Un’intervista inedita a Philip Roth

PhilipRoth

Di recente, Einaudi ha pubblicato un nuovo libro di Philip Roth, dal curioso e lunghissimo titolo “Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno” ovvero, Guardando Kafka. Non sono del tutto convinto dell’onestà di questa operazione: meno di 50 pagine vendute a più di 8 euro è un pretendere un po’ troppo dalle tasche di chi ama Roth. Anche perché il libro in questione altro non è che un piccolo estratto di un’opera molto più ampia, scritta da Roth nel 1973 e mai pubblicata in Italia, dal titolo Reading myself and others.

Questo libro contiene interviste, saggi e lettere scritte o rilasciate da Philip Roth tra il 1969 e il 1973, quindi immediatamente dopo l’uscita del libro che ne decretò il successo presso il grande pubblico, cioè Lamento di Portnoy. La carriera letteraria di Roth, però, inizia una decina di anni prima, con alcuni racconti pubblicati su importanti riviste letterarie, e con l’uscita di Addio, Columbus un romanzo breve (in inglese: novella) su un ragazzo ebreo che si innamora di una ragazza Gentile; successivamente, pubblica, tra il 1962 e il 1967, altri due romanzi lunghi (cioè il classico novel), Lasciarsi andare e Quando Lucy era buona, prima di arrivare al celebre Lamento di Portnoy. Attualmente, in Italia non è possibile acquistare nessuno dei primi tre romanzi; meno di un anno fa, mi è capitato casualmente di leggere una vecchia edizione di Addio, Columbus, e mi sono trovato davanti a una versione molto giovanile, quasi adolescenziale, del Roth che sarebbe venuto dopo. Se fossi un editore, lo pubblicherei solo come testimonianza dell’evoluzione di uno dei più importanti scrittori del ventesimo secolo.

Philip Roth

 In uno dei primi capitoli di Reading myself and others, Roth parla di Lamento di Portnoy. Le cose che dice sono così interessanti, e così vicine al mio modo di sentire, che mi è venuta voglia di tradurle. Non ho mai tradotto nulla di serio, nella mia vita, e non credo di avere alcuna competenza per farlo: ma conosco abbastanza bene Philip Roth da sentirmi tranquillo nel tradurre una sua intervista. Non ho trovato punti oscuri. I riferimenti a personaggi non conosciuti (ad esempio a Lenny Bruce) sono commentati brevemente, ma rimando ai link a Wikipedia per informazioni più accurate. Di Ring Lardner, è possibile anche trovare un racconto in lingua originale qui.

Dal punto di vista dei diritti d’autore, non so come funzioni – immagino di non aver alcun diritto per riportare qui qualcosa che non è mio – ma si tratta di una semplice condivisione: è una lettura ad alta voce di un pezzo di un libro che ho comprato, e che vorrei far conoscere ai miei amici. In Italia, questo pezzo è un inedito assoluto.

L’interivista è stata realizzata da George Plimpton, ed è apparsa su The New York Times Book Review nel 1969.

 Vorrebbe dirci qualcosa sulla genesi di Lamento di Portnoy? Per quanto tempo ha avuto in mente l’idea del libro?

 Alcune delle idee che poi sono finite nel libro mi giravano per la testa sin da quando ho iniziato a scrivere. Mi riferisco in particolare alle idee sullo stile e sulla narrazione. Il libro procede mediante la tecnica dei “blocchi di coscienza” – pezzi di materiale di varia forma e dimensione, uno sopra l’altro, tenuti insieme più per libere associazioni che attraverso una vera e propria cronologia. Avevo cercato di fare qualcosa di simile in Lasciarsi andare, e ho voluto provare ancora una volta a usare – o distruggere – questo tipo di narrativa.

C’è quindi una questione che riguarda il linguaggio e il tono. Quando ho iniziato Addio, Columbus, ero attratto da una prosa che avesse i giri, le vibrazioni, le intonazioni e le cadenze, la spontaneità e la disinvoltura del linguaggio parlato, e che allo stesso tempo fosse saldamente ancorata alla pagina, trattenuta dall’ironia, dalla precisione e dall’ambiguità tipica di una retorica letteraria più tradizionale. Ovviamente, non sono l’unico a voler scrivere in questo modo, e non è un’aspirazione particolarmente nuova, nel nostro pianeta: ma questo è il genere di idee o ideali letterari che ho cercato di raggiungere in questo libro.

Quando ho chiesto per quanto tempo ha avuto in mente l’idea del libro, pensavo in termini del personaggio principale e del problema che deve affrontare.

 L’avevo capito. E questo è, in parte, il motivo per il quale ho risposto così.

Intende farci credere che questo imprevedibile romanzo di confessioni sessuali, è stato concepito sulla base di sole motivazioni letterarie?

 No. Ma il concepimento è nulla, rispetto alla realizzazione. Il mio punto di vista è che finché le mie “idee” – sul sesso, la colpa, l’infanzia, sugli uomini Ebrei e le loro donne Gentili – non sono state assorbite da una strategia e da un obiettivo di tipo narrativo, queste idee non erano diverse da quelle di chiunque altro. Tutti hanno “idee” per un romanzo: la metropolitana è intasata da persone appese alle cinghie, con la testa piena di idee per un romanzo che non sono in grado nemmeno di iniziare a scrivere. Spesso, io sono uno di loro.

Partendo dall’apertura del libro, comunque, che parla di problemi sessuali intimi, con la sua oscenità esplicita, pensa che si sarebbe imbarcato nel progetto di un libro di questo tipo in un clima diverso da quello dei giorni nostri? O questo libro è appropriato per questi tempi?

 Nel 1958, ho pubblicato il racconto Epstein nella rivista The Paris Review: molte persone lo hanno trovato decisamente disgustoso per gli argomenti sessuali trattati. Penso che nel campo dell’arte, già da qualche tempo molte persone stanno vivendo in un “clima come quello dei giorni nostri”; i media hanno lo hanno capito da poco, e, con loro, il pubblico in generale. L’oscenità come ricco vocabolario da usare, e la sessualità come oggetto di un romanzo, sono disponibili a partire da Joyce, Henry Miller e Lawrence, e non penso che negli anni trenta nessuno scrittore Americano serio si sia sentito particolarmente legato dai suoi tempi, o che si sia improvvisamente sentito libero quando gli anni sessanta sono stati riconosciuti come gli “swinging sixties”. Nella mia vita di scrittore l’uso dell’oscenità è stata in gran parte governata dal gusto letterario e dal tatto, e non dai costumi dei lettori.

Cosa pensa dei lettori, della cosiddetta audience? Non scrive per loro? Non scrive per essere letto?

Scrivere per essere letto, e scrivere per una “audience” sono due questioni diverse. Se intende, con la parola audience, un lettore specifico, che possa essere descritto in termini della sua educazione, delle sue idee politiche, della sua religione, o anche solo per il tono letterario che preferisce, la risposta è no. Quando sono sono al lavoro, non ho in mente nessun gruppo di persone con le quali voglio mettermi in comunicazione; quello che voglio è che ciò che scrivo comunichi se stesso nel modo più completo possibile, in accordo con le sue stesse intenzioni. Precisamente, in modo che possa essere letto, in nessun altro modo se non in quei termini esatti. Se proprio si vuole avere in mente un destinatario, mentre si scrive, non si tratta di un gruppo con interessi particolari, dei quali si fanno proprie, o si sfidano, le convinzioni e le richieste, ma è formato, piuttosto, da quei lettori ideali la cui sensibilità è stata donata interamente allo scrittore, in cambio della sua serietà.

Porto un esempio che ci riporta ancora al problema dell’oscenità. Il mio nuovo libro, Lamento di Portnoy, è pieno di parolacce e scene scabrose; il mio romanzo precedente, Quando Lucy era buona, non ne ha nessuna. Perché? E’ perché di colpo sono diventato uno “swinger”? Ma allora, apparentemente io ero uno “swinger” già dagli anni cinquanta, dai tempi del racconto “Epstein”. E cosa dire delle parolacce in Lasciarsi andare? No, la ragione per la quale non c’è oscenità, o una sessualità palese, in Quando Lucy era buona, è che avrebbe avuto effetti disastrosi.

Quando Lucy era buona è, in estrema sintesi, una storia sugli abitanti di una piccola città del Middle West che si considerano, molto più che volentieri, persone comuni e oneste; e questo stile convenzionale e da gente onesta che ho scelto come strumento per la mia narrazione – o, piuttosto, la versione leggermente accentuata, e più flessibile, del loro linguaggio – è in grado di attirare i loro cliché abituali, le locuzioni e le banalità. Ma, in ogni caso, non ho scelto questo stile dimesso per fare una satira su di loro, come ha fatto Ring Lardner con i suoi racconti raccolti in “Tagliando i capelli”, ma piuttosto per comunicare il loro modo di vedere e giudicare se stessi, attraverso il loro modo di raccontare le cose. Così, per quanto riguarda l’oscenità, sono stato molto attento nel suo uso; quando Roy Bassare, uno dei personaggi di Quando Lucy era buona, riflette, chiuso al sicuro dentro la sua testa fortificata, il punto più lontano al quale può arrivare nel tentativo di violare un tabù consiste nel pensare “f. this and f. that”. L’incapacità di Roy di articolare qualcosa di più dell’iniziale della famosa-parola-da-quattro-lettere, persino di articolarla a se stesso, è esattamente l’obiettivo al quale puntavo.

Discutendo degli scopi della sua arte, Cechov fa una distinzione tra “la soluzione del problema e una corretta presentazione del problema” – e aggiunge: “solo il secondo punto è obbligatorio per un artista”. L’uso di “f. this and f. that” al posto della Parola Stessa, era parte di un tentativo di fornire una corretta presentazione del problema.

Sta suggerendo quindi che in Lamento di Portnoy, una “corretta presentazione del problema” richiede una schietta descrizione dei problemi sessuali intimi e un uso esteso dell’oscenità?

Sì, proprio così. L’oscenità non è solo il particolare tipo di linguaggio che ho usato per Lamento di Portnoy: è, praticamente, il problema stesso. Il libro non è pieno di parolacce perché “è così che la gente parla”: questa è una delle ragioni meno convincenti per usare l’oscenità nella narrativa. Per di più, poche persone parlano come parla Portnoy nel libro – questo è un uomo che sta sputando fuori un’ossessione che lo schiaccia e che lo opprime: è osceno perché vuole essere salvato. Un modo sbagliato, forse pazzo, per andare in giro a cercare la propria salvezza: ma lo studio di questa passione, e del combattimento che lui ingaggia con la sua coscienza, sono ciò che sta al centro del romanzo. I dolori di Portnoy derivano dal suo rifiuto di rimanere ancora incatenato dai tabù che, giusto o sbagliato che sia, lui sente come qualcosa che lo sminuiscono e che gli tolgono la sua umanità. La cosa buffa di Portnoy è che alla fine è proprio il tentativo di spezzare i tabù a renderlo disumano.

Così, non si è trattato di un banale problema di verosimiglianza; ho voluto elevare l’oscenità a livello di argomento del romanzo. E’ probabile che chi ha letto il libro, ricordi che alla fine del romanzo, la ragazza Israeliana (con la quale Portnoy ha lottato sul pavimento, nella stanza del suo hotel a Haifa) gli dice, con una certa ripugnanza: “Ti prego, dimmi perché tu devi usare quella parola tutto il tempo?” Alla ragazza ho consegnato questa domanda affinché la girasse a Portnoy, e ho fatto in modo che gliela ponesse proprio alla fine del romanzo – nessuna delle due cose è casuale. “Perché lui debba” è ciò di cui parla il libro.

Pensa che ci saranno Ebrei che si sentiranno offesi da questo libro?

 Penso che ci saranno anche dei Gentili che si sentiranno offesi da questo libro.

Alcune persone suggeriscono che il suo libro sia stato influenzato dai pezzi cabarettistici di Lenny Bruce*. Ritiene che Bruce, o altri comici come Shelley Berman, Mort Shal o i comici del “The Second City”, abbiano influenzato i metodi comici che lei ha usato nel Lamento di Portnoy?

 Non proprio. Direi di essere stato influenzato più profondamente da un comico* chiamato Kafka, e da un pezzo molto divertente che ha scritto e che si chiama “La metamorfosi”. E’ interessante che l’unica volta che ho incontrato Lenny Bruce, e che gli ho parlato, sia stato nell’ufficio del suo avvocato, dove mi venne in mente che era quasi pronto per interpretare il ruolo di Joseph K. Sembrava macilento, determinato ma già sulla via del declino, e non aveva nessun interesse ad essere divertente – riusciva a parlare soltanto del suo “caso”. Non ho mai assistito a una esibizione di Bruce, anche se ho sentito delle registrazioni; dopo la sua morte ho visto un film su una delle sue performance, e ho letto una raccolta dei suoi sketches. In lui riconosco e ammiro ciò che mi è sempre piaciuto della compagnia teatrale Second City, quando era al suo apice – quel mettere insieme precise osservazioni sociali con fantasie stravaganti e sognanti.

 Cosa ci può dire dell’influenza di Kafka che ha menzionato?

 Be’, naturalmente non intendevo dire che ho modellato il mio libro su una delle sue opere, o che ho cercato di scrivere un romanzo sullo stile di Kafka. Quando avevo iniziato a giocare con le idee che poi ho riversato nel Lamento di Portnoy, stavo insegnando parecchio Kafka in un corso che tenevo una volta alla settimana all’Università della Pennsylvania. Quando mi capita di dare un’occhiata alle letture che avevo assegnato quell’anno, capisco che il corso si sarebbe potuto chiamare “Studi sulla Colpa e la Persecuzione” – “La metamorfosi”, “Il Castello”, “Nella colonia penale”, “Delitto e castigo”, “Note dal sottosuolo”, “Morte a Venezia”, “Anna Karenina”.. I miei due romanzi precedenti, Lasciarsi andare e Quando Lucy era buona, erano tetri come i più tetri di questi classici, e, anche se ero affascinato da quei libri, stavo cercando un modo di scoprire un altro lato del mio talento. In particolare, dopo diversi anni spesi a scrivere Quando Lucy era buona, con la sua prosa sciatta, la sua eroina puritana e perseguitata, il suo inesorabile legame con la banalità, morivo dalla voglia di scrivere qualcosa di divertente e scorrevole. Così è iniziato un lungo periodo pieno di risate. I miei studenti potrebbero aver pensato che io fossi diventato volutamente blasfemo, o che volessi semplicemente divertirli, quando ho iniziato a descrivere il film che si sarebbe potuto tirare fuori da “Il Castello” di Kafka, con Groucho Marx nel ruolo di K., e Chico e Harpo come i due “assistenti”. Ma dicevo sul serio. Pensavo di scrivere una storia su Kafka che scriveva una storia. Avevo letto da qualche parte che lui era solito ridacchiare tra sé e sé mentre lavorava sui suoi libri. E’ ovvio! Era così divertente, questa preoccupazione morbosa per la condanna e la colpa. Ripugnante, ma divertente. Di recente mi sono sorpreso a sorridere durante una performance dell’Otello. E non soltanto perché era fatta male, ma perché qualcosa, in quella recitazione così scarsa, rivelava quanto stupido fosse Otello. Non c’è qualcosa di ridicolo in Anna Karenina che si butta sotto il treno?. Per cosa? Cos’altro ha fatto, oltre a quello? L’ho chiesto ai miei studenti. L’ho chiesto a me stesso. Pensavo a Groucho che entrava nel villaggio annunciando di essere l’Agrimensore; naturalmente nessuno gli crede. E naturalmente lo portano fino alle mura della città. Lo devono fare: ha un sigaro in bocca!

Ora – la strada che parte da queste idee casuali, e un po’ sciocche, e arriva fino a il Lamento di Portnoy è stata più tortuosa e movimentata di quella che io posso descrivere qui; di sicuro c’è un elemento personale, nel libro, ma finché non ho iniziato a considerare la colpa come un’idea comica, non sono riuscito a sentirmi liberato dal mio libro precedente, e dalle mie vecchie preoccupazioni.

(* Lenny Bruce, 1925-1966, è stato un comico ebreo famoso per il suo linguaggio esplicito, che durante i suoi spettacoli fu arrestato diverse volte).

(** Qui c’è un gioco di parole intraducibile: i comici che in Italia vengono chiamati cabarettisti, in America sono chiamati stand-up comics. “The Second City” era un gruppo improvvisato di cabarettisti, nato a Chicago intorno al 1950. L’intervistatore chiede se Roth sia stato influenzato dagli stand-up comics del Second City; lui risponde che è stato influenzato da un sit-down comic di nome Kafka)


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  1. Capo Lamellare ha detto:

    Lamento di Portnoy è un gran testo. Suggerisco il capitolo “seghe”, come ricettacolo degno di salacità.

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