatori. Può sembrare riduttivo, ma io sono convinto che questa trasformazione sia il punto di partenza per qualsiasi analisi della nostra società attuale. Nel primo articolo della Costituzione Italiana, scritta nella seconda metà degli anni quaranta, si dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Tra tutte le indicazioni della nostra Carta, questa è, allo stato attuale, la più disattesa. Al lavoro, alla produzione dei beni, ai processi che ci stanno dietro, ai diritti e ai doveri degli imprenditori e dei dipendenti – non pensa più nessuno. Come direbbero i giornalisti, non sono al centro del dibattito. Al riguardo, non c’è alcuna idea, alcuna visione, alcuna teoria. I politici galleggiano: si occupano di contratti a tempo indeterminato o a tempo determinato con detrazioni e agevolazioni, e questo non è male, ma danno per scontato che il libero mercato faccia tutto il resto. Che manna, questo libero mercato, che per magia sistema sempre tutto! Basta lasciare che la concorrenza selezioni le aziende più meritevoli, che le regole siano uguali per tutti, e come per magia tutto procederà nel migliore dei modi possibili; se per motivi inspiegabili così non fosse, allora lo Stato dovrà limitarsi a regalare ottanta euro al mese alle famiglie che non riescono più a consumare abbastanza.
Cosa sta producendo questa liberalizzazione del mercato? I negozi sono sempre aperti; i centri commerciali sono sempre più numerosi, c’è parecchia scelta e molte offerte promozionali. I consumatori sono ogni giorno più felici. Ma tutto questo che impatti ha sulla vita dei lavoratori? E nel lungo periodo, che conseguenze avranno queste trasformazioni sulla struttura delle città?
Qualche anno fa, Flavio Zanonato, che allora era il sindaco di Padova, disse

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Lewis Mumford

che l’apertura di un centro commerciale richiede la costruzione di un corrispondente ospizio per anziani: i piccoli negozi di quartiere, infatti, che garantiscono pane e latte a portata di mano, vengono travolti dalla forza dirompente della grande distribuzione e sono costretti a chiudere, lasciando un vuoto: la parte a stento autosufficiente della popolazione perde la possibilità, indispensabile per la propria sopravvivenza e autonomia, di andare a fare la spesa con le proprie gambe. Guardando le cose in una scala temporale un po’ più ampia, c’è un’altra conseguenza: a una generazione di negozianti, intraprendenti, responsabili della propria attività, potenzialmente in grado di trasferire competenze e strutture ai propri figli, se ne sta sostituendo un’altra fatta di dipendenti con contratti a tempo determinato, con scarso potere contrattuale, salari da fame e nessuna conoscenza da lasciare in eredità. Ma la grande distribuzione fa bene al consumatore: è questo il mantra che continuano a ripetere tutti. Leggendo un qualsiasi libro di urbanistica (qualcosa di Lewis Mumford, ad esempio), si impara che le città sono tenute in piedi dalle attività commerciali: le piazze, le vie dei quartieri, i viali, sopravvivono se ci sono negozi… Tutti i progetti urbanistici che non hanno tenuto in considerazione questo aspetto – architetti sovietici, ingegneri progressisti, ecc ecc – hanno creato dei mostri invivibili. Il tentativo di riprodurre, all’interno dei centri commerciali, alcuni elementi delle città – incroci, piazzette, piccole vie – fa assomigliare queste costruzioni a uno zoo, con le ricostruzioni esotiche in cartapesta a tenere su il morale a orsi, leoni e scimmie- tetri ricordi di una vita passata.

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Ma la grande distribuzione fa bene al consumatore, e non è retorica. Se ora mi accorgessi che mi manca il sale, potrei prendere la macchina e andare all’Interspar che c’è a due chilometri da qui, e comprarlo – e già che ci sono potrei prendere un litro di latte, il pane, un DVD, le crocchette per i gatti che stanno finendo… E’ comodo – sarebbe da ipocriti negarlo. Ma non sempre la comodità è il migliore criterio da adottare nelle proprie scelte. Un amico moldavo mi raccontava, mentre assistevamo alla partita di calcio dei nostri figli (persa 27 a 0), che ogni anno torna al suo paese natale in macchina, e passando per la Romania ha potuto constatare, con grande dolore, che i boschi che la ricoprivano sono scomparsi. Ecco, è comodo tagliare tutti gli alberi che crescono in uno stato e poi venderli in giro per il mondo. Ma poi?
Quando per lavoro mi devo fermare a Vimercate, dormo in un B&B gestito dal signor Ambrogio, che, oltre a questa attività, ha un negozio di articoli sportivi. La mattina mi prepara la colazione e scambia due chiacchiere con me. Mi raccontava, qualche settimana fa, che suo padre aveva un negozio di elettrodomestici; con altri 129 negozianti avevano creato un gruppo d’acquisto che garantiva loro buoni prezzi dai produttori. Mediaworld e Unieuro li hanno stritolati: ne sono rimasti meno di 30, che cercano di sopravvivere come possono. Lui, Ambrogio, si è reinventato un lavoro; ma ora, mi diceva, deve tenere aperto sette giorni alla settimana, perchè non può permettersi il lusso di concedere il vantaggio di un giorno ai centri commerciali. Il consumatore, mi ha detto, non ha tempo di aspettare…

Fino a che punto si può spingere la supremazia del consumatore contro i diritti dei lavoratori? Ikea non considera più la domenica come un giorno festivo e, da un certo punto di vista, ha ragione: un po’ alla volta, ci troveremo tutti a lavorare anche la domenica e presto dimenticheremo quanti secoli, quante lotte, quanti scioperi ci sono voluti per ottenere un giorno di riposto per ogni lavoratore. Un libero mercato privo di regole tende, per sua natura, a occupare tutti gli spazi e tutto il tempo possibile. I grandi colossi possono mettere in campo risorse che i piccoli non possono nemmeno sognare. A settembre Amazon vendeva i libri scolastici praticamente al prezzo di costo: lo scopo non era guadagnare qualcosa nel breve periodo, ma privare le piccole librerie di quartiere di una delle più importanti fonti di guadagno, ed eliminare così la concorrenza.
Amazon fa benissimo a sfruttare i propri mezzi per ottenere risultati economici – non è un ente di beneficienza, o un organizzazione no profit: è un’azienda occidentale, con azionisti di riferimento. Il problema è l’assenza desolante di qualsiasi azione politica capace di incanalare questa spinta verso una direzione che sia sostenibile da parte di tutta la società, e che lo sia anche nel lungo periodo. Così come le aziende che inquinano devono pagare una tassa che tiene conto sia del danno provocato all’ambiente sia dell’ingiusto vantaggio acquisito nei confronti dei concorrenti più attenti, allo stesso modo la grande distribuzione dovrebbe essere obbligata a sobbarcarsi i costi sociali delle proprie scelte: peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, chiusura di negozi, trasformazione dei quartieri in dormitori. La poitica dovrebbe avere la forza di rimettere al centro della propria azione il futuro.

La tentazione verso il pessimismo è forte. Un po’ di tempo fa leggevo che scopo del comunismo era far sì che la politica liberasse la gente dal peso dell’economia; viceversa, il libero mercato vorrebbe far dimenticare alla gente che esiste la politica, perché tutto è regolato dal profitto: e purtroppo ci sta riuscendo. Continuo a considerare Berlusconi (e tutte le persone che lo hanno votato) la cosa peggiore successa all’Italia negli ultimi vent’anni; ma quello che è successo al suo governo alla fine del 2011 è il segno evidente che la trasformazione della nostra società in un supermercato è già a buon punto.
Rimane, però, qualche speranza. A Padova, in via Zabarella, c’è la Libreria Zabarella di Barbara Da Forno, uno spazio piccolo e bellissimo dove si respira classe e intelligenza; ora, all’Arcella, ha aperto la Limerick. Sono librerie piccole, ma con delle idee dietro. Da consumatore, ho smesso di comprare da Amazon: scelgo Zabarella e Limerick, ordino i miei libri con un semplice messaggio su Facebook, e poi passo a ritirarli quando sono pronti. Così vedo la mia città, parlo con persone che hanno deciso di puntare sulla cultura per vivere, sostengo, nel mio piccolo, un modo diverso di vedere il mondo. E mi piace pensare che tra una trentina d’anni, le figlie e i figli di queste libraie coraggiose riceveranno il testimone dalle loro madri.

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3 commenti Aggiungi il tuo

  1. szandri ha detto:

    Io lo spero con tutto il cuore. A me piace da matti entrare in libreria, indugiare tra gli scaffali, fare due parole con il libraio… e mi piace tanto notare che differenza enorme c’è tra la piccola libreria che frequento e le grandi librerie che trovi un po’ ovunque. E’ un po’ come entrare a casa di qualcuno, appunto, ed intuire i suoi gusti e le sue idee sfogliando i libri che sceglie di esporre. La supremazia del consumatore è distruttiva, erode il consumatore stesso e lo priva del senso dell’attesa, del piacere della ricerca. Lo consuma. Speriamo che le cose cambino, che questi piccoli fiori non smettano di sbocciare.

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  2. amanda ha detto:

    sai che ti dico? faccio un salto da Limerick, qui nel nostro quartiere difficile dove sono nata e cresciuta, dove è cresciuta mia madre, mia nonna, la mia bisnonna, dove hanno tolto un valore ad ogni cosa perché ci hanno catalogati e inscatolati

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  3. Fabio Piero Fracasso ha detto:

    sì, la decisione di non abbandonarti ad un pianto greco ma “concederti” gli incomodi di una disponibilità più limitata, così sottraendoti alla logica, altrimenti stringente, delle nuove forme di allocazione, è l’unico modo serio per non soccombere. Ma resta l’odore di gas …che molti avvertono come odore di tartufo…

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