L’inserto del lunedì – L’antiguida di Alfio Genitron

antiguida

L’autore del pezzo di oggi, che è un estratto di un romanzo ancora in fase di completamento, e la cui uscita è prevista per l’anno prossimo, si chiama, o si fa chiamare, o è chiamato, Decimo Cirenaica. C’è una persona in carne e ossa, dietro questo nome – una persona che ho conosciuto la prima volta a Bologna, nel 2010, e che poi ho rivisto a Cagliari, nel febbraio del 2012. e poi di nuovo a Bologna, qualche mese dopo. A Cagliari, abbiamo passato la sera a parlare di libri, di letteratura, di scrittura, davanti a non so quante birre; la notte, ho dormito a casa sua, una casetta in mezzo al verde piena di libri – giuro, non ne ho mai visti tanti – ammassati gli uni sugli altri, in ogni angolo, sopra ogni mobile. Non credo di aver mai conosciuto qualcuno con una passione più grande, e più sincera, e più incondizionata; e poche persone hanno la sua raffinatezza intellettuale, e la sua viva intelligenza.

Decimo Cirenaica non è solo un autore: è anche un modo diverso di intendere l’attività dello scrivere. il controllo che esercita su ciò che scrive, su ogni singola parola, è totale, e assolutamente consapevole. Nessun compromesso – nessuna paura della complessità, del “non lo capiranno”. Un coraggio lucido e instancabile, una ferma determinazione. un rigore implacabile, al quale ogni autore dovrebbe aspirare. E poi la costante attività culturale – la Casa Lettrice Malicuvata, il centro studi Opifice, e il romanzo a loro il tentativo di chiudermi ametà… c’è qualcosa di nobile, in questo sforzo, e qualcosa di trascendente: un esempio che, forse, dovremmo trovare il coraggio di seguire.

Ah, sebbene Decimo Cirenaica viva di vita propria, la sua mente e il suo corpo appartengono a Simone Olla.

da “L’antiguida di Alfio Genitron”

Decimo Cirenaica

Il Bar di Eunice è affrescato sui muri da visi deformati in lunghezza, picassi coi nasi per aria indossano calici di vino enormi sui quali è scritto il menù; scale di cartapesta scendono dal soffitto fino a toccare il pavimento, e dall’ingresso fino al bancone, per tutta la lunghezza del bar, sopra le teste dei clienti, sopra i tavolini del bar, i due bocchettoni del sistema di areazione sono diventati due linee di produzione o di montaggio o di controllo qualità, due linee di lavoro con pupazzi di operai senza occhi, senza bocca, senza espressione, con le mani piccole incollate su scatole vuote, alcuni suonano strumenti musicali, senza occhi senza dita senza espressione, altri non arrivano nemmeno a toccarla la macchina da scrivere che hanno davanti; ogni giorno nuovo c’è un oggetto di più dentro a la catena di produzione, opera di operai posata in occasione dell’apertura al pubblico del Bar di Eunice. Il chiacchiericcio che seguì il brindisi aveva per oggetto il fallimento dell’industria in Sardegna, e quindi il suo rilancio; chi, fra gli intervenuti, azzardò l’ipotesi di una deindustrializzazione del territorio, non era un giornalista né un intellettuale né tantomeno un politico; costui non era nemmeno originario di questi posti, non era sardo e non era italiano. Questo figuro biondo dall’accento straniero sistemò perfettamente gli interrogativi alla fine di ogni frase e coniò una parola che nessuno aveva mai sentito, l’industrialismo, sottolineandone il carattere ideologico e definendolo il braccio armato del liberalismo. In tanti gli si avvicinarono quando ebbe finito di parlare, si avvicinarono per accertarsi che quanto detto fosse soltanto una provocazione; e ci fu chi rimase deluso dalla brevità delle risposte e chi girò i tacchi infastidito e chi non mancò di ricordare la sua esperienza di operaio e di lotta contro i padroni. Anche Gerardo a un certo punto gli andò vicino, notando quel periodico tirar di naso; il figuro straniero si arricciava i baffi lunghi intanto che Gerardo gli chiedeva un’ultima riflessione:

«Ma io non stavo parlando dell’opera degli operai senza volto; o non solo. L’opera degli operai senza volto è lì, contenuta dentro uno spazio pubblico che è questo bar; e poi ci siamo noi, gli uomini e le loro parole, i loro discorsi mossi da un’opera d’arte che non è vita, che non vive. E tutto questo chiedersi dove porta? Ci ha portato senza che noi lo volessimo all’industrialismo. E poi? Al lavoro? Al tempo libero? Se esiste un tempo libero, mi chiedo e vi chiedo, esiste anche un tempo occupato di per sé, certo che esiste. Ed è il tempo che occupiamo con il lavoro. Quindi il tempo del lavoro non è un tempo a disposizione – infatti è la nostra occupazione. Ora, immaginiamo un tempo liberato dall’occupazione e dai suoi indici statali, immaginiamo un tempo che sia a disposizione sempre: la scelta di concedere al tempo il lusso di scorrere davanti ai nostri occhi dovremmo condizionarla alla cancellazione del tempo stesso, dovremmo spostare la percezione di un tempo che scorre talmente lontana da avvertirla rimossa: il tempo non esisterà più. E se esisterà, morirà con me: siamo esseri che deperiscono, che moriranno, finiti naturalmente ma non culturalmente. Ed è sulla variabile culturale che dovremmo agire.»

«Agire sulla variabile culturale» ripeté Gerardo. «Con un fine sociale, magari.»

«Il fine sociale è già nell’intervento umano sulla variabile culturale, vi appartiene per predisposizione dell’umano alla relazione sociale.»

«Ma una predisposizione alla relazione sociale non per forza presuppone uno scopo di relazione, un fine; qual è l’obiettivo di questo confronto di parole, per esempio; esiste nella reciprocità una meta di senso da raggiungere?»

«La relazione sociale è un fine di per sé» disse lo straniero ingollando dal bicchiere.

«Dovrei pensarci; potremmo riparlarne più tardi attorno a un tavolo quando si svuota il bar? Accendiamo il registratore per chi rimane» gli disse Gerardo.

«Va bene.»

«È stato un bell’incontro, grazie!»

«Grazie a voi.»

E si diedero le spalle, entrambi con il bicchiere in mano, e ruotarono gli occhi da una parte e dall’altra alla ricerca di un fine sociale che superasse il solo dirsi o il solo darsi…

Gerardo passeggia il quartiere Marina in direzione del Bar di Eunice, trascina la valigia dei prossimi due mesi e non è affatto preoccupato dal possibile incontro fra Neera e la signora Arrivederci durante l’inaugurazione della mostra di quest’ultima. Neera, pensa Gerardo, potrebbe perfino arrivare in bicicletta, con un mazzo di fiori sul cestino davanti. Un omaggio di sconsiderato candore alla padrona di casa Eunice, nereide muta della Marina di Cagliari.

La strada su cui Gerardo cammina in salita è ricca di umido e colorata di panni stesi ad asciugarsi. Nel caldo che fa, il fresco viene dai muri delle case, fango e paglia e pietre per muri perimetrali spessi anche ottanta centimetri – su làdiri. Il tetto è di tegole su travi di legno di zinnibiri, praticamente indistruttibile questo legno che cresceva abbondante nei boschi di tutta la Sardegna, che cresce ancora, in verità, ma meno abbondante dopo l’utilizzo decoratorio degli anni cinquanta:

«La ricostruzione dopo la guerra» così la chiamava il nonno di Gerardo «ci ha fatto conoscere i soldi, la merda del diavolo! Su zinnibiri per i caminetti e per le cucine, per i corrimano delle scale, per fare i taglieri, ti rendi conto? Un albero ch’era lì da duecento anni tagliato per fare taglieri da vendersi alla fiera campionaria di Cagliari, arrazz’e mundu seusu connoscendi.»

Gerardo si ferma a guardare da vicino uno di questi muri di làdiri, la parete esterna di una casa disabitata: l’intonaco mancante forma un triangolo di paglia e fango e pietre di fiume con un angolo di circa quaranta gradi verso il basso; l’intonaco di cemento a copertura de su làdiri sembra rimosso apposta da mani esperte sì che tutti possano vedere lo spettacolo di bioedilizia, che tutti possano perfino studiarlo, interessarsi. Gerardo pensa che in principio non fu la parola, che la bioedilizia esisteva già prima che la chiamassero bioedilizia: prima era costruirsi la propria casa come insegnavano e avevano insegnato tutti i limiti di quel luogo, i confini di una regola con la natura, un abbraccio lungo concesso dall’intorno del rispettivo vivere. La pioggia imbeve la terra di questi muri che senza intonaco di cemento colano fango sulla strada; le porte delle case sono aperte o hanno le chiavi inserite fuori; sotto a ogni numero civico il nome della famiglia; sopra, invece, la scritta Marina in corsivo. Gerardo scorge di lontano due donne in vestaglia che parlano sull’uscio della casa di una di queste, le loro case aperte vomiteranno le rispettive puzze fin sulla strada, l’estensione domestica delle famiglie che abitano questa via, pensa Gerardo, l’estensione domestica è la strada in cui cammino. Sono dentro casa loro, mi concedono di transitare, buongiorno, saluto, buongiorno rispondono, e cammino in salita, affaticato, e solo. Le macchine su quella via non possono andare, su quella via che la salita non finisce dove sembra, lo scopri passo dopo passo che sale ancora, la strada, verso destra e poi subito a sinistra, terminando nella spianata degli ufficiali trasformata in parcheggio a pagamento, dove riprende il rumore della città e delle sue macchine, il rumore della città di nuovo dentro le orecchie di Gerardo espulso da una casa enorme chiamata Marina.

5 commenti Aggiungi il tuo

  1. countryzeb ha detto:

    Ricordo di aver incontrato Decimo alcuni mesi fa in occasione di una presentazione collettiva presso Chiccen, piccola isola di cultura nel quartiere Pigneto a Roma gestito da quell’ottimo oste che è Rossano Astremo. Oltre a Cirenaica, che ha letto dal suo “a loro il tentativo di chiudermi ametà”, sono stati letti brani dalla rivista “Costola” e poi c’era il Gabrielli che ha presentato il suo “Sforbiciate”. La cosa che più mi ha colpito quella sera è stato il modo in cui Decimo ha letto il suo brano. Lo ha fatto lentamente, una parola alla volta, dando peso agli spazi vuoti che poi voleva dire dar peso alle parole che precedevano gli spazi vuoti. In quel modo veniva trasmesso il controllo su ogni singola parola, la forte consapevolezza dell’autore, come tu hai giustamente fatto notare nella tua introduzione al pezzo qui sopra. Ricordo che a fine serata (pur non avendo parlato direttamente con lui) mi è rimasta in mente quella “voce” e tornato a casa ho provato a leggere qualcosa di mio cercando di farlo nello stesso “modo” di Decimo. Mi sembra, anche, un ottimo modo per sentire la pulsazione di uno scritto, in fase di editing, e valutare il peso di ogni frase, di ogni parola. Quelle troppo leggere (inutili) inevitablimente voleranno via. Ora leggo il pezzo qui sopra, però ecco prima volevo dire questo.

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      L’ho sentito anch’io leggere un suo pezzo, a Bologna, allo Zammù: eravamo tutti con la bocca spalancata, a sentire lui, con la barba lunga, secco, i capelli lunghi, pieno di compostezza e allo stesso tempo di potenza… Il giorno dopo mi sono riletto il brano che aveva letto, cercando di ascoltarlo con la sua voce.
      E’ un grande, e la cosa bella è che sembra che la cosa non lo riguardi – come se per lui fosse molto più importante dedicare il suo tempo a te che gli parli, al libro che sta leggendo, o al suo viaggio per Parigi… Ecco.. la sua forza sta in un rigore pieno di serenità.

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  2. carlopalizzi ha detto:

    il mio grazie. per queste vostre parole.
    s

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  3. Zio Scriba ha detto:

    Che dire, se non che appena aperta la porta su questo testo si percepisce un odore di grande scrittura? E chissà cosa dev’essere letto da lui…

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  4. Marcella ha detto:

    Molto bello e illuminante questo ritratto di SimonDecimo. Molto vero pure il commento di countryzeb. Raramente apprezzo come un autore legge un suo brano e poche volte apprezzo come lo leggono terzi: di norma, trovo l’interpretazione troppo artefatta o troppo distante dal tono con cui io – opinabilmente, è chiaro – li immaginavo letti. Con Simone Olla è tutta un’altra storia: non solo sa donare, al contempo, vitalità e solennità ai suoi toni, ma soprattutto ti convince che il suo sia l’unico modo giusto di pronunciare quelle parole.

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