Lettere d’amore

Fa sempre una certa impressione rileggere le cose scritte qualche anno prima – un po’ di tenerezza, oppure un po’ di rimpianto per l’entusiasmo perduto. Anni fa Giulio Mozzi aveva parlato del fatto che la sua prima raccolta possedesse qualcosa che solo un’opera prima poteva avere: una certa ingenuità che gli consentiva di osare (è possibile che Mozzi non abbia mai detto niente di simile, però ho questo ricordo).

In questi giorni sto leggendo un saggio interessante, “Perché non siamo il nostro cervello” di A. Noe, edizioni Raffaello Cortina, che, come dice il sottotitolo, propone una teoria radicale della coscienza. Al di là della tesi principale (la coscienza è data dall’interazione del nostro corpo con il mondo che ci circonda, e non può essere confinata né all’interno della nostra scatola cranica, né tra i contorni del nostro corpo), si parla di come certe azioni “vengono bene” solo se rinunciamo a esercitare un controllo cosciente: nessun ballerino potrebbe fare un passo di danza se non lasciasse che fossero le sue gambe, le sue braccia, la sua schiena, a decidere cosa fare. Riflettere sulla propria scrittura, e acquisirne consapevolezza, è un processo inevitabile per chiunque ami scrivere; ma se questa introspezione si spinge un po’ troppo avanti, il risultato è la stessa paralisi che colpirebbe un tennista che decidesse di calcolare la traiettoria della pallina che gli si sta avvicinando, invece di lasciare che sia il proprio corpo, e l’estensione della racchetta, a rispondere.

Tra il 2006 e il 2007 ho scoperto che mi piaceva scrivere. Mi ci sono dedicato anima e corpo, a quell’attività. Se avessi dovuto dire cos’ero, in quel periodo avrei risposto “un blogger”. E’ stata un’esperienza meravigliosa. A distanza di sei anni, ritrovo questo vecchio post e sento che in questi anni sono cresciuto, certo, e che ho abbandonato una certa retorica, e che ho acquisito un innegabile (almeno per me) rigore, ma sento anche, piuttosto dolorosamente, che ho perso qualcosa di profondo – forse, un modo ingenuo e spensierato di avvicinarsi alla scrittura e al mondo…

Lettere d’amore  (22 luglio 2007)

Chi è quel ragazzino con la barba che gli cresce a chiazze sparse e rarefatte sulle guance ancora piene di brufoli, e i capelli pieni di gel, che abbraccia un’altra ragazzina che piange, in un modo apparentemente inconsolabile, proprio mentre la madre di lei la chiama da un treno che sembra debba partire a momenti? Ero proprio io, più di venti anni fa, venticinque chili fa, una vita fa?

 Lara piange, mentre io non ci riesco, sebbene senta che sarebbe opportuno farlo, e che in effetti sto come se dovessi davvero farlo, ma probabilmente mi manca l’abitudine. Ci abbracciamo forte, come due persone sposate da molti anni che una guerra senza ritorno sta separando – in realtà lei sta semplicemente partendo per le vacanze, e noi stiamo insieme da neanche cinque mesi. Meno di un mese prima, il 18 maggio, abbiamo comprato una torta per festeggiare il fatto che eravamo insieme da quattro mesi. Una fetta a me, una a lei, una a mia madre imbarazzatissima, una a mio padre che in privato mi chiede, molto preoccupato, se pensiamo veramente di sposarci, quando saremo grandi, come andiamo dicendo in giro – cioè se crediamo che le storie che nascono al liceo debbano per forza andare avanti per tutta la vita per il semplice fatto che si sente che sarà così – e io penso che quella domanda è in primo luogo molto offensiva nei confronti dell’incredibile amore che lega me e Lara e in secondo luogo giustamente preoccupata, perché ci sono momenti in cui sembra anche a me che abbiamo dato troppa importanza a questa storia da quindicenni, e che non siamo più in grado di dire che è così.

Lara sale nel treno e io mi metto, per la prima volta nella mia vita, ad aspettare che un treno parta portando via la persona che amo. Intravedo un faticare di valige portate dentro allo scompartimento, poi lei si affaccia al finestrino, ancora con le lacrime dietro agli occhiali spessi, e io sento che dovrei avere almeno un fazzoletto bianco da sventolare. Ci diciamo ancora ti amo, ti amo anch’io, pensami sempre, non mi tradire, ti scriverò tantissimo, ti chiamerò tutte le volte che potrò, ed io inizio ad essere imbarazzato da questa nostra esibizione – c’è suo padre accanto a me, sulla stessa banchina, e sua madre accanto a lei, sul treno, che lo saluta in modo molto meno affettuoso, ma soprattutto ci sono dei tizi, degli emigranti con le facce irreversibilmente meridionali – l’alone scuro della barba intagliabile, i capelli grossi come spaghetti che partono un centimetro dopo le sopracciglia folte come siepi, lo sguardo indolente di chi ha capito come gira il mondo da almeno duecento anni – che se ne stanno con i gomiti pelosissimi appoggiati sui finestrini e una sigaretta incastonata tra le dita, e che guardano noi che ci promettiamo ogni cosa che sia possibile promettere a qualcun altro, e non dicono niente, ma pare che loro conoscano già il finale di questa nostra storia, e non ce lo vogliono dire.
Il treno minaccia sempre di partire, ma non lo fa mai; così continuiamo a ripetere le ultime parole che si dicono proprio nel momento in cui il treno sta per partire, fino a svuotarle di qualsiasi senso o poesia. Quanto è possibile sostenere una simile situazione senza diventare ridicoli? Poi il vagone inizia a spostarsi – credo sia “finalmente” per tutti i presenti; io lo seguo con lo sguardo mentre si allontana; seguo lei che mi saluta agitando una manina da quindicenne fuori dal finestrino, fino a che tutto il treno si perde dietro al vicino orizzonte – cioè dietro alla prima curva che fa il treno quando esce da Padova per andare verso Siracusa, il 17 giugno 1986.

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Tornato a casa sotto un cielo bianco, gonfio di umidità e di quel calore afoso che precede i temporali padovani (falsi come sono, in fondo, tutti i padovani), inizio immediatamente il mio calvario volontario di scrittore di lettere d’amore. Quattro pagine A4, fronte e retro, scritte a mano, con la mia grafia piccola e fitta, ogni due giorni. Passo circa la metà del tempo a scrivere. Sempre le stesse cose, tra l’altro. Racconto ogni dettaglio della metà del tempo che non passo sulla scrivania a scrivere ogni dettaglio di quello che faccio nella metà del tempo in cui non scrivo. Dico che sono disperato, senza di lei, e che niente ha senso, ora, in quelle giornate; e che la amo molto – lo dico in tutti i modi e in tutte le gradazioni possibili (amore disperato, amore folle, amore pieno di vita, amore sfortunato, amore eterno e per sempre, amore superiore a qualsiasi altro amore si sia mai presentato nel mondo), fino ad esserne quasi nauseato – senza ammetterlo, nemmeno di fronte a me stesso.
Mia madre si dice preoccupata, per la mia vita di scrittore professionista di lettere d’amore. Io dico che non capisce niente, mentre so che sta capendo quello che dovrei capire pure io, e cioè che l’amore, prima di tutto, deve essere sano, se si vuole sperare che duri.

Pure Lara mi scrive una lettera d’amore ogni due giorni – pure lei quattro pagine A4, fronte e retro, ma la sua grafia è decisamente più ampia. Poi usa trucchetti tipo “andare a capo con l’ultima parola di una frase per guadagnare una riga” o “guarda il mio amore: è grande come questo cuore che ti disegno su una facciata intera”, su una facciata di quelle otto che io invece destino interamente alle parole piene d’amore, senza alcuna concessione ai facili mezzi per arrivare alla fine di quel supplizio. Ma d’altra parte, lo scrittore sono io. Le lettere arrivano a distanza di settimane – devono percorrere lo stesso viaggio degli emigranti quando tornano a casa, d’estate, a riabbracciare la mamma, con le sigarette incastonate tra le dita e i gomiti pelosi appoggiati ai bordi dei finestrini mentre guardano ragazzi che si salutano piangendo e giurandosi un amore eterno e reciproco (e conoscono già il finale di quella storia) – e per questo motivo sono risposte prive di domande e domande che non avranno mai risposte.

Nelle lettere, ci sono anche inserti. Una volta lei mi manda le pagine di un giornale tipo “Oggi” che ha strappato dalla parrucchiera dove era andata a farsi una nuova permanente alla siciliana – lei è a Floridia, vicino a Siracusa, dai nonni e dalle innumerevoli zie e cugine – e in queste pagine c’è la storia di una bambina di otto anni che è rimasta incinta, in Brasile, e mi chiedo perché mai dovrebbe interessarmi una cosa del genere? Lei la trova eccezionale, e meritevole di grandissima attenzione, mentre io, che credo di essere un intellettuale, lo trovo semplicemente raccapricciante; ma almeno una pagina delle otto della mia lettera successiva è dedicata alla sorpresa per quel sorprendentemente interessante articolo sulla bambina di otto anni rimasta incinta a causa di un cugino. Le altre sette, contengono invece la solita dettagliatissima descrizione delle mie giornate senza di lei e del mio amore sconfinato.
In una lettera, io le mando anche una foto che le avevo scattato in salotto, qualche mese prima: lei che tiene in mano una penna Bic con il tappo bianco e il tronco grigio, e addosso ha una maglietta bianca, il viso inclinato, la permanente alla padovana fatta da poco. C’è un vaso di fiori sulla sinistra. Finge di scrivere su un quaderno dei compiti che facevamo insieme. Ha quindici anni, ed è bellissima come può essere solo una bella ragazza di quindici anni.

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La mia paghetta di quindicimila lire alla settimana, valuta 1986, viene divisa in tre tranche da cinquemila lire, con ciascuna delle quali compro venticinque gettoni da duecento lire ciascuno, grazie ai quali posso chiamare per quasi venti minuti, se chiamo dopo le 18.30 dei giorni feriali (potrei fare ancora di meglio se chiamassi dopo le 22.00, ma siamo ancora piccoli, per orari di questo tipo) e per quasi 30 minuti se chiamo durante le sere dei giorni festivi. Ricordo ancora il numero di telefono di suo nonno. Non la sento mai di mattina, perché non riuscirei a stare dietro ai gettoni che scendono con una frequenza di uno ogni undici secondi. Se qualcuno si chiede se il tempo esiste, la risposta è sì, e fa il rumore di un gettone di metallo che scende con regolarità, in una cabina telefonica, d’estate.
Durante quelle telefonate ci diciamo tutto quello che ci siamo scritti, ma con una freschezza e una spontaneità decisamente maggiori. Lei mi racconta del suo studio – è stata rimandata in tre materie – io della mia noia (che non è vero), del fatto che mi manca, che c’è caldo, e che sto organizzando con Alessio un viaggio in autostop (le dico e le scrivo che lo faccio perché mi dispiacerebbe dirgli di no, che in qualche modo glielo ho promesso: io invece non sto nella pelle all’idea di fare il viaggio, a quell’età, prima di qualsiasi altra persona che io conoscessi allora). Ogni volta devo promettere che non la tradirò mai, mentre, con il senno di poi, avrei dovuto chiedere io, a lei, di prometterlo. Alessio mi aspetta nei paraggi della cabina, paziente e sorridente. Ma questo viaggio è l’argomento di un altro racconto, non di questo.

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Prima che Lara partisse, suo padre mi aveva detto, con il suo bellissimo accento siciliano, una frase che non avevo mai sentito – ma alla quale avrei pensato per tanto tempo, anche tanto tempo dopo quell’estate che aveva il cielo sempre grigio: la distanza è come il vento, che spegne i fuochi piccoli e accende quelli grandi. Dall’alto delle mie otto pagine scritte ogni due giorni, delle promesse fatte mentre il treno si preparava a separare due quindicenni confusi, sentivo che ciò che bruciava il mio cuore – e il mio tempo, i miei amici, le mie passioni, e le mie speranze – era un fuoco grande, vero, eterno, e neanche tanto complicato.
Lo pensavo perché c’erano giorni in cui, invece di studiare, andavamo a sederci in una panchina di un parco vicino a casa, per compilare l’elenco degli invitati al nostro matrimonio: facevamo trent’anni in due, io avevo solo i baffi; lei, le mestruazioni dalla finale dei mondiali del 1982. Lo pensavo accarezzando il braccialetto d’argento con inciso il suo nome in corsivo che mi aveva regalato prima di partire. E lo pensavo perché quello era il mio primo amore, e non vedevo nessuna ragione perché dovessero essercene altri, dopo quello.

Per questo, imputavo alle Poste il fatto che le sue lettere arrivassero sempre più tardi. Al troppo studio, il fatto che dicessero sempre meno cose. A qualche difficoltà con gli orari, il fatto che facessi sempre più fatica a trovarla a casa, negli orari stabiliti per le nostre chiacchierate – gli unici momenti, in quei mesi di lontananza, in cui potevamo dirci qualcosa.
Per cui, mano a mano che i giorni passavano, uno dopo l’altro, prima a Padova e poi in montagna, scanditi da quelle lettere che scrivevo sempre meno volentieri – e anch’io sempre meno spesso – sentivo aumentare un dolore che non avevo mai conosciuto. Era qualcosa che aveva a che fare con la percezione che c’era un amore che stava finendo, ma non solo quello. Allora, infatti, ero una persona assolutamente civile, e rispettosa delle decisioni altrui, e arrivavo a capire che potesse finire – che potesse finire qualsiasi cosa potesse succedere a due persone, amore eterno incluso; e sapevo di saper rispettare una decisione che riguardava anche a me, con stoico eroismo. Ma non c’era solo quello: aveva a che fare con il dispiacere che lei non trovasse il modo di dirmelo in modo sincero, pulito, con la mia necessità di avere un punto fermo. Di sapere cosa mi aspettava, e potermi regolare di conseguenza – cioè usare la mia libertà per essere una persona normale. Perché anche per me i giorni erano passati.
In agosto, già non riuscivo più a ricordare il suo viso – per qualche scherzo del cervello, sovrapponevo la sua faccia a quella del mio compagno delle medie Tommaso Olivieri (e qui ci sarebbe da indagare un po’, su cosa fossero per me veramente quelle due persone, Lara e Tommaso: ma magari anche questo potrebbe essere un altro racconto). E non ne potevo più di quelle lettere, di quelle telefonate, di quelle rinunce, di quel dolore eccessivo – non che quell’amore non meritasse sofferenza: ma la mia assomigliava a quei cilici che alcuni credenti si mettono pensando di fare cosa gradita ad un Dio che se davvero apprezzasse questo genere di cose sarebbe, come minimo, un pervertito da lettino dello psicanalista. E io non so se Lara apprezzasse quel mio cilicio – sicuramente lo percepiva, lo avvertiva e non diceva niente, ma altrettanto sicuramente posso dire che ero io a credere che l’amore dovesse passare anche per quei chiodi, per quel sangue, per quelle notti passate, a sedici anni, a pensare a qualcuno lontano che non risponde alle tue lettere d’amore.

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Il finale fu che la nostra storia finì l’1 settembre, per telefono (quella, fu solo la prima volta che finì: finì allo stesso modo, sempre con lei, nel settembre del 1987, nel settembre del 1988, nel luglio del 1992, nell’agosto del 1998 e, finalmente per l’ultima volta, nell’agosto del 1999); che io fui dispiaciuto, ma, a quel punto, anche enormemente sollevato.

La mattina in cui successe, andai a prendere Alessio a casa sua.
“Mi ha lasciato…”
“Mi dispiace… davvero”
“Eh sì… cercherò di tirarmi su.. che facciamo? Hai voglia di accompagnarmi a prendere un disco? Mi avanzano quindicimila lire…”
Quegli emigranti che tornavano a casa a riabbracciare la loro mamma, con la sigaretta incastonata tra le dita ecco cosa sapevano, da centinaia di anni: che a quell’età, a quindici anni, gli amori sono eterni, sì. Ma solo per un’estate.

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La foto di copertina è di Giulia Sempai

7 commenti Aggiungi il tuo

  1. Stefania ha detto:

    ma che bello! ho rivissuto una marea di ricordi!

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  2. Renato ha detto:

    Mi hai fatto venire un po’ di nostalgia del blogger con la ‘z’ finale…

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      …così non aiuti, però…. ;)))
      un abbraccio!
      pabloz (ecco!)

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  3. Claudia ha detto:

    Bello bello!:-) c.

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  4. amanda ha detto:

    gesù quei gettoni che calano velocemente ed inesorabilmente che ricordi!

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  5. Maurizio Gandolfi ha detto:

    Scrivi proprio bene. Bravo bravo bravo!

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  6. icalamari ha detto:

    Tesoro prezioso la condivisione del ricordo e l’indicazione del saggio. Buona giornata giornata 🙂

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