Il cambio di paradigma – da Galileo a Flaubert

Thomas S. Kuhn, nel suo celebre “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” del 1962, sostiene che la scienza procede non per gradi ma per rivoluzioni, le quali, più che offrire la soluzione a problemi fino a quel momento insoluti, presentano un insieme di teorie, leggi e strumenti che definiscono una nuova tradizione di ricerca, cioè quello che viene definito un “nuovo paradigma”. Un esempio eclatante è dato dalla teoria della relatività ristretta presentata da Einstein nel 1905, in un momento storico in cui, dopo i grandi successi nel campo dell’elettromagnetismo degli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, era opinione abbastanza diffusa che non ci fosse più nulla di importante, o necessario, da scoprire. Einstein non aggiunge un mattone alla poderosa e stabile costruzione scientifica ricevuta in eredità, ma punta il proprio sguardo in una direzione completamente diversa; pochi anni dopo, la meccanica quantistica opererà un cambio di paradigma ancora più radicale.

Ma il passaggio a una nuova tradizione di ricerca è molto più lento e doloroso di quanto, retrospettivamente, si è disposti a credere; Darwin, alla fine de L’origine della specie, dimostra di esserne perfettamente consapevole: “Sebbene sia completamente convinto della verità delle idee presentate in questo volume [..] non mi aspetto affatto di convincere gli sperimentati naturalisti, la cui mente è affollata da una moltitudine di fatti considerati tutti, per un lungo periodo di anni, da un punto di vista diametralmente opposto al mio”. E anche Max Plank, ripercorrendo la propria carriera nella sua Autobiografia scientifica, osserva, con un pizzico di tristezza, che “una nuova verità scientifica non trionfa convincendo i suoi oppositori, e facendo loro vedere la luce, ma piuttosto perché i suoi oppositori alla fine muoiono, e cresce una nuova generazione che è abituata ad essa”. Persino Einstein, dopo aver rivoluzionato la fisica moderna, confessò di non riuscire ad accettare fino in fondo le implicazioni della meccanica quantistica.

Anche in letteratura, vi sono momenti in cui un autore, o addirittura un singolo libro, modificano radicalmente l’oggetto stesso della scrittura; quando ciò accade, i primi ad accorgersi della dirompente novità di un libro sono tipicamente i censori, la cui abilità nello scovare capolavori andrebbe, in qualche modo, riconosciuta. Nel 1857, l’avvocato Ernest Pinard decide di portare in tribunale Monsieur Flaubert, Monsieur Pichat e Monsieur Pillet, rispettivamente l’autore, l’editore e lo stampatore di Madame Bovary, con l’accusa di turbare la morale dei cittadini. Il romanzo, ora celebre, racconta la triste vicenda di una donna che, sposata a un medico di campagna, ha due amanti gestiti con una certa non chalance, e che poi si uccide con l’arsenico per problemi di debiti. In un’arringa diventata, suo malgrado celebre, Pinard, dopo aver riassunto brevemente la trama del romanzo, e descritto i caratteri dei personaggi, formula l’accusa: “L’opera fondamentalmente non è morale. [..]. Indubbiamente Madame Bovary muore avvelenata; ha molto sofferto, è vero, ma muore nell’ora e nel giorno che ha stabilito; muore non perché sia un’adultera, ma perché l’ha voluto lei; muore in tutto il fascino seducente della sua giovinezza e della sua bellezza. [..] C’è forse nel romanzo qualcuno che possa condannare questa donna? No, nessuno. Questa è la conclusione. Non c’è nel libro un solo personaggio che la possa condannare. [..]. Forse che condannerete [l’adulterio] in nome della coscienza dell’autore? Non so cosa pensi la coscienza dell’autore; ma nel suo capitolo decimo, l’unico filosofico dell’opera, leggo la seguente frase: C’è sempre dopo la morte di qualcuno come una stupefazione che si sprigiona, tanto difficile è capire l’arrivo del nulla e rassegnarsi a crederci. [..] Messalina ha ragione contro Giovenale: ecco la conclusione filosofica del libro, tratta non dall’autore, ma da un uomo che riflette e approfondisce le cose”.

Il 7 febbraio del 1857 il tribunale chiamato a giudicare la causa, pur condannando moralmente l’opera perché la missione della letteratura deve essere di onorare e di ricreare lo spirito innalzando ed epurando i costumi, assolse Madame Bovary, e il suo autore; il clamore suscitato dal processo, però, rese un grande favore al libro che, uscito nell’aprile dello stesso anno, divenne quello che ora chiameremmo un bestseller.

L’arringa di Pinard è incredibilmente lucida nell’evidenziare la rivoluzione che Madame Bovary sta introducendo nella storia del romanzo. Ciò che un lettore della metà del diciannovesimo secolo si aspetta di trovare in un libro è una conclusione filosofica dell’autore che non richieda il suo coinvolgimento; desidera che tutto ciò che accade sia governato dalle rigide regole della morale, per cui nulla succede per caso, ma ogni evento serve a dimostrare che l’eterogeneo insieme di valori sui quali poggia la società occidentale sono fondamentalmente giusti. Nei romanzi che precedono Madame Bovary, e in molti di quelli che lo seguono (parafrasando Plank, una nuova verità letteraria non trionfa convincendo i suoi oppositori…), viene messo in scena un problema (riuscirà l’eroe a trionfare, e il cattivo a essere punito?) e, contemporaneamente, viene fornita la soluzione moralmente corretta dello stesso (cioè l’eroe trionfa e il cattivo viene effettivamente punito). Al lettore, che è un mero spettatore, non viene chiesto alcun contributo.

Prendendo un romanzo a caso tra quelli scritti da Charles Dickens proprio in quegli anni – ad esempio il bellissimo Casa desolata – si avverte una distanza paragonabile a quella che potrebbe esserci tra i Principia di Newton e la Fisica di Aristotele, o, con un esempio ancora più calzante, tra il De revolutionibus di Copernico e l’Almagesto di Tolomeo. In Casa desolata tutto quello che succede ha un senso che va molto oltre le intenzioni dei singoli personaggi, ciascuno dei quali si muove in una rigida scacchiera che Dickens ha predisposto allo scopo di dimostrare qualcosa. E’ possibile che Dickens avvertisse qualche crepa nel paradigma al quale aveva aderito, e del quale è stato, probabilmente, il più grande e talentuoso dei suoi rappresentanti – al punto che all’inizio del sedicesimo capitolo arriva a chiedersi come sia possibile che in una città grande come Londra le vite dei suoi personaggi finiscano tutte per incrociarsi più volte: “Che relazione ci può essere tra la residenza del Lincolnshire, la casa in città, il valletto incipriato e il luogo in cui si trova Jo, quel poveretto con la scopa che ricevette quel lontano raggio di luce quando spazzò la soglia del cimitero? Che relazione può esserci fra le molte persone nelle storie innumerevoli di questo mondo, che da opposti lati di grandi abissi, si sono tuttavia incontrate? Jo spazza il suo incrocio tutto il giorno, ignaro del legame, ammesso che ci sia un legame”.

Ammesso che ci sia un legame: è la massima concessione che Dickens riesce a fare al lettore; in realtà, è intimamente convinto che lo scopo dell’autore sia quello di piegare il suo mondo inventato alle regole del decoro, della morale e della provvidenza, in una qualsiasi delle sue forme: lo scopo è mostrare che dietro alla confusione della realtà, esiste un sistema di idee perfettamente funzionante, dove il bene prevale sul male. I cattivi di Casa desolata muoiono tutti, e a loro non viene nemmeno dato il tempo di redimersi, o di capire quello che sta succedendo (come accade anche a Don Rodrigo nei Promessi Sposi); i buoni si salvano, e se proprio devono morire, lo fanno nel migliore dei modi possibili.

Flaubert, invece, quattro anni dopo, scrive un romanzo che, come dice acutamente il suo accusatore Pinard, è fondamentalmente senza morale. L’autore fa un passo indietro e rinuncia a organizzare la realtà secondo uno schema predefinito. Smette di cercare un perché, e concentra la propria attenzione sul come.

Questo passaggio, che determina la nascita del romanzo occidentale contemporaneo così come lo conosciamo, assomiglia a una rivoluzione che ha cambiato la scienza e la storia del mondo: la pubblicazione, nel 1632, de Il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei, nel quale tre personaggi immaginari, Salviati, Sagredo e Simplicio, confrontano tra loro il sistema copernicano e quello tolemaico, passeggiando nell’arsenale di Venezia. Per quanto ora possa sembrare insignificante, la vera rivoluzione portata da Galilei non sta tanto nelle conclusioni prettamente scientifiche, alcune delle quali sono, tra l’altro, sbagliate, ma nel fatto che questi personaggi non affrontano i problemi secondo il paradigma degli scienziati del loro tempo ma, piuttosto, come se fossero tre ingegneri. A partire da questo libro, la Natura perde, secondo le parole spaventate del filosofo Robert Lenoble, “il suo rango di dea universale per diventare [..] una semplice macchina”. La scienza fino a quel momento, riteneva che il proprio scopo fosse quello di spiegare perché la Natura presentasse determinate caratteristiche – perché le cose cadono? – condividendo, di fatto, gli stessi obiettivi della filosofia; Galileo, invece, rinuncia a cercare le cause prime e si concentra sul come: come cadono le cose? Invece di guardare alla Natura nella sua interezza, sceglie un problema semplice – oggetti che cadono dalla torre di Pisa – e lo studia non per trovare l’idea platonica che sta dietro alla gravità dei corpi, ma come se di fronte avesse una macchina, e lui fosse l’ingegnere che la deve smontare e poi rimontare. Mentre nel corso dell’antichità e del medioevo la meccanica era stata la scienza delle cose artificiali, ossia degli utensili fabbricati dall’uomo per costringere la natura ad agire per il bene dell’uomo, la fisica galileiana utilizza, per studiare la natura, gli stessi calcoli e le stesse nozioni matematiche che la meccanica antica aveva usato per costruire oggetti artificiali. Dopo Galileo, lo scienziato opererà come un ingegnere che debba ricostruire gli ingranaggi e le funzioni della macchina-natura. E anche Dio, il Creatore dell’Universo, diventa un ingegnere – Voltaire dice “L’universo mi abbraccia e non posso pensare che questo orologio esista e non abbia un orologiaio”.

Galileo, nel suo Discorso, è cosciente delle enormi potenzialità che dischiude questo approccio ingegneristico, tanto che uno dei personaggi, Salviati, afferma che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina. Conosce anche i pericoli che corre: Simplicio ha la premonizione che questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere a conquasso il cielo e la Terra e tutto l’Universo.

E infatti, puntualmente, un anno dopo la pubblicazione, un censore, molto più potente e attrezzato di Pinard, e con mezzi persuasivi efficacissimi, fa ritrattare tutto a Galileo. Il corso della scienza, però, è già cambiato, e la rivoluzione paradigmatica della visione della natura come una macchina porterà, nel giro di 350 anni, un uomo sulla luna.

Con Madame Bovary, Flaubert compie una rivoluzione paragonabile a quella di Galileo: nel raccontare la storia di Emma, non parla delle cause ultime che muovono i destini – la divina provvidenza, l’amore, la lussuria – ma concentra la propria attenzione sulla rappresentazione quasi meccanica delle relazioni tra gli esseri umani. Il suo approccio è antropometrico, ingegneristico. Si smonta l’uomo come se fosse una macchina, e lo si esamina obiettivamente: il giudizio non spetta all’autore, che si limita a mettere in scena un dramma, ma a chi legge. Per fare un esempio, la morte di Madame Bovary non rimanda a nulla: è la descrizione precisa di un decesso per avvelenamento. Ecco come cambia la letteratura in quattro anni.

Londra, 1853, Charles Dickens descrive la morte di Krook, uno dei tanti cattivi di Casa Desolata: “Ecco un piccolo tratto di pavimento bruciato; ecco i resti di un pacchetto di carte bruciate, non leggeri come al solito perché sembrano inzuppati; ed ecco il tizzone di un piccolo ceppo carbonizzato e rotto, coperto di cenere bianca. O si tratta di un pezzo di carbone? Orrore! È lui! Krook. E quello da cui fuggiamo, facendo spegnere la candela e spingendoci fuori, è tutto ciò che resta di lui. Aiuto, aiuto, aiuto! Correte in questa casa per amor del Cielo! Molti accorrono ma nessuno può fare nulla. Il Lord Cancelliere, fedele al titolo fino all’ultimo atto, è morto della morte di tutti i Lord Cancellieri e di tutte le autorità dei luoghi in cui regna la falsità e si commette l’ingiustizia. Sua altezza chiami questa morte come vuole, l’attribuisca a chi vuole, dica pure che poteva essere evitata, è sempre la stessa morte ingenita, innata, prodotta dagli umori corrotti dello stesso corpo malvagio e solo questa e nessun’altra fra tutte le morti di cui si può morire: l’autocombustione.”

Parigi, 1857, Gustave Flaubert descrive la morte di Emma Bovary, donna fedifraga: “Poco dopo, ella vomitò sangue. Le labbra le si serrarono ancor più. Aveva le membra contratte, il corpo le si era coperto di macchie scure, e il polso scivolava sotto le dita. [..] Il petto cominciò a palpitarle rapidamente. La lingua le uscì tutta intera dalla bocca, gli occhi, roteando, impallidivano come due globi di lampada che si spengono, e la si sarebbe creduta già morta se non ci fosse stato quello spaventoso sussultare delle costole, scosse da un respiro furioso, come se l’anima saltasse dentro al suo petto per distaccarsi. Infine una convulsione l’abbatté sul materasso. Tutti si avvicinarono. Emma non esisteva più”.

Ed è così che il romanzo occidentale si trasforma da surrogato di una predica, o di una lezione di catechismo, in un potentissimo strumento di conoscenza: il lettore, messo di fronte a un problema di natura morale, viene obbligato a interrogarsi circa le proprie convinzioni. Dopo Flaubert, lo scopo del romanzo non è far conoscere al lettore il punto di vista dell’autore, ma costringere il lettore a fare i conti con se stesso; dopo Flaubert, il romanzo, sposando l’approccio ingegneristico di Galileo, trasforma la cultura dell’Occidente.

4 commenti Aggiungi il tuo

  1. marina sangiorgi ha detto:

    in realtà, però, anche di Flaubert conosciamo il punto di vista. il punto di vista, la visione, è inevitabile, e conosciamo quella di ogni scrittore che leggiamo. magari non è lo scopo della letteratura. credo che lo scopo della letteratura sia: gridare se stessi agli altri, ed essere letti è un po’ come essere abbracciati…

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Flaubert diceva che uno scrittore deve essere, nel suo romanzo, come Dio: non si vede, ma è presente ovunque. E’ indubbio che la visione di ogni autore emerge con prepotenza, dalle sue pagine – ciò che cambia, però, è l’obiettivo del suo lavoro, il suo sforzo: non cerca più di illustrare una morale, cioè non ci concentra sulle idee, sui valori, ma punta la propria “telecamera” sulle persone, fino alle estreme conseguenze… Rinuncia quindi ad emettere un giudizio sui fatti, rimandandolo al lettore; non rinuncia, invece, a gridare se stesso agli altri… In altre parole, a mio parere da Flaubert in poi lo scrittore esprime se stesso attraverso il “metodo” con il quale costruisce la storia, e non attraverso “l’oggetto” della storia stessa…

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  2. marina sangiorgi ha detto:

    direi: rinuncia al giudizio esplicito sui fatti, ma il giudizio emerge sempre, ben chiaro, (tranne in alcuni tipo Saramago che non si capisce cosa ci vuole dire) …

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