Il buon lettore, l’eccellente lettore – una chiacchierata con Gianfranco Franchi

svevo

Quando si parla di libri, di letteratura, è come se ci si dimenticasse che tutto lo sforzo dovrebbe essere rivolto verso il destinatario finale, il lettore. Gianfranco Franchi è un lettore (non è solo questo: come scopriremo nella chiacchierata qui sotto, è anche uno scrittore, un poeta, e una di quelle poche figure ancora rimaste di intellettuale militante), ed è un lettore nel senso più alto del termine – a lui può essere applicata, parola per parola, questa celebre definizione di Nabokov, che si può trovare nell’introvabile libro “Lezioni di letteratura”:

È lui – il buon lettore, l’eccellente lettore – che ha salvato più e più volte l’artista dalla distruzione per mano degli imperatori, dei dittatori, dei preti, dei puritani, dei filistei, dei politici, dei poliziotti, dei direttori delle poste e dei pedanti. Mi si permetta di definire questo ammirevole lettore. Non appartiene a una nazione o a una classe specifica. Non c’è direttore di coscienza o club del libro che possa gestire la sua anima. Il suo modo d’accostarsi a un’opera di narrativa non è determinato da quelle emozioni giovanili che portano il lettore mediocre a identificarsi con questo o quel personaggio e a “saltare le descrizioni”. Il buon lettore, il lettore ammirevole, non s’identifica con il ragazzo o la ragazza del libro, ma con il cervello che quel libro ha pensato e composto. Non cerca in un romanzo russo informazioni sulla Russia, perché sa che la Russia di Tolstoj o di Čechov non è la Russia della storia ma un mondo specifico immaginato e creato da un genio individuale. Al lettore ammirevole non interessano le idee generali; ma la visione particolare. Gli piace il romanzo non perché gli permette di inserirsi nel gruppo (per usare un diabolico luogo comune delle scuole avanzate); gli piace perché assorbe e capisce ogni particolare del testo, gode di ciò che l’autore voleva fosse goduto, sorride interiormente e dappertutto, si lascia eccitare dalle magiche immagini del grande falsario, del fantasioso falsario, del prestigiatore, dell’artista. In realtà, di tutti i personaggi creati da un grande artista, i più belli sono i suoi lettori.

Prima di iniziare, ho chiesto a Gianfranco di non porre alcun limite alla lunghezza delle sue risposte; il risultato finale non potrebbe essere twittato, perché supera abbondantemente i 140 caratteri, e non potrebbe diventare uno status di Facebook, perché non fa ridere e non chiede a nessuno di unirsi a qualche movimento per la tutela della foca monaca. Avrei potuto dividere in due o tre parti la chiacchierata ma credo che, nel caso specifico, serva che le parole di Gianfranco rimangano tutte insieme.

Una chiacchierata con Gianfranco Franchi

Grafemi: Nel 2003 hai aperto, con un certo anticipo sui tempi, un sito che si occupa di letteratura (e non solo: si parla di cinema, musica e scienza), lankelot.eu. Da allora sono passati dieci anni, le persone coinvolte nel progetto sono aumentate, ma lo spirito iniziale credo sia rimasto quello enunciato in una delle pagine del sito:

«Ideato per difendere e sostenere la piccola e media editoria di qualità e di progetto, per tutelare la memoria di artisti rimossi e per restituire opere ingiustamente dimenticate, politicamente ostracizzate, mal o mai o irregolarmente distribuite; ideato per sostenere una diversa idea di pubblicazione, distribuzione e circolazione delle opere, Lankelot.com è un sito democratico».

Questa sorta di manifesto – un manifesto di intenzioni – ha una densità incredibile. La memoria di artisti rimossi. È questo il primo punto che mi piacerebbe affrontare con te. La memoria, e gli artisti rimossi. Cosa stiamo dimenticando? Chi stiamo perdendo? Quali sono gli artisti rimossi? E perché vengono rimossi? Credi che c’entri il caso, o la società contemporanea in qualche modo sta tentando di espellere le voci inconciliabili con i suoi obiettivi?

Gianfranco Franchi
Gianfranco Franchi

Gianfranco Franchi: La risposta istintiva, e forse troppo sintetica, è “l’alterità”: stiamo dimenticando l’alterità. La risposta più calibrata e meditata è “il passato”: il passato, e la coscienza dell’appartenenza alla letteratura italiana, la consapevolezza della derivazione e della discendenza da una letteratura antica, figlia d’una cultura e d’una lingua più antiche ancora. Questo forse accade perché stiamo perdendo umiltà: umiltà, intelligenza e consapevolezza. E così ci illudiamo che il nostro presente, che quel che appartiene al nostro presente, quel che viene pubblicato nel nostro presente, sia per qualche strana ragione più necessario, più intelligente, più vero o addirittura più bello. Ci siamo consegnati, come società letteraria, in genere, alla logica dell’industria del libro, che non ha poetica diversa dalla novità assoluta, che è tutta una confezione colorata. È un grave errore, e ovviamente è un’incoscienza abbastanza imperdonabile.

Chi stiamo perdendo… stiamo perdendo gli irregolari, i laterali e gli atipici del Novecento: fermiamoci al Novecento, per ora. Stiamo perdendo soprattutto quegli irregolari, e quei laterali, che non sono stati restituiti [stavo per dire: “resuscitati”, meglio “rigenerati”] da una nuova edizione Adelphi, o al limite da una provvisoria Marsilio. Stiamo perdendo i Comisso e i Meneghello, i Landolfi e i Delfini, i Boine e gli Slataper, gli Stuparich e addirittura i Ligio Zanini del “Martin Muma”. Stiamo perdendo il primo Renzo Rosso, il primo Tomizza, il Berto della “Gloria” e del “Male oscuro”, il Parise ragazzino, allucinato dai bombardamenti, e il Renzo Paris cantore della Scuola Romana, e poi Carlo Coccioli, e Paolo Monelli col suo “Ghiottone errante”, il Cardarelli figlio degli Etruschi e l’allucinato reducismo del primo Oreste Del Buono.

Stiamo perdendo la misura di quel che doveva essere conservato, e delle ragioni per cui doveva essere conservato, favorendo la pubblicazione di sempre nuovi esordi di sempre più fiacchi manoscrittori. Gente di passaggio che non ha capito niente, non sa niente, e forse non ha comprato altro che non fosse stato segnalato in tre righe su un inserto di “Repubblica”. E magari crede ai premi letterari. E magari pensa che la fortuna letteraria coincida con la fortuna materiale.

La ragione di queste rimozioni è industriale, come ti dicevo, figlia delle logiche dell’industria del libro. È stata politica, a volte, altre volte estetica – fuoriclasse del racconto come Giani Stuparich e Antonio Delfini non possono essere capiti da un pubblico che campa di romanzetti di genere: o almeno, diciamo “difficilmente accade” – altre volte è malasorte, pensa al povero Savinio, nemmeno Adelphi basta a farlo amare e rispettare. In generale, penso che esistano spazi limitati, o comunque molto ben delimitati, nella nostra capacità di attenzione e nella nostra memoria: la prepotenza di questo sistema editoriale, e della logica dell’industria del libro di questa epoca, esclude spazi per la circolazione del “non proprio presente” o comunque “non fresco di stampa” che non siano quando va bene molto marginali, magari perché accademiche o giù di lì, quando va male mediamente o disperatamente amatoriali. Io mi colloco a questa altezza qui, nonostante qualche anno di esperienza nell’editoria, e qualche collaborazione con quotidiani e periodici.

Ogni tanto, riconosco tra i contemporanei viventi lo spirito e la classe di uno dei miei amati irregolari, o dei miei amati laterali. Recentemente è stato così per Filippo Tuena. Contemporaneo vivente, almeno un capolavoro pubblicato già in due diverse edizioni, nella relativa indifferenza del pubblico, almeno un capolavoro e altri tre grandi libri. E così, mi ci dedico, compatibilmente con tutto il resto delle cose della mia vita, anima e corpo, e recupero praticamente tutto quel che ha scritto, o quasi, e vedo di schedarlo e di scandagliarlo, libro per libro, cercando di stabilire i presupposti per nuovi contatti e nuovi incontri con altri lettori forti, industriali soltanto nei ritmi di lettura. Non ho capito se serva davvero a qualcosa, questo mio lavoro, o se normalmente serva solo a darmi un po’ di pace. In un certo senso, vivo in compagnia di molti spiriti, da molti anni. Non sono soltanto anime morte.

G: Continuando a leggere il “manifesto” di Lankelot, leggo: “Ideato per sostenere una diversa idea di pubblicazione, distribuzione e circolazione delle opere”. Attualmente il mercato del libro (una contraddizione in termini che non fa più impressione a nessuno) è controllato, per circa il 60%, dai cinque grandi gruppi editoriali (Mondadori, RCS, Gruppo GeMS, Giunti e Feltrinelli), mentre il restante 40% si suddivide tra quasi 3.000 marchi, privi di qualsiasi potere contrattuale nei confronti, ad esempio, di distribuzione e librerie (che lasciano all’editore un misero 35% sul prezzo di copertina). In questo scenario, con questi numeri, quale può essere, in concreto, una diversa idea di pubblicazione e distribuzione? Una nuova casa editrice? O stai pensando al digitale, sia in termini di web sia in termini di ebook, o immagini un rapporto profondamente diverso con il libro?

GF: I dati che riferisci potrebbero essere inesatti; sono abbastanza sicuro che chi ha messo allo stesso livello tremila marchi sia qualcuno che accetta l’idea che un piccolo editore da 6-10 libri l’anno vada considerato “editore” proprio come una qualsiasi vanity press, un qualunque stampatore a pagamento, da centinaia di pubblicazioni l’anno. Il che ovviamente è del tutto sbagliato. Per me i cinque grandi gruppi editoriali controllano almeno l’80-85% del vero mercato del libro, quello fatto come ci immaginiamo; siamo all’ottantacinque per cento abbondante se aggiungiamo, a questi cinque grandi gruppi, il sesto: Newton Compton. Il rimanente 12-15% è diviso tra poche centinaia di case editrici piccole e medie; io credo duecento al massimo, e mi tengo piuttosto largo. Tutto il resto è roba o amatoriale, quando va bene, o praticamente a pagamento, e stop: tutti microcircuiti chiusi, in cui potrebbero circolare salami al posto dei libri e non se ne accorgerebbe nessuno. La vera editoria è piccolissima, e per lo più è in mano ai cinque [più uno] gruppi che dici.

Quando su Lankelot, dieci anni fa, scrivevo di voler sostenere “una diversa idea di pubblicazione e distribuzione” alludevo alla necessità, alla necessità quotidiana, di raccontare quali fossero i veri equilibri del mercato editoriale: un lettore forte che ne fosse informato poteva apprezzare con diversa intensità e partecipazione le pubblicazioni provenienti dalla vera piccola editoria di qualità e di progetto, assaporandole come un buon vino d’una favolosa cantina sconosciuta. Una cosa del genere. E per finire di risponderti… no, non ho (più) intenzione di aggiungere un’altra casa editrice a questo marasma, non sono miliardario né massone. E non sono neanche abbastanza schizzato. Se penso poi a certi editori piccoli-medi rimasti ancora sul mercato, nel 2013, nonostante tanti miliardi di vecchie lire e di nuovi euro di debiti e una valanga di scorrettezze nei riguardi di tipografi, autori, redattori, grafici e consulenti, devo aggiungere  che non sono abbastanza spietato per poter fare l’editore.

Quanto al digitale, per me non ha, per il momento, nessuna possibilità di soppiantare il libro “in carta e ossa”: il libro è una tecnologia antica e perfetta, l’ebook una tecnologia piena di lacune e di difetti, in via di sviluppo. Credo però che nel tempo l’ebook potrà diventare il punto di riferimento per la letteratura di genere, per gli instant book, i coccodrilli e i libri di inchiesta, in particolare; mentre il libro rimarrà il massimo traguardo possibile per le opere letterarie e per i classici: per quel che può diventare “classico”. Nel tempo.

G: Nel 2004, per la prima volta dal 1990 il numero di case editrici che hanno chiuso i battenti ha superato quello delle nuove case editrici, e questa sembra essere l’attuale tendenza: per fare un esempio nel 2009, a fronte di 79 nuove case editrici, 122 hanno deciso di abbandonare, mentre nel 1991 il rapporto era stato 351 aperte contro 89 chiuse. In termini assoluti, nel 2001 c’erano 3.365 case editrici, nel 2009 sono 2.809. Si pubblicano più titoli, ma si fa sempre più fatica a mantenere aperta una piccola casa editrice. Tu hai avuto modo di collaborare con diverse piccole o medie case editrici (Castelvecchi, Arcana, Alet, Piano B): la loro pluralità garantisce una migliore qualità complessiva di ciò che viene prodotto in Italia? E in che modo si dovrebbe intervenire per garantire la loro esistenza?

GF: Diciamo così: più pseudoeditori o microeditori chiudono, meglio è; più stampatori scompaiono, meglio è; più vanity press si disintegrano, meglio è. Salviamo tanti alberi e ci scrolliamo di dosso tanti dilettanti e tanti furbacchioni. Soprattutto: meno si pubblica e meglio è, soprattutto se a venire considerate “pubblicazioni” sono insulse raccolte di “poesie” o romanzacci stampati con i soldi del povero illuso di turno. Invece mi viene da dire che se i pochi ma veri piccoli e medi editori si fossero consorziati, ancora tre, cinque o dieci anni fa, forti del 15% del mercato che rappresentavano e forse faticosamente rappresentano ancora, allora c’era, ci sarebbe stata la speranza di andare a combattere contro i quattro grandi gruppi (Giunti non era così rappresentativo, e Newton Compton stava ancora nel mucchio dei “poveri ma belli, abbastanza”). Purtroppo non c’è stata abbastanza coscienza, abbastanza cultura e abbastanza solidarietà, e le cose sono andate molto diversamente. Qualcuno, tra i piccoli “veri” editori, ha fatto cartello e ha studiato varie forme di collaborazione, ma mi sembra che non sia bastato. Ho la sensazione che ormai sia troppo tardi, e sia rimasto poco da fare. Pochissimo.

Forse siamo al momento del piano b. Ma del piano b non si deve parlare.

Va detto e rimarcato, a latere, che non basta essere “piccolo o medio editore” per essere buono. Purtroppo potrei raccontarti tante scorrettezze osservate sul campo, negli anni, protagonisti proprio i sedicenti “buoni”: se la Guardia di Finanza entrasse davvero in certe stanze, e aprisse certi cassetti [o certi faldoni] sparirebbero parecchi marchi che hanno mantenuto, direi incomprensibilmente, una loro credibilità da “piccoli editori indipendenti”, nonostante ogni anno abbiano pubblicato o stiano pubblicando un buon numero di libri spesso invisibili nelle librerie. Sono quelli che ho imparato a chiamare “libri finti”. Spesso sono stranieri. Fenomeno molto misterioso. Già.

G: Quante recensioni sono state pubblicate, sul sito di Lankelot, dal 2003 a oggi?

GF: Se consideriamo quelle scomparse dal sito, perché non più ripubblicate tra primo e secondo cambio di database, circa settemila: di queste settemila, almeno quattromilaottocento sono letterarie. Lankelot è sempre stato un sito letterario aperto ad altri mondi. Ma ovviamente era e rimaneva, fondamentalmente, un “hub per lettori forti”.

G: Tutte le recensioni di Lankelot sembrano mosse dallo stesso impegno militante – una militanza in difesa della qualità della letteratura. Come ti avvicini a un testo? Cosa cerchi, cosa trovi e cosa non trovi? Rispetto a dieci anni fa la produzione nazionale è cambiata? E se sì, in che modo? Le cause sono da cercare negli autori, negli editori o nei lettori?

GF: Come mi avvicino a un testo… mmm. Io lo fiuto. Fiuto la biografia dell’autore, fiuto la bandella, fiuto il nome dell’editore, e della collana. Fiuto il titolo. Fiuto la copertina. Senza neanche aver aperto il libro so già un sacco di cose. Abbastanza fondamentali. Cosa cerco: cerco grande letteratura o grandi documenti. Cerco stile, cerco originalità. Cosa trovo: se sono io che cerco, per librerie, bancarelle, biblioteche, trovo spesso qualcosa di buono, e di divertente, e ogni cosa buona e divertente ne porta altre tre o altre cinque con sé. Se sono gli editori che cercano per me, e mi contattano per avere una lettura o una recensione, trovo molto spesso qualcosa di fiacco, di ripetitivo, di già letto. Di inutile, in genere. E invecchiando, così come sto invecchiando io, ogni cattiva esperienza con “le nuove proposte” dell’editoria ne ha escluse altre cinque o dieci, per sfiducia nei confronti delle logiche dell’industria del libro. Negli ultimi anni non mi sembra sia cambiato molto. Mi sembra ci siano stati cambi di gestione spesso sfortunati, o snaturanti. Qualcuno è morto, qualcuno ha chiuso, qualcuno ha scialacquato milioni di euro, altri centinaia di migliaia. Qualche autore interessante, una valanga di mestieranti, di velleitari, di incoscienti e di presuntuosi. Tante pippe senza nessuna possibilità di sopravvivere. Nessuna. E tanta gente con problemi di personalità: chiamarli “disturbi di personalità” è forse più giusto.

Cosa non trovo: non trovo quasi mai l’eternità. Quasi mai. Eppure c’è. Se uno legge “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo o il recente “Mani” di Patrick Leigh Fermor se ne accorge subito. Esiste.

G: In che modo si “fa cultura” parlando di un libro?

GF: Restituendo il libro alla società in cui è stato ideato, al tempo in cui è stato concepito, al contesto letterario in cui è stato partorito, al contesto editoriale in cui ha vagito. Attualizzandolo, se necessario, ma col dovuto buonsenso, e le dovute cautele. E stabilendo, infine, parallelismi, analogie e differenze tra passato e presente, tra presente e presente, cercando di decifrare chi e cosa può avere influenzato l’artista, e in cosa è stato particolarmente personale, e intelligente. Il resto dovrebbe venire da sé. Abbastanza. Potrebbe, ecco. Può.

G: In molti tuoi scritti fai riferimento all’importanza della letteratura italiana, alla necessità di recuperarla e di porla al centro della vita culturale non solo di chi legge, ma anche e soprattutto di chi scrive. Gli scrittori italiani, sembra che tu voglia dire, guardano troppo fuori dai confini, a libri tradotti (o mal tradotti) da altre lingue, dimenticando il patrimonio che c’è in casa. Ma in questo momento, a tuo parere, qual è la letteratura italiana? Cos’è? Si può davvero parlare di un contributo originale, e riconoscibile, degli scrittori italiani? Quali sono, se ci sono, i tratti distintivi di chi scrive in lingua italiana oggi, nel 2013?

GF: In questi anni c’è una buona tendenza in atto – quella della “letteratura anfibia”; tre o quattro numeri fa, su BlowUp, ho scritto di quelli che sin qua mi sono sembrati i migliori risultati, vale a dire “Qualcosa di scritto” di Emanuele Trevi, “Sappiano le mie parole di sangue” di Babsi Jones, “Hotel a zero stelle” di Tommaso Pincio, “Ultimo parallelo” di Filippo Tuena: la letteratura anfibia è una singolare confluenza dei generi in una federazione dei generi – è la narrativa capace d’essere memoir, critica letteraria e romanzo puro [Trevi], reportage, poesia e romanzo di formazione [Babsi Jones], critica letteraria e quaderno di racconti [Pincio], saggio, album di foto e romanzo [Tuena]. Un altro libro ovviamente anfibio è stato il riuscito “Gomorra”, mezza inchiesta mezzo reportage mezza narrativa pura; va detto che forse il primo robusto anfibio è stato “Danubio” di Claudio Magris, una trentina d’anni fa. “Petrolio” di Pasolini è troppo scombinato per poter essere considerato “libro finito”, ma probabilmente puntava a essere qualcosa di simile. Credo che questa tendenza alla commistione di generi sia particolarmente fertile, e potenzialmente possa dare risultati originali, e comunque molto rilevanti, nel tempo. Dovrei averti risposto. Altro discorso andrebbe riservato alla poesia, altro ai racconti, altro ai frammenti o agli sketch, altro ai “romanzi canonici”, altro ai romanzi di genere, ma ho la sensazione che potremmo allargarci troppo.

G:  Alla tua attività di lettore – lettore forte, industriale nel senso del volume di cose lette – si affianca la tua attività di scrittore. Il tuo curriculum spazia dal romanzo al saggio, dall’analisi dei testi dei Radiohead alla poesia. Qual è il filo conduttore di queste tue opere?

GF: Ho cominciato scrivendo versi. Ho dedicato tanti anni alla poesia: ho letto veramente tanta poesia, non soltanto italiana e latina, e ho scritto pensando, sempre, a un “canzoniere”, a una raccolta completa e molto ragionata. Questa raccolta è uscita cinque anni fa, si chiama “L’inadempienza”. Come poeta non ho più niente da dire da quando ho concluso quel lavoro, durato oltre quindici anni. Non voglio più scrivere versi e leggo molto faticosamente libri di poesia. È come se fosse stato un libro postumo pubblicato in vita. Negli ultimi anni in cui scrivevo versi ho cominciato a scrivere racconti. Ho pubblicato due raccolte di racconti: una a livello indie, con Il Foglio di Gordiano Lupi. Si chiama “Disorder” e contiene 27 pezzi. L’altra a livello serio, con la Castelvecchi. Si doveva chiamare “New Order” ma è stata stampata come “Monteverde”, e contiene 47 pezzi. In mezzo a queste due raccolte di racconti c’è un antiromanzo, si chiama “Pagano” [per l’isola di Pago, in Dalmazia] e nella seconda metà contiene quella che qualcuno considera una delle mie migliori cose in narrativa, cioè una scena che dura una quarantina di pagine, con tutta una serie di bizzarri personaggi e qualche metamorfosi. Ho scritto questi tre libri tra 2005 e 2007, prima dei trent’anni. Sono usciti tra 2006 e 2009. “Monteverde” ha avuto una bellissima rassegna stampa, ha venduto mille copie e qualcosa e ha mancato per un niente la traduzione in spagnolo. Poi stop. Ho scritto racconti, per lo più commissionati, pensando a una raccolta che per ora non uscirà che si chiama “Il dodo” e vorrei contenesse tutti i miei racconti usciti tra riviste, siti e cose del genere tra il 1997 e l’anno x. Come saggista, ho pubblicato nel 2009 un libro di critica letteraria sui testi dei Radiohead, commissionato da Arcana cinque-sei anni fa: ha venduto abbastanza, ha avuto due robuste edizioni, esaurite da un pezzo, ma l’editore ha smesso di versarmi quanto dovuto da due-tre anni. Quindi è stato un lavoro rovinato, che mi ha fatto disprezzare molto l’editoria romana. Avevo dato il sangue per quel libro, per un anticipo da poco più di mille euro. Sono molto arrabbiato e molto sfiduciato per questa storia. Infine, ho scritto un antisaggio sull’arte del piano b, due anni fa, per una favolosa piccola casa editrice pratese: la Piano B, appunto. È un libro estraneo ai generi, molto più serio, disperato e sincero di quello che sembra. Mi sono tolto qualche soddisfazione, come vedi. Ma sono fermo da un bel pezzo.

In tutto questo, ho pubblicato in quindici anni una cosa come 1700 schede di lettura, recensioni o saggi brevi, tra Lankelot, quotidiani, riviste e webzine. Non ho mai smesso di cercare.

G: In un tuo intervento pubblicato nel sito dell’agenzia Vicolo Cannery, scrivi:

«Cos’è un grande romanziere? È uno che ha deciso di mettere un punto a capo alla sua ricerca della verità: ha accettato il grado di conoscenza e di comprensione della realtà, e dell’alterità, che sin lì ha acquisito, e sulla base di quel grado ha deciso di disegnare un mondo: ha scelto di disegnare, colorare, osservare quel mondo; di criticarlo, di dominarlo. È uno che ha un’ideologia». 

e poi

 «Un grande romanziere è un uomo presuntuoso, probabilmente un arrogante». 

 e dopo

«L’ultima volta che ho scritto un romanzo ero pieno di buoni, forse grandi sentimenti, ma rispetto ad oggi non ci capivo niente. O non sapevo abbastanza. O non avevo letto abbastanza. O non avevo vissuto abbastanza. O non avevo cercato abbastanza. Fumavo, mi davo qualche aria, bevevo, scopavo, ridevo, giudicavo. Giudicavo tanto. Leggevo tanto, ma soprattutto mi sentivo bravo. Bravo nonostante. Pieno di talento, o comunque predestinato. Segnato. Mica lo sapevo che quello era l’approccio giusto».

e concludi scrivendo:

«Guardo queste mie mani che non servono proprio a niente. A dare una carezza a mia figlia, a stringere forte mia moglie. Cosa sono, io, letterato trentacinquenne, nell’Italia umiliata dal forzismo, e da quasi settant’anni di servitù americana? Sono carne da macello, sono carta da vetri. Sono un giocattolo di legno. Sono poco più di niente. Ma non so scrivere romanzi, in coscienza. Non sono abbastanza stupido, o almeno: non sono più incosciente».

 

Considero questo intervento come uno dei pezzi più importanti, e più forti, usciti negli ultimi mesi in Italia. Non ti chiedo di commentare quello che hai scritto, ma vorrei sapere se qualcosa è cambiato dal quel giorno – se quello era uno sfogo rabbioso che ti è servito per ripartire, o se invece quella sensazione di non poter essere un romanziere – perché richiederebbe spocchia, arroganza, e un’ideologia onnicomprensiva – è ancora con te…

GF: Intanto ti ringrazio. Pochi giorni fa, camminando con mia moglie e mia figlia per viale Miramare, dalle parti dell’ostello della gioventù, ho ricordato due o tre scene buffe di quel romanzo. L’ho scritto a ventidue, ventitre anni, quando credevo che la letteratura fosse un tempio e l’università qualcosa di sacro, e via dicendo. E credevo anche che la realtà fosse una cosa un po’ diversa, e così il concetto di “società letteraria”, e di “verità”, in genere. Quindici anni dopo non so come ho fatto a scrivere un romanzo. Non me ne capacito. Mi sembra tutto lontanissimo. Sono contento che quel libro non sia mai uscito.

Nel racconto che dici, nel frammento che dici, questo uscito su “Vicolo Cannery”, ho detto tutto il resto, credo. Non credo che riuscirò a uscirne, a uscire da questo stadio, dico, se non scrivendo qualcosa di molto diverso da tutto quel che è già stato pubblicato in passato. Qualcosa di veramente nuovo. Un anfibio totale. Qualcosa di mio, e di definitivo. E poi basta, poi fine. Poi soltanto racconti, soltanto schede di lettura, e tanta letteratura, ma da fiutare.

Gianfranco nel suo studio
Gianfranco nel suo studio

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La foto di copertina (statua di Svevo a Trieste) è stata scattata da Giulia Cortigiano e l’ho trovata su Flickr: http://www.flickr.com/photos/giuppy/1323158172/

6 commenti Aggiungi il tuo

  1. Mario Capello ha detto:

    Anche solo per aver ricordato Stuparich, Franchi ha tutta la mia simpatia. Grande.

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  2. Zio Scriba ha detto:

    Grandissimo Paolo!
    La maggior parte dei giornali italioti non mi verrebbe più voglia di leggerli neppure se fossero gratis, mentre sarei disposto a sottoscrivere un abbonamento pur di leggere grafemi!
    Questa magnifica intervista è l’ennesima perla, e non fa che confermare quella mia opinione.
    Scrittori italiani viventi e intellettuali italiani viventi sono entità rarissime (quasi delle contraddizioni in termini, ormai…): averne sotto gli occhi uno che ne intervista un altro è davvero un raro privilegio.

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  3. ellagadda ha detto:

    Mi viene in mente anche la collaborazione della Coop alla promozione di concorsi per sceneggiature, poesie, racconti, ora anche canzoni d’autore, o anche il sito ilmiolibro.it che credo funzioni più o meno come un social-network.
    Penso anche ai microracconti, quelli distribuiti nelle metropolitane o negli autobus, oppure alle miriadi di riviste, cartacee e non, che raccolgono di tutto, oppure, ancora, penso alle scuole di scrittura, ai workshop di scrittura, ai master, ai tanti maestri di scrittura.
    Sono contenta di trovare citato “Il male oscuro” 🙂

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    1. Paolo Zardi ha detto:

      Grande libro, “Il male oscuro”! Ed è un peccato che sia sparito, che non si continui a riconoscerne la grandezza…

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