L’estensione della mente

Un po’ di tempo fa mi è capitato di leggere un articolo scientifico che raccontava di come alcuni studiosi di scienze cognitive fossero  riusciti a quantificare il numero di “oggetti” che la mente riesce a “manipolare” contemporaneamente: la maggior parte delle persone arriva a una media di sette, nessuno va sotto in cinque e nessuno supera il nove. Una classica curva di distribuzione gaussiana, insomma.

Semplificando molto, è come se nella testa avessimo un’area di lavoro, che potrebbe corrispondere grosso modo alla RAM di un computer, nella (o sulla) quale il nostro pensiero cosciente compie le sue “classiche” attività; tutto il resto è hard disk, dove sono memorizzate tonnellate di dati che entrano nel campo della nostra coscienza solo se vengono spostate nell’area di lavoro. Un piccolo esempio pratico? Ho appena pensato a un film che la maggior parte delle persone conosce. Sto ripescando le immagini, la trama, le scene salienti, i personaggi. Chiunque stia leggendo queste righe dispone, con grande probabilità, delle mie stesse informazioni, e tuttavia il suo pensiero non sta vedendo le immagini che sto vedendo io: i dati del cervello ci sono, ma serve un’operazione in più per dire “ci sto pensando”. Il film è E. T., di Steven Spielberg – il cervello sposta i ricordi nell’area di lavoro, e questi diventano improvvisamente disponibili. Quanti, contemporaneamente? Sette, come i nani, i re di Roma, i vizi capitali, le virtù teologali (sbagliato: sono tre). O cinque. O nove. Ma non di più e non di meno. Sempre pensando a E. T., potremmo iniziare a enumerare i personaggi, pensando al loro nome e alle caratteristiche salienti; arrivati a otto, è probabile che il primo non ci sia più  presente, e che serva compiere un’attività di recupero dalla memoria per riposizionarlo nel proprio campo “visivo”; ma non appena lo avremo fatto, ecco che uno degli altri sette torna a essere sfocato. Altro sforzo, ma basta poco per capire che la coperta è troppo corta: se ne facciamo entrare uno, ne deve uscire un altro.

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Il mese scorso mi è capitato di leggere un post su un sito piuttosto interessante (“Finzioni – progetto di lettura creativa”) che riportava un intervento di Ian McEwan il quale sostiene che  il racconto è superiore al romanzo, fino al punto da fargli dire: “If I could write the perfect novella I would die happy” (cioè se potesse scrivere il racconto perfetto, potrebbe morire contento: gli auguriamo dunque di non riuscirci mai). La traduzione, in realtà, è un po’ imprecisa: in inglese, esistono tre forme letterarie che prendono il nome di short story, novella e novel. La prima corrisponde al nostro “racconto breve”, la seconda al “racconto lungo” e la terza al “romanzo”. Come distinguerli? Un criterio abbastanza grossolano è quello che prende in considerazione il numero di parole: se una storia è sotto le 20.000 parole, è una short story, se supera le 40.000 è un novel, altrimenti è una novella. (Fitzgerald, però, diceva: “Remember, never write a book under 60.000 words“). Una definizione più sofisticata è quella data dal critico Philip Rahv, che afferma che una novella demands compositional economy, homogeneity of conception, concentration in the analysis of character, and strict aesthetic control, definizione che è tanto esatta nella sua enunciazione quanto complicata nella sua applicazione. Chi può stabilire il grado di economia compositiva di un’opera? Come si valuta il  ferreo controllo estetico? Sempre McEwan, durante il Cheltenham Literary Festival, afferma (qui) che la forza della novella sta nel fatto che “You can hold the whole thing structurally in your mind at once“, cioè che è possibile possedere l’intera struttura della storia nella mente, in un’unica soluzione: questa idea enuncia, quindi, non solo la caratteristica che differenzia la novella  dal novel, e cioè dal romanzo, ma sembra indicare che propria questa caratteristica sia, secondo lo scrittore, il suo pregio maggiore.

Apprezzo Ian McEwan, anche se ritengo che, in generale, sia sopravvalutato: ha scritto alcuni libri eccellenti (Il giardino di cemento, Bambini nel tempo, e, forse, Lettera a Berlino) e una serie di romanzi ben congegnati, splendidamente scritti, che però non raggiungono mai lo status di capolavoro, come se mancasse qualcosa (un livello di complessità? il coraggio? il genio?). Ma nonostante il mio apprezzamento, dissento dalla sua idea circa il racconto, e anzi, rilancio: il motivo per il quale il romanzo, secondo me, è superiore al racconto risiede proprio nella definizione di McEwan: perché la struttura del romanzo non può essere contenuta nella menta tutta insieme, in un’unica soluzione.

Se ripensiamo a uno qualsiasi tra i grandi romanzi che abbiamo letto, e cerchiamo di riportare al livello della coscienza tutti i particolari che ci hanno appassionato – i personaggi, la trama, lo stile, i luoghi, le idee, i dialoghi, la sensazione di fondo che ci ha accompagnato durante la lettura, le emozioni che ha richiamato – capiremo di trovarci di fronte a una distesa inesauribile di suggestioni: un’estensione (o una struttura…) che la nostra mente non riesce a  coprire contemporaneamente. In questo momento sto cercando di concentrarmi su Pastorale americana di Philip Roth (che ha annunciato da qualche giorno di non voler scrivere più: Nabokov è morto, Wallace si è impiccato, Roth non scrive più – cosa leggerò da vecchio? Faletti?): Seymour Levov, sua moglie Dawn, la loro figlia Merry, il fratello Jerry, Rita l’amica della figlia, il padre di Seymour, la madre di Seymour, e Nathan Zuckermann, e gli amici che ritrova per il quaranticinquesimo anniversario del loro diploma (Mutty, Mendy Gurlik, Bert Bergman, Utty Orenstein, Marshall Goldstein, Stanley Wernikoff, Marylin Koplik, Abe e Alan Meisner,  e Joy Helpern, e la scampagnata con lei nel fienile…), e la visita alla fabbrica che Seymour concede a Rita (quando ancora non sa chi sia), e l’architetto amico famiglia che tocca il culo di Dawn mentre stanno preparando una cena, e l’incontro tra Zuckermann e Levov nel 1985, al ristorante da Vincent dove Levov ordina i soliti ziti, preceduti da un piatto di frutti di mare Posillipo, e Zuckermann un pollo alla cacciatora disossato (il suo piatto preferito), e le partite di ping pong tra Jerry e Nathan, e le domande continue, incessanti, che Zuckermann pone a se stesso, incapace di comprendere cosa sia andato storto, nella vita di Levov, e il diario “tartaglione” di Merry, e Seymour Levov che gioca a football, Seymour Levov che gioca a basket, e il concorso di bellezza vinto da Dawn nel 1949, e Merry che canta come Audrey Hepburn in camera sua… è un pozzo senza fondo, un caleidoscopio di immagini, nomi, idee, luoghi, che continua a offrire una prospettiva sempre diversa – un frattale di fronte al quale proviamo lo stupore, e lo sgomento, che sentiamo di fronte al sublime kantiano: l’espressione della potenza della natura, di fronte alla quale l’uomo dapprima prende coscienza dei propri limiti, e, una volta compresi, intuisce l’esistenza di una dimensione sovrasensibile, al di là della capacità della nostra ragione. E’ come guardare un cielo stellato, d’estate, con l’aria tersa della montagna, e sentire che, nonostante qualsiasi sforzo, non riusciremo mai ad abbracciare con la mente tutto l’Universo. L’estensione del romanzo ci impedisce di vedere contemporaneamente l’inizio e la fine, e nel momento in cui ci riusciamo, perdiamo la consapevolezza di come si sia passati dall’inizio alla fine. Per McEwan, questo è il limite del romanzo; per me, è la sua potenza.

La foto di copertina è un disegno pre-frattale contenuto nel Celtic book of Kells:

http://www.spiralzoom.com/Science/fractals/Fractals.html

11 commenti Aggiungi il tuo

  1. Grazia Bruschi ha detto:

    Reblogged this on IMAGEWARE and commented:
    Davvero interessante. Buona lettura.

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  2. countryzeb ha detto:

    Pezzo molto interessante. Mi staccherei però dalle etichette “superiore” e “inferiore”. Credo si tratti ancora una volta di questioni soggettive, o almeno, io non mi sento di poter argomentare la superiorità dell’uno o dell’altro. Posso solo dire che, istintivamente, sono attratto più dalla forma breve: racconto, o romanzo “breve”. Questo vuole forse dire che, nella curva gaussiana, io mi posizionerei nella parte sinistra?

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Ovviamente la mia è un po’ una provocazione – leggo e scrivo racconti con molto piacere. Sento, però, che la potenza del romanzo (intesa come profondità, pienezza, capacità di stimolare riflessioni, piacere estetico) ha una marcia in più, che deriva dalla sua complessità. Non è un giudizio assoluto; ma credo che sia un buon romanzo possa incidere in modo più profondo rispetto a un ottimo racconto – è la differenza che potrebbe esistere tra un’aria e una sinfonia, tra una casa e l’urbanistica di una città, tra una singola poesia e la raccolta che la contiene… Ho letto racconti splendidi, ma più raramente di quanto mi sia successo di trovare splenditi romanzi.

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  3. elinepal ha detto:

    Ritengo che un genere non escluda l’altro. Ma sono dalla parte del lettore, io. Se una cosa è ben scritta e mi da godimento nella lettura non ha importanza che sia una novella, un racconto breve o un romanzo.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Certo, sono d’accordo – se non lo pensassi, non perderei tempo a scrivere anche racconti! 😉
      Semplificando, credo che un ottimo racconto, e un ottimo scrittore di racconti, siano molto più rari di un ottimo romanzo, e di un ottimo scrittore di romanzi. Il racconto ha intrinsecamente meno mezzi di un romanzo per arrivare al proprio obiettivo; la concisione, l’immediatezza, la velocità con la quale raggiunge lo scopo sono i suoi punti di forza, ma spesso manca di visione, di profondità cognitiva – è un’istantanea che coglie un momento:non potrà mai essere una rappresentazione completa del mondo. Dal punto di vista del godimento, non si possono fare classifiche – ho goduto leggendo “La signora con il cagnolino” di Cechov e “Greenleaf”di Flannery O’Connor, ma mi hanno cambiato meno di quanto possono aver fatto “L’informazione” di Amis, o “Fuoco pallido” di Nabokov…

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  4. elinepal ha detto:

    piesse
    Ci ho ragionato un po’ e devo ammettere che invece leggo più volentieri un romanzo che una raccolta di racconti. Quantomeno ho visto la percentuale esigua di racconti che ho acquistato rispetto a quella dei romanzi. Un’altra annotazione: ritengo tu scriva benissimo e mi fa molto piacere leggere i tuoi articoli. Però a volte quando vedo la loro lunghezza rimando la lettura per il poco tempo che ho da dedicare al mondo Blog. E poi magari finisce che passa un giorno o due e non li leggo perché nel frattempo ne hai pubblicato un altro. Non faccio testo però volevo dirtelo

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Sul primo punto: succede anche a me. Quando sono andato a presentare “Antropometria”,che è la mia raccolta di racconti, ho trovato molta più resistenza,in chi ascoltava, di quanto ho trovato presentando il romanzo: nonostante sia un’epoca in cui la fruizione di qualsiasi cosa avvenga in modo molto più rapido, il romanzo viene ancora considerato come qualcosa di più interessante, e anche più avvicinabile.
      Sul secondo punto, sembrerà impossibile ma cerco ogni volta di contenere al minimo la lunghezza dei post. Quando navigo, faccio anch’io fatica a fermarmi sui post lunghi, e quindi capisco perfettamente il tuo punto di vista – è una cosa che ho sempre messo in conto, e che accetto molto serenamente. Quindi non ti fare problemi: abbiamo tutti poco tempo! 😉

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  5. carloesse ha detto:

    Condivido pienamente quello che dici: non è una questione di bellezza (Checov, Maupassant hanno scritto racconti “perfetti”).
    E’ puramente una questione di potenza.

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  6. Nina ha detto:

    Molto interessante il tuo post: dalle considerazioni sul funzionamento del cervello a quelle su racconto / romanzo.
    Trovo veramente affascinante saperne di più su come funziona la nostra mente, ma spesso tali studi o teorie mi provocano un increscioso senso di inferiorità (ma come faranno a sapere quante cose riesco a “ritenere” in contemporanea?).
    Su racconto / romanzo condivido quanto detto da te e anche dai commentatori che mi precedono. Non penso neanch’io che uno sia superiore all’altro in assoluto. Ma sicuramente il romanzo (per quanto attiene allo scrittore) richiede la capacità di creare architetture complesse, di gestirle e padroneggiarle senza mai perdere il filo (sicuramente ci vuole uno di quei cervelli da 9) e dalla parte del lettore, il suo approfondimento favorisce una maggiore immedesimazione. Il racconto è sicuramente più abbordabile ma in effetti,avendo meno strumenti a disposizione, riesce bene solo ai grandi (una che mi viene in mente: Katherine Mansfield)

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  7. Marina Salomone ha detto:

    molto interessante tutto l’articolo. Io concordo in pieno con il tuo pensiero. L’ho notato anche nell’ambito di uno stesso autore guardando l’effetto diverso che mi faceva un suo romanzo ed un suo racconto breve .Un romanzo è un viaggio in un mondo, mentre un racconto non riesco neanche a paragonarlo alla scoperta di un mondo… al massimo ad una pasquetta! Mi ha fatto molto ridere “sarò costretto a leggere Faletti?” ah ah ah senza per questo voler sminuire Faletti che nel suo piccolo almeno studia e lavora per ottenere romanzi ad effetto (che giudico di serie B ma non per questo disprezzabili come possono esserlo a mio parere quelli di altri autori) con tutti i “cani e i porci” che solo per essere apparsi in TV scrivono un libro!!!

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  8. marigazz ha detto:

    Mi accodo al già vasto dibattito sul confronto romanzo-racconto, da trascurabile autore di ambedue le categorie: io amo il racconto, trovandolo non necessariamente ‘superiore’ ma nemmeno ‘inferiore’ al romanzo. Certo che se parliamo di capolavori, come la Cappella Sistina è superiore a una pur ottima miniatura, è facile che la Recherche di Proust o l’Ulisse di Joyce lo siano di un raccontino surrealistegiante del sottoscritto, poniamo.

    Ma quanti romanzi abbiamo letto, in cui l’idea di base poteva essere eficacemente sviluppata in 30, 40 pagine (l’estensione della Metamorfosi di Kafka) e di cui le restanti 200 sono magari non indispensabili, se non ai fini del marketing editoriale?
    Philip K Dick, Matheson, Fredric Brown hanno scritto racconti fulminanti, a volte più dei loro stessi romanzi.

    Se il pubblico, i lettori, assimilassero questo concetto, ci dovremmo forse sorbire meno bestselleroni di 500 pagine ogni estate, perché probabilmente il buono di Dan Brown, Stieg Larsson o E. L. James starebbe comodamente in una 50na di pagine… no? 😉

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